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Francesco Amorosino

Francesco Amorosino

Il Gatto con gli stivali: recensione

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il-gatto-con-gli-stivali-locandinaSeduttore, ribelle, cavalleresco, abile con la spada, ma pur sempre un felino la cui arma migliore sono i grandi occhioni dolci. È il Gatto con gli Stivali, uno dei personaggi più amati della saga dell’orco verde Shrek che sbarca nelle sale con un film tutto suo, forte dell’interpretazione di Antonio Banderas (che lo doppia anche in italiano), affiancato da Salma Hayek nel ruolo della micia Kitty Zampe di Velluto (che sembra quasi un omaggio alla Gatta Nera dell’universo di Spider-Man).

Il film è un prequel che ci racconta il percorso del Gatto prima di divenire leggenda, a partire dalla sua infanzia, passata in orfanotrofio a San Ricardo, passando per la sua amicizia con Humpty Dumpty, un bizzarro uovo umanoide con la fissa di trovare l’Oca dalle Uova d’Oro e diventare ricchissimo, fino al momento in cui conquista i suoi stivali “simbolo di onore”. Sarà proprio la ricerca del tesoro custodito nel castello alla fine della pianta di fagioli magici il fulcro dell’avventura che porta il nostro protagonista a ritrovare l’amico d’infanzia perduto e ad allearsi con la gattina seducente. Il compito non è di certo semplice e gli intrighi e i tradimenti non mancano, ma alla fine il nostro eroe avrà l’occasione per redimersi dalle malefatte che ne hanno fatto un ricercato e recuperare parte dell’onore perduto, sempre rimanendo, però, sul confine tra l’imbroglione e il buono di cuore.

La pellicola esce, ovviamente, in 3D, ed è una vera festa per gli occhi, grazie a una serie di evoluzioni e acrobazie feline spettacolari, oltre a scene di forte impatto visivo dove la stereoscopia compie vere magie, prima fra tutte la crescita della pianta a partire dai fagioli magici e la visione del mondo oltre le nuvole. Meno incisiva, però, la trama, che non brilla per complessità, nonostante alcuni spunti interessanti, ma soprattutto mischia alcuni elementi favolistici senza un vero motivo, perdendo in parte quella giusta coerenza d’atmosfera della saga di Shrek. C’è troppo Zorro e troppo western, relegando il mondo delle fiabe sullo sfondo, concedendo alla magia e alla follia a cui l’Orco Verde ci aveva abituati poco spazio. Si nota una fascinazione eccessiva per l’aspetto latino, perdendo la componente medioevale da bosco incantato.

Inoltre, il personaggio stesso del Gatto non è valorizzato nelle componenti che più hanno colpito i suoi fan, cioè l’essere, appunto, un gatto. Troppo eroico, troppo macho rispetto ai film precedenti, limitando a poche sequenze i momenti più ‘felini’ e ironici, come quando insegue d’istinto un riflesso di luce o ordina un ‘leche’ al bar. Soprattutto troppo poco ‘occhioni dolci’. Molto bizzarri anche i comprimari, a cominciare da Humpty, personaggio delle filastrocche da noi praticamente sconosciuto e qui accostato senza particolari ragioni al Gatto. Nel complesso dunque ne emerge un film tutto sommato pulito, destinato a un pubblico più giovane rispetto a quello che ha amato Shrek, ma comunque godibile come intrattenimento natalizio. Forse dagli inventori dell’esilarante franchise ci si poteva aspettare qualcosa in più.

