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Francesco Amorosino

Francesco Amorosino

Dylan Dog - Il film: recensione

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dylan-dog-movie-poster1Sclavi è il nome di un vampiro dormiente, che si ridesta per un attimo quando l'eroe lo sveglia per sbaglio, ma poi ritorna subito al suo riposo. Il maldestro omaggio a uno dei re del fumetto italiano è la perfetta metafora della trasposizione hollywoodiana di Dylan Dog: messa da una parte l'origine del personaggio, con un coinvolgimento a dir poco minimo della casa editrice che gli ha dato i natali, l'America cannibalizza con la peggiore arroganza di cui è capace ciò che non riesce a capire fino in fondo. Forse non si tratta di malafede, ma proprio di un, spiace dirlo, abisso culturale.

Il fenomeno è stato evidente a Roma, dove oggi, 15 marzo, appena un giorno prima dell'uscita cinematografica in 300 copie, è stato presentato alla stampa in prima mondiale il film sul detective dell'incubo, alla cui proiezione è seguito un incontro con il regista della pellicola Kevin Munroe. Fin da subito si era capito che non sarebbe stata una passeggiata, con i tanti giornalisti in sala che, come la stragrande maggioranza degli italiani, sono fan del personaggio, uno dei migliori eroi seriali di tutti i tempi. Se prima della visione della pellicola, già in parte svelata in occasione di vari festival ma mai presentata in forma integrale, c'era qualche mormorio, dopo pochi minuti le speranze di vedere sullo schermo qualcosa di ciò che si è letto nei fumetti spariscono del tutto e si prova a godersi quel poco che c'è, senza però riuscirci.

La cosa incredibile è che gli stessi produttori sono consapevoli della mancanza di originalità della pellicola: "Cosa succede se si mischiano due parti di Underworld, una parte di Zombieland e al tutto si unisce una spruzzata di Grosso guaio a Chianatown? Si ottiene un horror/commedia/thriller originale e bizzarro tratto dal graphic novel italiano di maggior successo di tutto i tempi: Dylan Dog". Ora, al di là dei giudizi tecnici (Dylan Dog un graphic novel?) e sul valore del fumetto per noi italiani, ciò che sfugge ai creatori del film è che mischiando le pellicole citate non si ottiene affatto Dylan Dog, ma un'accozzaglia senza arte né parte.

La storia infatti sembra una copia proprio di Underworld con la classica lotta tra vampiri e licantropi in cui Dylan Dog è una sorta di arbitro incaricato di tenere la pace in una New Orleans tenebrosa e fatiscente, finché, a causa della morte della sua ragazza per mano dei vampiri, decide di farla finita con quel mestiere e diventa un banale detective privato. Quando una nuova ragazza lo contatta perché suo padre è stato ammazzato da un mostro, gli amici e nemici del passato ritornano a fargli visita, portando alla morte del suo assistente pseudo irlandese, poi tornato in vita, però, come zombie. Compito di Dylan sarà evitare una nuova guerra tra le fazioni, oltre a impedire la rinascita di un demone antico, scrollandosi di dosso, tra l'altro, l'infamante accusa di essere solo un cacciatore di mostri.

Il protagonista, interpretato da Brandon Routh, balzato alle cronache per aver dato il volto all'Uomo d'Acciaio nella brutta esperienza di Superman Returns, ha davvero poco della profondità di espressioni e movenze tipica di Dylan, giocando tutto il suo "fascino sullo sguardo e risultando freddo nell'interpretazione. Assolutamente inutile la bella di turno, Elisabeth, incarnata da Anita Briem, mentre risultano convincenti il capo dei licantropi Gabriel (Peter Stromare) e quello dei vampiri, Vargas (Taye Diggs). Una nota a parte merita Sam Huntington che dona al personaggio di Marcus, l'assistente di Dylan diventato zombie, una leggerezza e al tempo stesso uno spessore che sono l'unico tratto interessante del film. Il suo cammino per accettare la sua condizione di non-morto è, infatti, forse il solo filone originale della pellicola, per il resto una lunga serie di "già visto".

I colleghi in sala non hanno di certo nascosto la delusione generale sottolineando più volte le enormi differenze tra il film e il fumetto e chiedendo al regista se fosse consapevole che i fan non la prenderanno certo bene. "Ogni volta che cerchi di interpretare un'icona c’è il rischio che non si riesca a renderla al meglio in un film, allora si cerca di restare il più vicino possibile allo spirito. Non si può appiccicare il fumetto sullo schermo", ha replicato il regista evidenziando, ad esempio, che il problema del maggiolone di Dylan diventato nero a causa di problemi di copyright con la Disney "non è importante, perché in ogni film la batmobile cambia, ma non è questo che rende diverso Batman".

