Menu
Francesco Amorosino

Francesco Amorosino

Ribelle - The Brave: gli incontri con la stampa

  • Pubblicato in Toon

Negli Stati Uniti è già sbarcato nelle sale e da noi arriverà solo il 5 settembre, ma nel giro di presentazioni del film in Europa il regista Mark Andrews e la produttrice Katherine Sarafian sono arrivati anche a Roma per raccontare come è nato The Brave, il nuovo film della Disney-Pixar che ha come protagonista Merida, una giovane principessa scozzese più amante dell’arco che del cucito. Ad accompagnarli per introdurre la versione italiana, che porta il titolo Ribelle - The Brave, anche i doppiatori italiani di alcuni personaggi e la cantante Noemi, interprete di due canzoni nella pellicola.

Mark Andrews e Katherine Sarafian

Da dove è venuta l’ispirazione per la pellicola?

Sarafian: “L’idea di partenza è stata il rapporto tra la coregista Brenda Chapman con la figlia di sei anni, una bimba molto vivace e ribelle e lei si chiedeva come sarebbe stata da adolescente. Da qui l’origine della storia, poi tutti hanno dato il loro contributo con i propri rapporti familiari, Mark, ad esempio, ha tre maschi e una femmina. Abbiamo voluto inserire le nostre esperienze personali”.

Questo è un film Pixar diverso dal solito, quali sono i suoi punti di forza?

Andrews: “Abbiamo dovuto raccontare una storia ambientata in un mondo organico, nel tipico paesaggio scozzese ed è stato molto difficile, perché il computer funziona meglio con le linee dritte, ma noi avevamo alberi, nebbia, capelli, peli. Abbiamo dovuto rimettere mano al software per poter rivitalizzare e rimodernare tutto”.

I capelli della protagonista sono strepitosi, una delle cose più difficili da animare, come avete fatto?

Sarafian: “Abbiamo un team brillantissimo di tecnici! Volevamo raccontare la storia di questa ragazzina indomita, la cui ribellione si riflette nei suoi capelli: dai capelli si capisce che persona è. Quando abbiamo mostrato i disegni ai tecnici è sembrato difficilissimo. Ci sono voluti due anni per fare la tecnologia e per fare questi capelli, farli muovere, farli bagnare”.

Pixar e Disney sono un mondo di fantasia e sogno, vi sentite dei privilegiati? Cosa significa lavorare con loro? Qual è la cosa più difficile?

Andrews: “Ciò che mi piace è che la Pixar è fatta da film-maker, da narratori, gente che si è sporcata le mani, che ha fatto qualcosa di concreto. In altri studios ci sono solo businessman, ma la Pixar è gestita da artisti”.

Sarafian: “Ciò che ci frusta è quanto sia difficile, quanto tempo ci voglia per far nascere una storia: ci sono voluti sei anni per questo film e alla fine sei stanco”.

Andrews: “Mi fa arrabbiare che l’animazione sia considerata una cosa per bambini e facile da fare, non un vero film, ma le stesse difficoltà che affronta un regista live action sono quella che combatto io”.

Questo infatti non è un film per ragazzini, ha un ritmo velocissimo, l’avevate pensato proprio così?

Andrews: “Sì, è un film per tutti, non solo per bambini. Per avere veri messaggi ci devono essere momenti tristi, oscuri, perché tutte le storie, le favole, contengono messaggi sulla difficoltà di diventare adulti. Noi volevamo dare un chiara lezione a Merida, le sue scelte egoistiche hanno delle conseguenze, questo deve essere percepito dal ragazzino che vede il film. Le persone devono essere davvero spaventate da ciò che accade alla madre, devono pensare che non farebbero mai ciò che ha fatto la figlia, la paura prima e la gioia dopo con le scuse di Merida sono importanti. E noi bilanciamo tutto questo con l’avventura e la commedia e tutti possono vederlo. E poi il ritmo deve essere energetico”.

Il personaggio della strega sembra un omaggio a Mihazaki, è così?

Serafian: “Ce l’hanno fatto notare in molti, ma non è un omaggio voluto. Desideravamo una strega fuori dall’ordinario e alla fine è nato questo personaggio, lontano dalla classica strega”.

Questo film è dedicato a Steve Jobs, è il primo dopo la sua scomparsa, vero?

Serafian: “Lo stavamo facendo quando abbiamo perso Steve, un uomo a cui dobbiamo tantissimo, l’aveva visto all’inizio della sua lavorazione, e spero ne sarebbe stato orgoglioso. A noi manca molto”.