Super: recensione

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Super_posterQuando viene lasciato dalla moglie Sarah (Liv Tyler), ex tossicodipendente ricaduta nel baratro per colpa dello spacciatore psicopatico Jacques (Kevin Bacon), per Frank (Rainn Wilson) la vita cambia drasticamente. Il matrimonio è sempre stato per lui uno dei due momenti più importanti nella vita (a parte quando aiutò un poliziotto a catturare un ladro), e perderlo significa perdere se stesso. Per questo decide di fare di tutto pur di far tornare Sarah da lui, abbandonando il suo carattere piagnucoloso e remissivo per vestirsi di nuova forza, sia nella mente che nel corpo. Nasce così Saetta Purpurea, un supereroe fatto in casa pronto a sconfiggere il male. Sono queste le origini segrete del protagonista di Super, film in uscita il 21 ottobre, che all’apparenza si propone come un nuovo ‘must’ per gli appassionati del genere e per chi ha scoperto i ‘Real Life Superheroes’ grazie al successo di ‘Kick Ass’.

In realtà Super è del tutto diverso dalla pellicola tratta dal fumetto di Mark Millar: qui non ci troviamo di fronte a un nerd appassionato di fumetti che vuole essere il primo supereroe del mondo reale, ma a una persona totalmente amorfa che scopre per caso l’esistenza dei supereroi in un modo a dir poco singolare. È quando vede in televisione, infatti, il telefilm del ‘Santo Vendicatore’, sorta di eroe mascherato cattolico, pronto a sconfiggere il diavolo tentatore che porta, ad esempio, i ragazzi a fare sesso prima del matrimonio, che sente una vera e propria chiamata divina e grazie a una visione mistica decide di imitare quel personaggio fittizio. Frank decide dunque di far rispettare le ‘regole di sempre’: non si molestano i bambini, non si sniffa, non si graffiano le automobili, addirittura non si salta la fila per entrare al cinema. La pena è un bel colpo in testa con una pesante chiave inglese. Le cose si fanno più serie quando decide di affrontare la banda di Jacques e allora scopre di aver bisogno di un’assistente, Saettina (Ellen Page), lei sì appassionata di fumetti e subito pronta a diventare una supereroina. Scopriranno entrambi quanto sia difficile esserlo nella realtà in un mondo sporco, triste e volgare dove loro stessi non sono da meno.

Il film di James Gunn non riesce, purtroppo, a raggiungere il pubblico a cui vorrebbe essere destinato, anzi, fatica a trovare un pubblico adatto alla sua visione. In un certo senso scontenta tutti. Non è rispettoso verso il mondo dei supereroi, ma neanche dissacrante in modo intelligente, sembra anzi volerlo criticare in modo non costruttivo, demolirlo senza indagarne le vere radici. Non è neanche rispettoso verso quella cultura nerd che oggi sta uscendo dall’anonimato e che viene presa di mira nel bene e nel male da diversi mezzi espressivi. È un film profondamente religioso e legato all’immaginario cattolico americano, dove bisogna attenersi a delle regole ferree e se si sbaglia si viene puniti duramente. È pieno di una violenza fine a se stessa e spesso esagerata, ma senza i sorrisi provocati dallo splatter ridicolo, anzi nel suo realismo riesce a essere di cattivo gusto e disturbante.

Al di là della bravura del protagonista, capace di passare attraverso diversi stadi emotivi e cambiamenti caratteriali, gli altri personaggi sembrano piatti e relegati in dei ruoli che gli vanno stretti. Complice anche un ritmo lento e una storia tutto sommato senza particolari colpi di scena o invenzioni degne di nota, a parte l’impianto cattolico delirante, il film non cattura lo spettatore e lascia un senso di nausea e di disturbo, culminante in un buonismo finale senza scampo.

Cowboys & Aliens: recensione

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cowboys-aliens-posterCosa accadrebbe se degli esseri extraterrestri atterrassero in America all’epoca del Vecchio West? Come reagirebbero gli umani a un simile incontro? Sarebbero capaci di difendersi o soccomberebbero a qualcosa di tanto inimmaginabile? A queste domande cerca di rispondere Cowboys & Aliens, nuovo blockbuster del regista di Iron Man Jon Favreau sostenuto da un gruppo di grandi produttori, a partire da Steven Spielberg. Ispirato al graphic novel di Scott Mitchell Rosenberg dei Platinum Studios, il film basa la sua essenza sul titolo: prendere due icone dell’immaginario cinematografico americano e metterle insieme in un'unica storia, fondendo generi e ambientazioni.