Infatti il problema non è proprio quello dell'automobile, l'ultima delle preoccupazioni, ma tutto il resto. Il personaggio solitario, scettico, ingenuo, poco incline a usare le armi, innamorato più dell'amore che delle donne di cui si innamora, sullo schermo non c'è. Al suo posto un fusto senza espressioni che afferra pistolacce in entrambe le mani "scatenando l'inferno" sui non morti. L'apoteosi dell'americanata fine a se stessa. E non basta di certo fargli esclamare un "Giuda ballerino", peraltro solo nell'edizione doppiata in italiano, per migliorare la situazione.

Quasi commovente in conferenza stampa l'intervento di una giornalista che ha cercato di far capire al regista come il presunto spirito che ha voluto conservare nel film non esiste proprio: "Le faccio i miei complimenti, ha fegato a venire qui, nella tana del leone. Qui Dylan Dog è letto da tutti, non solo dai nerd, le ragazze a scuola sognano di uscire con lui, è un fumetto da adulti, quindi perché avete voluto abbassare così tanto il target?", cioè perché è diventato Twilight condito da Buffy e Tomb Raider? Il regista ha replicato che non è vero che il target è stato abbassato, anzi, solo che in America il film è vietato ai minori di 13 anni e quindi bisognava togliere degli elementi splatter. "Il film è una collezione di tante idee, le mie, quelle degli attori e degli sceneggiatori e quindi è normale che sia una cosa diversa rispetto all'originale".

Ovviamente è impossibile esprimere un giudizio completo sull'operato del regista in quanto non si conoscono tutti i retroscena dei rapporti tra gli sceneggiatori o la produzione, ma ciò che ha lasciato tutti perplessi è proprio questa convinzione di Munroe di aver rispettato lo spirito del detective dell'incubo. "Dylan Dog è un antieroe, lotta per gli ideali del mondo, si trova più a suo agio con il surreale che con il reale, per questo mi è piaciuto il personaggio, così diverso dagli eroi americani", ha detto. Ma quanto si può capire davvero un personaggio se, come ha raccontato, si sono letti solo i sei volumi usciti negli USA e non i quasi 300 episodi italiani della serie regolare più i tantissimi speciali? Sembra proprio che ci sia un abisso culturale tra i lettori italiani e la mente degli americani, incapaci di capire il vero spirito di un fumetto europeo, ma profondamente nostrano anche se ambientato a Londra, e dover condire il tutto con quegli stereotipi senza senso di cui è pieno il loro immaginario per poter arrivare a "un vasto pubblico", che forse ha voglia di qualcosa di diverso. Se Dylan è un antieroe diverso da quelli americani, come ha detto il regista, perché lo si fa sparare ai vampiri come se fosse Blade?

Intanto si parla già di sequel: "Non ci sono ancora notizie ufficiali, l'idea di certo c'è e io vorrei essere coinvolto in prima persona, prima però si deve vedere quanto incassa questo film. In futuro c'è l’idea di portare Dylan in Europa, magari di girare qualcosa in Italia, introducendo Bloch e Xabaras come cattivo e anche il suo rapporto con la madre, ma quando introduci un mondo per la prima volta è difficile mettere tutti questi elementi". Ora non vi resta che andare al cinema e vedere con i vostri occhi: prendetelo come un "what if?": "Cosa sarebbe successo se Dylan avesse compiuto tutte le scelte sbagliate e avesse ceduto al lato oscuro delle scelte commerciali?". La risposta sullo schermo.

L'orso Yoghi: recensione

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L-orso-yoghiDivertente, leggero, ma con scene mozzafiato e non senza morale e lieto fine, arriva nelle sale il film sull'Orso Yoghi, uno dei cartoni animati più amati di tutti i tempi, che sul grande schermo acquista una dimensione in più. La pellicola, infatti, è girata in 3D e Yoghi e Bubu, suo inseparabile amico, interagiscono con personaggi umani in un film che farà la gioia di tutti i bambini, in quanto contiene tutti gli stereotipi possibili, dalle “puzzette” alle torte in faccia, conditi con elementi avventurosi e immaginifici, come i "frizzi e lazzi", una corsa sugli sci d'acqua nel lago unita a uno spettacolo da mangiafuoco, oppure la corsa sulle rapide e il volo su un trabiccolo ruba-merende.