Noemi

Come sei stata scelta per interpretare le canzoni di questo film? È dipeso tutto dai capelli rossi?

“Il colore dei capelli ha avuto un grande peso di certo, ma è stato più importante il mio modo di cantare e di impormi con la musica, sono anche io una che fa di testa sua, un po’ ribelle. Mi sento affine a Merida, è un bellissimo modello femminile”.

Com’è stato lavorare con la Disney-Pixar?

“Si lavora bene con la Disney. Io sono laureata in cinema con una tesi sulle nuove tecnologie e anche sulla Pixar, quindi lavorare con loro è un sogno che diventa realtà, è incredibile che fra 20 anni ci sarà questo film e la mia voce sarà ancora là dentro”.

Come ti sei trovata con le sonorità scozzesi?

“Sono dovuta un po’ entrare dentro l’atmosfera celtica, non la conoscevo benissimo, ma gli arrangiamenti sono bellissimi e si sente che c’è grande ricerca musicale dietro”.

Come hai interpretato le canzoni?

“Prima ho sentito la versione originale, con una voce diversa dalla mia, molto disneyana. Io ci ho messo il mio, la mia voce, però la melodia era bella, quindi non ho voluto essere protagonista, mi sono messa a servizio della musica senza esagerare la mia personalità. Ho cercato di sentire le parole che stavo dicendo. I testi sono molto belli, c’è la voglia di libertà. Io ho avuto un’adolescenza dura, quindi capisco di cosa si parla. Anche scegliere la propria musica è andare contro corrente. Io torno un po’ alle tradizioni, mentre tutti vogliono spingermi ad andare da altre parti. Per questo mi ci ritrovo in questo film, nell’avere il coraggio di essere se stessi, perché non è una cosa semplice, è un grande messaggio, oggi c’è molta omologazione”.

Doppiatori

Giobbe Covatta (Lord Dingwall): “Io mi sono divertito molto, anche perché ho pochissima esperienza con il doppiaggio. Un cartone animato sembra libero ma ti vengono chieste molte cose, la prima volta recitavo la battuta come mi veniva, ma subito ne dovevamo rifarla, perché ci sono delle regole da seguire”.

Anna Mazzamauro (la strega): “Essendo abituati alla libertà del palcoscenico è stato difficile adattarmi alla fisicità e alle intenzioni di quel personaggio. Le intenzioni a teatro sono nostre, qui la direzione del doppiaggio di Carlo Valli è stata ottima, ci ha guidati in questo difficile lavoro”.

Enzo Iacchetti
(Lord Macintosh): “Il nostro doppiaggio ha un imprinting italiano, non ci sono accenti particolari, anche se io a volte sbagliavo qualche lettera e subito venivo corretto”.

Shel Shapiro (Lord MacGuffin): “Entrare in un mondo di cartoni animati è stato incredibile, io sono cresciuto con Disney ed è stato divertente essere una persona reale in un mondo irreale, trasferire serietà in quel mondo, un compito per niente semplice”.

The Amazing Spider-Man: recensione

  • Pubblicato in Screen

Un’assenza che determina il percorso di tutta una vita, un vuoto da colmare con risate amare, sguardi persi sulla città tanto affollata da essere il teatro perfetto per la solitudine. La storia di Peter Parker sta tutta nella perdita dei genitori, scomparsi quando era soltanto un bambino dopo averlo affidato al fratello del padre, Ben, e alla moglie May. Per anni il bimbo ormai diventato un giovane uomo non si è posto molte domande, fino al ritrovamento casuale di una borsa appartenuta al padre, capace di scatenare i ricordi e il desiderio lacerante di scoprire la verità.
The Amazing Spider-Man di Marc Webb non è il racconto delle avventure di un supereroe con poteri ragneschi, ma quella del percorso di un ragazzo verso la maturità, l’assunzione delle proprie responsabilità e la scoperta che al mondo c’è molto di più di ciò che la vita quotidiana ci suggerisce.