La storia ha come sfondo la città decadente di Absolution nel territorio del New Mexico, l’anno è il 1875. Un uomo, il nostro protagonista, (interpretato da Daniel Craig, reduce dall’impegno con James Bond) si sveglia all’improvviso da solo in un ambiente desertico senza ricordare nulla del suo passato. Il particolare più discordante è uno strano bracciale metallico che si ritrova al polso e dal quale non riesce a liberarsi. Arrivato in città l’uomo rimane invischiato subito nelle dinamiche di quel luogo che ha perso il vigore di un tempo, ormai sostenuto soltanto dal giro d’affari delle mandrie del colonnello Dolarhyde (interpretato da un durissimo Harrison Ford) e succube dell’esuberanza del figlio del ricco uomo, Percy. Qui scopre la sua vera identità: è Jake Lonergan, un pericoloso criminale che ha rubato l’oro di Dolarhyde e pertanto viene arrestato dallo sceriffo del paese.

È proprio quando sta per essere portato nella prigione di Santa Fe che tutto cambia: spuntano strane luci in lontananza e la città viene presa d’assalto da navi volanti pronte a distruggere le case e rapire gli abitanti. L’unico che riesce a fare qualcosa è proprio Jake grazie al misterioso bracciale che si rivela un’arma capace di abbattere i velivoli alieni. All’alba comincia la riscossa: un drappello di uomini parte per andare a salvare gli uomini rapiti dai ‘demoni’, come li chiama il prete del paese, unico modo che ha quella gente per comprendere qualcosa di così estraneo alla propria visione del mondo. Con loro c’è anche Ella (Olivia Wilde), una giovane e avvenente donna che fin dall’inizio ha seguito Jake ritenendolo la chiave per raggiungere i suoi misteriosi scopi. La lotta tra cowboy e alieni vedrà i nemici di un tempo coalizzarsi contro un avversario più grande di loro: persone comuni, banditi, perfino gli indiani Chiricahua, tutti pronti a dimostrare che insieme è possibile sconfiggere ogni minaccia.

Se la parte cowboy del film risulta, soprattutto all’inizio, interessante e con degli ammiccamenti ai classici del genere, meno elaborata appare quella fantascientifica, che non brilla per nessuna trovata particolarmente interessante. Il pregio della pellicola è di riuscire nell’impresa non certo facile di mischiare due generi tanto distanti tra di loro, purtroppo però lo fa nella maniera più didascalica possibile ovvero estrapolando quasi tutti i cliché del western e dalla fantascienza e unendoli. I protagonisti della vicenda sono i personaggi tipici di un film sul Far West, gli stessi alieni sono molto banali sia nel look che nelle tecnologie, tanto da sembrare ricalcati su capisaldi del genere come ‘Alien’ o ‘Predator’.

Mancano le grandi scene epiche originali, con un’unica eccezione, che non sveleremo, che più colpisce per capacità di suscitare paura e disorientamento senza cadere nel banale. Dall’unione dei due mondi, però, non riesce a nascere qualcosa di nuovo e di unico, ma soltanto la riproposizione di scene già viste e riviste, mentre questa poteva essere l’occasione perfetta per osare un po’ di più, per offrire al pubblico un’esperienza ancora più intesa e creare un genere distinto o comunque un nuovo immaginario e non una semplice unione di elementi. Questa incapacità di creare una vera alchimia si avverte anche, ad esempio, nella musica, che si mantiene su toni da film horror, ma inserisce pezzi western senza integrarli davvero.