La voracità dell'orso si rivolge, infatti, come sempre ai cestini da pic-nic portati dai campeggiatori nel parco di Jellystone, suo luogo natio, ma sotto la responsabilità del ranger Smith, acerrimo nemico di Yoghi, tutore della legge e irriducibile seminatore di cartelli con scritto "Non dare da mangiare agli orsi". Questa volta, però, i due dovranno allearsi, perché il sindaco Brown e il suo “leccapiedi” vogliono chiudere il parco di Jellystone per abbattere gli alberi e venderli così da rimettere in sesto il disastroso bilancio. C'è solo una settimana per salvare il parco, dimostrando che è un'attività più remunerativa se rimane aperto, e così il ranger Smith (Tom Cavanagh), grazie all'aiuto di Rachel (Anna Faris), una documentarista capace di riprodurre i versi e le tecniche di combattimento degli animali con cui ha vissuto, la quale, inevitabilmente, finirà per innamorarsi del guardia parco, farà di tutto per salvare Jellystone. Ma Yoghi (doppiato in originale da Dan Aykroyd), e Bubu (doppiato da Justin Timberlake) saranno di aiuto oppure no? E che dire del ranger Jones (T. J. Miller), vice di Smith diviso tra la volontà di far presto carriera e il dovere di preservare la natura?

Yoghi e Bubu sono apparsi per la prima volta in televisione nel 1958, all’interno del programma di Hanna-Barbera 'Braccobaldo Show', e furono la prima serie di cartoni animati a vincere un Emmy Award per il miglior programma per bambini. La popolarità della coppia ha portato nel 1961 a uno spin-off, seguito da un fumetto e, nel 1964, al debutto sul grande schermo. Negli anni seguenti, lo spensierato scroccone e il suo fedele amico sono apparsi in numerose serie, special, film e raccolte DVD. Per il loro primo film in 3D la regia è stata affidata a Eric Brevig, che aveva debuttato nel 2008 con il poco fortunato “Viaggio al centro della Terra 3D”.

“Ho sempre amato Yoghi”, ha raccontato il regista, “fa le cose a modo suo, ha buone intenzioni, ma è la gola che lo tradisce e non riesce a resistere all’impulso di afferrare il cibo e portarselo via. È un bambinone e penso che rappresenti qualcosa che è in tutti noi". Girato interamente in 3D con una fotografia di ultima generazione, che Brevig definisce "il massimo dei sistemi", Yoghi ha un ottimo impatto visivo, sia per la sensazione di realtà che danno gli orsi senza però perdere quel tocco di cartone animato che li rende ciò che sono, sia per le scene in cui il 3D dà il meglio di sé scaraventando oggetti e animali fuori dallo schermo, tanto che i bambini non potranno non saltare sulle poltrone.

Il film è stato girato nella Woodhill State Forest, una meta molto popolare, che si estende per circa 36000 acri a ovest di Auckland, Nuova Zelanda. La pineta, però, è stata adattata dallo scenografo David R. Sandefur e dal capo giardiniere Russell Hoffman aggiungendo cedri giapponesi, che assomigliano alle sequoia californiane, oltre a 10000 felci, graminacee e muschi, camion di pietre e tronchi, e balle di aghi di pino. Il lago dove Yoghi si esibisce nello sci d’acqua e in uno spettacolo di fuochi artificiali si trova nella riserva Whakamaru, tra le città di Rotorua e Taupo. Per la scena in cui Yoghi, Bubu, ranger Smith e Rachel scendono lungo le rapide, la produzione ha girato invece nei pressi di Waikato River, dove sono state create le rapide grazie all’aiuto di una locale centrale elettrica che usa le acque del fiume per fornire elettricità alla regione.

Anche se riflette sulla tutela dell'ambiente e sull'importanza di essere onesti, il film non è privo delle contraddizioni dell'America quando, per esempio, non sottolinea con forza quanto la voracità di Yoghi sia sbagliata, oppure mostra campeggiatori che mangiano le peggiori merende mai viste, da giganteschi budini a panini pieni di burro d'arachidi. Anche lo spettacolo di fuochi d'artificio in un parco sembra alquanto pericoloso e non in linea con il messaggio del film. A parte questi dettagli, però, Yoghi è un vero spasso per i più piccoli che si affezioneranno al personaggio come è successo alle generazioni precedenti.

The Green Hornet: recensione

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green_hornet_posterMichel Gondry che decide di dirigere un film di supereroi. Di più, Michel Gondry che decide di dirigere un film di supereroi comico, tratto da una serie cult degli anni Sessanta. Poteva suonare strano, ne poteva nascere un capolavoro senza tempo oppure un flop colossale, ma in fondo quanto può far male un regista talentuoso e innovativo come Gondry? Purtroppo la risposta è molto, molto male. Se vi aspettate le stravaganti trovate dei tanti meravigliosi videoclip (da Bjork ai Daft Punk) oppure idee rivoluzionarie come il "bullet time" reso poi celebre da Matrix, forse è meglio disertare la sala. The Green Hornet, infatti, non è nulla di tutto questo. D’altronde dopo che il regista francese si è dilettato nel documentario La spina nel cuore, storia sconclusionata delle scuole in cui ha insegnato sua zia Suzette, divenuta ormai la vecchietta più odiata dopo la zia May di Peter Parker, ci si aspettava di tutto.