Dopo essere già sbarcato nelle sale con la trilogia cinematografica diretta da Sam Raimi, l’amichevole uomo-ragno di quartiere torna sul grande schermo per un reboot che ha tutto il sapore di una prima, riuscendo a trovare una freschezza che non ci si aspettava.
Dopo un inizio relativamente calmo, necessario a liberarsi di tutto l’immaginario assorbito nei film precedenti, la pellicola parte spedita seguendo perfettamente la trama scritta con grande perizia e attenzione ai dettagli. La trasformazione del ragazzo in supereroe, il primo amore, la ricerca della verità: tutto è connesso e fa parte della grande ragnatela della vita. Particolare attenzione è dedicata al percorso che porta Peter a indossare la maschera di Spider-Man: una buona parte iniziale del film è dedicata alla scoperta dei poteri da parte del ragazzo, prima che del supereroe, con tanti effetti collaterali, quali la difficoltà ad aprire le porte senza romperle, o un’attrazione morbosa per le mosche. Elementi che definiscono il personaggio e contribuiscono a renderlo familiare anche a chi non ha mai letto un fumetto. Anche l’aspetto comico delle battute e degli scherzi che da sempre lo caratterizza è ben giocato senza forzare la mano, ed è funzionale a riempire quel vuoto che Peter sente dentro.
Se poi si passa a considerare il supereroe, una nota di qualità sta nella resa dei movimenti ragneschi, realistici e spettacolari al tempo stesso, un mix di parkour e di trick da skateboard, una delle passioni di Peter. A supportare le coreografie interviene uno spettacolare 3D per niente invasivo e capace di donare profondità non solo alla visione, ma alle emozioni stesse dei personaggi, anche nelle scene più intime.


Gran parte della riuscita del film, però, la si deve di certo alla bravura degli attori, con un cast che non perde un colpo, a cominciare proprio dal protagonista, un ottimo Andrew Garfield del tutto in sintonia con il personaggio (d’altronde aveva indossato per la prima volta il costume di Spider-Man a tre anni per Halloween), e dotato di una varietà di espressioni e una interpretazione profonda e articolata tale da creare una persona a tutto tondo sullo schermo.
Ottimo Rhys Ifans nel ruolo del dottor Curt Connors, villain del film nei panni del mostruoso Lizard, capace di far percepire con chiarezza il percorso di trasformazione dell’uomo e le motivazioni, restituendo anche spessore ed emozioni alla lucertola gigante. Anche Emma Stone si è calata bene nei panni della bella e intrigante Gwen Stacy e un plauso va pure a Denis Leary (Capitano Stacy), Martin Sheen (Zio Ben) e Sally Field (Zia May), che pur avendo dei ruoli adulti e di ‘mentore’ non risultano mai saccenti o artificiosi.
Dal punto di vista visivo va sottolineata anche la cura con cui è stata ricostruita New York e l’interessante design architettonico della OsCorp Tower, mentre le musiche di James Horner riescono a essere varie con punti di grande intensità, anche se a tratti si sposano male con le scene.

A questo The Amazing Spider-Man va di certo riconosciuta la capacità di aver saputo creare un mondo nuovo, eppure molto familiare, diverso da ciò che avevamo visto sullo schermo, ma senza sentirsi forzato dalle esperienze precedenti. Le tante scelte intelligenti (ad esempio l’aver restituito a Peter i lancia ragnatele, tanto oggi basta cercare su internet per scoprire come fabbricarseli) rivelano un amore profondo per il personaggio e i tanti indizi disseminati su come la storia proseguirà nelle prossime pellicole promettono una nuova lunga vita per il nostro amato Spider-Man. Soprattutto il merito fondamentale è aver capito che ciò che rende forte questo personaggio non sono la maschera o le ragnatele, ma il ragazzo che vi sta sotto, quel Peter Parker che con tutti i suoi superproblemi è davvero uno di noi.

Dark Shadows: recensione

  • Pubblicato in Screen

darkshadowsUn distinto vampiro settecentesco si risveglia nel 1972 dopo essere stato rinchiuso in un bara per oltre due secoli. Il primo pensiero, dopo essersi tolto la secolare sete di sangue, è quello di ritrovare la propria casa e la propria famiglia. Di certo, però, non si aspetta di incappare anche nella sua vecchia nemesi, la strega pazzamente innamorata di lui che l’ha trasformato in una creatura delle tenebre e che dopo tanti anni non ha smesso di desiderarlo.
Così parte la storia di Dark Shadows, la pellicola che segna il ritorno alla regia di Tim Burton, ancora una volta con Johnny Depp come protagonista. Smessi i panni dell’ormai stantio Jack Sparrow, l’attore diventa Barnabas Collins, dal colorito pallido e le dita affusolate (ma niente a che vedere con il buon vecchio Edward Mani di Forbice), un po’ attempato ma ancora un vero latin lover.