Il tutto alla fine si riduce a un bel giocattolo, un film che comunque riesce ad appassionare e a intrattenere, ma non si spinge oltre, perdendo presto il sapore innovativo iniziale per finire in logiche da videogioco. È un vero peccato che l’industria cinematografica americana non riesca a proporre in questo momento delle vere novità, appiattendosi su visioni stereotipate per accontentare un pubblico che forse, invece, è pronto a provare qualcosa di nuovo.

Captain America: Il Primo Vendicatore - La recensione

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"Un uomo debole conosce il valore della forza. Un uomo debole conosce il valore della compassione". È la frase che il professore Abraham Erskine vuole che resti impressa nella mente e nel cuore del giovane Steve Rogers, un ragazzo gracile e debole, cresciuto sulle strade di Brooklyn, vittima dei bulli ma sempre pronto a reagire, nonostante la prospettiva di una vittoria fosse impossibile. Steve non scappa di fronte al pericolo e con lo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale decide di arruolarsi per combattere e contribuire a raggiungere la pace, così come ha fatto il suo grande amico Bucky Barnes. Le sue pessime condizioni di salute, però, gli rendono impossibile l'ammissione nell'esercito, fin quando è proprio il professore Erskine a riconoscere il suo valore che non sta nei muscoli, ma nella caparbietà, nella limpidezza delle sue intenzioni e degli ideali e per questo gli offre l'occasione di cambiare. Per Steve Rogers comincia un duro cammino che lo porterà a essere il più grande eroe della guerra: Capitan America.

È proprio quel cammino il cuore della trasposizione cinematografica del più famoso supereroe dell'universo Marvel, la storia di un ragazzo che non aveva nient'altro che la sua forza d'animo per raggiungere il suo sogno e ha dovuto lottare contro tutti per portarlo a compimento. La pellicola diretta da Joe Johnston, infatti, non si concede subito alle scene d'azione trionfanti, ma indugia sulla storia di Steve Rogers, sorprendendo non poche volte, mostrando un uomo smilzo e basso divenire forte nel fisico grazie al siero del supersoldato, ma ricordandoci che se anche la mente non diviene talmente potente da saper andare anche contro corrente, i pugni non bastano. Rogers, infatti, non viene lanciato in prima linea come soldato, ma all'inizio non è che uno strumento di propaganda, indossando una tuta ridicola che piace soltanto ai bambini e dando vita alle scene più divertenti del film. Solo quando capisce che un simbolo va costruito e il nome guadagnato sul campo, anche trasgredendo agli ordini, si trasforma davvero in Capitan America.

Nemesi e controparte assoluta dell'eroe è un nemico senza mezze misure: Johann Schmidt, il capo del dipartimento di ricerca scientifica della Germania di Hitler, chiamato Hydra. Ossessionato dalla mitologia nordica il gerarca nazista metterà le mani su un oggetto preziosissimo, il Tesseract, una fonte di energia praticamente infinita racchiusa in un cubo grande come una mano. Da quel momento il suo obiettivo sarà uno solo: conquistare tutto il mondo grazie a quel potere, imbrigliato con l'aiuto del dottor Arnim Zola. Ma Schmidt nasconde un segreto sotto la maschera con le sue antiche sembianze: anche lui ha assunto il siero del supersoldato in una versione ancora non perfezionata che gli ha deturpato il volto trasformandolo nel Teschio Rosso.

Se il film risulta appassionante, condito da dialoghi brillanti e ben interpretato da un cast azzeccato nella prima parte, perde di spessore nella seconda, quando la battaglia tra l'esercito americano e l'Hydra scende in campo aperto. Una trama troppo lineare porta allo scontro finale e alla sconfitta del malvagio senza, però, che ci sia mai stato un vero rischio e alla fine non è solo grazie al coraggio che Steve Rogers riesce a trionfare, ma anche a causa della stupidità di nemici incapaci di contrastarlo nonostante il grande potere che hanno in mano. Il Teschio Rosso è un nemico senza alcun approfondimento caratteriale: la sua è pura brama di distruzione e in questo senso si oppone alla fermezza degli ideali di Capitan America. Sarebbe bastato pochissimo per sconfiggere l'eroe, eppure i cattivi si lasciano battere quasi senza combattere.