Poteva, però, essere un film di supereroi senza pretese, leggero e divertente, ma non riesce neanche in questo compito. Ed è di certo un peccato, perché le premesse sembravano giuste e il materiale interessante era tutto là, eppure il problema sta in una sceneggiatura lenta, in alcuni punti noiosa e ripetitiva, in altri sbrigativa, ma soprattutto lacunosa e dal finale senza senso. Una trama che mette in ombra anche gli interpreti, a cui non mancano alcune sfumature interessanti, ma sfruttate male nel contesto della pellicola.

La storia è quella di Britt Reid, interpretato da Seth Roger, qui in veste anche di sceneggiatore e produttore esecutivo, figlio del più importante magnate dei media di Los Angeles, James Reid (Tom Wilkinson), che un giorno muore sembra a causa della puntura di un’ape. Britt eredità così l’impero paterno ma non ha alcuna intenzione di dirigere il giornale. Poi, però, conosce Kato, un dipendente del padre che nasconde incredibili qualità: non solo è un esperto di arti marziali, ma riesce a costruire straordinarie automobili dai mille gadget, oltre ad armi inarrestabili. I due finiscono per diventare amici e complici, trasformandosi in "The Green Hornet" e nel suo assistente e decidono di combattere il crimine facendosi credere dei pericolosi criminali e non esitando a lasciare una scia di distruzione e sangue sul loro passaggio grazie alla "Black Beauty", la Chrysler Imperial Crown superaccessoriata realizzata dal genio asiatico. Ovviamente al boss di Los Angeles, Benjiamin Chudnofsky, interpretato da un malvagio e comico Christoph Waltz, la cosa non va giù, e così nasce una battaglia che coinvolge il giornale del padre, la corruzione dei vertici politici, e anche la bella di turno, una Cameron Diaz forse troppo cresciuta per il ruolo di Lenore Case, giovane segretaria di Britt contesa in amore con Kato.

Nato nel 1930 come serial radiofonico, "The Green Hornet" ha riscosso un grande successo, tanto da meritarsi una serie tv negli anni Sessanta in cui Kato era interpretato da Bruce Lee, e proprio quel ruolo ha contribuito a lanciare il re delle arti marziali negli Stati Uniti. Anche il Kato di questo remake cinematografico è al suo esordio in USA, ma Jay Chou, originario di Taiwan, in Asia è un attore pluripremiato, un regista, un compositore e una pop star ed in effetti è forse il personaggio meglio riuscito del film, abbastanza interessante da calamitare l’attenzione, tanto da rivaleggiare anche violentemente con il suo "partner" come vero protagonista della vicenda.

La storia procede in modo bizzarro, dando per scontati passaggi fondamentali: ad esempio non si approfondisce come combattano il crimine i due supereroi, visto che sembra soltanto che distruggano strutture e laboratori criminali. Totalmente insipido e inutile il personaggio di Cameron Diaz, mentre è fin troppo ridicolo, con delle gag dilatate fino alla noia, il cattivo interpretato da Waltz. Totalmente assurda poi la sequenza del combattimento finale in cui Britt cerca di arrivare in tutti i modi alla sede del giornale per riversare il contenuto di una penna usb in un computer quando poteva farlo da qualsiasi pc del mondo.
Quasi inutile aggiungere che il film uscirà anche in versione 3D, ma è stato mostrato in anteprima in 2D, facendo perdere le pochissime scene curiose inserite da Gondry nella pellicola che, si presume, funzionino bene solo se viste in tre dimensioni. Il risultato è la perdita anche di quella briciola di originalità che il film poteva regalare, restituendo così una commedia supereroistica scialba che in tempi di sbornia di blockbuster tratti da fumetti ci poteva anche stare, ma diventa imperdonabile se firmata dalla mano di Gondry. Ora non ci resta che sperare nel futuro.

Tron Legacy: recensione

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Fasci di luce fluorescente che incorniciano abiti, edifici, mezzi di trasporto, allungandosi come una ragnatela pulsante, dando vita a un mondo affascinante e ipnotico: è forse solo questo che resta dopo aver visto Tron Legacy, l'attesissimo seguito del film cult del 1982, uscito in Italia il 29 dicembre.

Nel cinema dei nostri giorni, soprattutto in quello più fantascientifico e colossale, c'è sempre il rischio che l'aspetto visivo e gli effetti speciali diventino più importanti della storia, delle emozioni e dei personaggi che quel film vuole raccontare. Bisogna essere dei bravi alchimisti per dosare le quantità giusta di ogni elemento e forse proprio la grandiosa varietà di prodezze tecnologiche offerte dal mondo digitale sta facendo pendere la bilancia dal lato dell'apparenza, lasciando le trame libere di sfilacciarsi, di perdersi tra idee suggerite, tra suggestioni spesso in contraddizione tra di loro.

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