Al di là di questa nota, però, il film riesce a catturare lo spettatore anche grazie alla maestria degli attori in campo. Chris Evans, svestiti i panni della Torcia Umana nei due film dei Fantastici Quattro, riesce a dare corpo e calore al personaggio di Steve Rogers, e riesce a offrire un Capitan America alle prime armi che seppure non ha il carisma che conquisterà come leader dei Vendicatori, di certo lascia intravedere l'uomo che diventerà. Bravissimo e profondo Stanley Tucci nei panni di un Erskine profondo e sfaccettato; preciso e azzeccato Tommy Lee Jones nel ruolo del Colonnello Chester Phillips, comandante della divisione a cui fa capo Rogers, capace di dare spessore a un personaggio che rischiava di venire sommerso dalla forza degli altri. Hugo Weaving riesce a essere espressivo e terrificante anche indossando la pesante maschera del Teschio Rosso (anche se quest'ultima avrebbe potuto essere più spaventosa) e dà una forza a un cattivo forse sottoutilizzato nella pellicola in favore del protagonista. Davvero splendida Hayley Atwell nel delineare una Peggy Carter, soldatessa dirigente della sezione scientifica dell'esercito di cui Steve si innamora perdutamente, decisa e perfetta, sensuale, ma algida.

È peccato, però, che alcuni personaggi non abbiano trovato un approfondimento maggiore, relegati al ruolo di comprimari da accostare al protagonista. È il caso di Bucky Barnes (Sebastian Stan), fondamentale nel mondo dei fumetti come spalla di Capitan America, ma qui relegato al ruolo di compagno d'armi senza spessore. Anche gli altri commilitoni di Steve non godono di grande forza e non vengono neanche presentati con i loro nomi nella pellicola. Così solo i fan sanno individuare gli Howlin Commandos capitanati da Dum Dum Dugan (Neal McDonough), mentre per chi non conosce il mondo di Cap sono solo dei soldati come tanti. Se Toby Jones riesce a creare un buon Arnim Zola, il ruolo che sorprende maggiormente è quello di Dominic Cooper nei panni di Howard Stark, padre del più celebre Tony, il futuro Iron-Man. L'inclusione di questo personaggio nella pellicola può sembrare fuori posto all'inizio, ma poi si amalgama con la storia e diventa anonimo senza puntare sulle sue caratteristiche particolari, relegandosi a una non troppo riuscita strizzata d’occhio ai fan.

Molto buoni i costumi di Capitan America e davvero sensazionale lo scudo rotondo, credibile nelle scene d'azione e utilizzato in diverse interessanti combinazioni che contribuiscono a dare vita a combattimenti non scontati. Meno interessanti, invece, le armi dei nemici, che non riescono veramente a spaventare. Il 3D, utilizzato, come è ora moda, anche in questa pellicola, non si fa quasi avvertire, risultando poco incisivo e trascurabile, così come la colonna sonora non memorabile. Gli effetti speciali non regalano particolari emozioni, tranne per l'impressionante metamorfosi di Evans nello smilzo Steve Rogers, davvero ben fatta e sorprendente. Una pellicola, dunque, riuscita solo fino a un certo punto, che funziona nei momenti dedicati al suo protagonista, ma si perde nel contorno, nonostante tante ottime idee che portano Capitan America a essere un film fuori dal comune con alcuni lampi di genio, come la scena quasi musical con Capitan America sul palcoscenico, per poi, purtroppo, appiattirsi nell'azione. Questo film, però, offre moltissimi spunti da sviluppare e importanti pezzi del grande mosaico che si comporrà con il film corale The Avengers, che si spera non vadano persi ma possano contribuire a sviluppare l'era Marvel al cinema.

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