Il film è tratto da una serie di enorme successo della fine degli anni Sessanta, amata sia da Burton che da Depp, tanto che quando gli autori degli episodi originali hanno proposto a Depp di interpretare il vampiro protagonista, l’attore ha deciso di produrre il film e di chiamare Burton alla regia.
Punto forte della pellicola è di sicuro l’atmosfera gotica miscelata con le stramberie degli anni '70, momento definito dai filmmaker come "forse il periodo peggiore, dal punto di vista estetico, dell’esistenza dell’uomo". I colori desaturati dell’antica residenza della famiglia Collins contrastano alla perfezione con le eccentriche lampade dal liquido rossastro o con la capigliatura scarlatta della bravissima e immancabile Helena Bonham Carter, qui nel ruolo della Dottoressa Hoffman, che dal vampiro vuole cogliere il segreto dell’immortalità.

Seppure gradevole in linea generale, però, il film non riesce a trovare una sua forza narrativa, forse a causa di una mancanza di ritmo che lo fa sembrare al tempo stesso troppo lungo (perché alla storia d’amore e odio tra il vampiro e la strega è dedicato fin troppo spazio, con scene ripetitive) e troppo corto (perché alle storie dei singoli personaggi è dedicato spesso poco spazio, accennando soltanto a situazioni che meritavano maggiore respiro). Così lo spettatore non riesce ad appassionarsi alle vicende dei vari membri della famiglia e si arriva anche a dimenticarsi dell’esistenza di questo o quel personaggio.
A complicare questo punto interviene anche la mancanza di interpretazioni di valore, con recitazioni ‘di livello standard’ e niente più: non sorprendono, ad esempio, né Michelle Pfeiffer (Elizabeth Collins Stoddard), né Chloë Grace Moretz (Carolyn Stoddard), mentre di poco più interessante è Eva Green nel ruolo della strega Angelique Bouchard; Depp stesso non riesce a creare una figura iconica.
Infine, a peggiorare la situazione intervengono anche dei buchi nella trama che scorre ben poco fluida e parte malissimo con un lungo "spiegone" iniziale. Neanche la colonna sonora di Danny Elfman riesce a essere memorabile, facendo da banale intermezzo ai pezzi anni '70, con Alice Cooper in testa, che regalano delle parentesi molto gradite.

Anche se la pellicola è nettamente superiore alla triste parentesi di Alice in Wonderland, Burton non è di certo tornato ai suoi tempi d’oro. Anzi, sembra anche qui costretto a limitare la sua fantasia e il suo genio per restare in acque sicure, senza spingersi verso orizzonti più arditi. Difficile dire se si tratti di una imposizione dei produttori o del desiderio di fare un film più "accessibile", ma il risultato è un ibrido poco riuscito.
Il tutto, dunque, si risolve in un’occasione sprecata per un film che aveva fatto sorgere tantissime aspettative sia nei fan della serie, sia nei forse più numerosi appassionati dei film di Burton. Non ci resta ora che attendere che arrivi nelle sale Frankenweenie, ultima fatica del regista che riprende la trama di un vecchio cartone animato che non fu approvato dalla Disney. Speriamo che il sapore della rivincita riesca far tornare il regista ai livelli di un tempo.

Il figlio di Babbo Natale: recensione

  • Pubblicato in Toon

il-figlio-di-babbo-natale-locandinaSe non vi bastano le decorazioni, i dolci, le vacanze, l’albero, il presepe e le onnipresenti musiche festive per immergervi nella magia del Natale, quest’anno c’è una soluzione capace di far dimenticare tutti i problemi: Il figlio di Babbo Natale. Uscito il 23 dicembre nelle sale italiane, questa pellicola in 3D è frutto della collaborazione dello studio Aardman, famoso per film d’animazione in stop-motion come Wallace & Gromit, La maledizione del coniglio mannaro o Galline in fuga, con Columbia Pictures e Sony Pictures Animation, alleati per dare vita a uno spettacolo visivo nuovo ma in cui si respira lo spirito della celebre società di produzione.

Il film si apre con le classiche domande che i bambini del mondo moderno rivolgono a Babbo Natale, ad esempio: “Ma se vivi al Polo Nord, perché non riesco a trovare la tua casa su Google Earth?”. A rispondere a questo è molti altri quesiti è Arthur, il figlio di Babbo Natale e suo più grande fan, immerso ogni giorno dell’anno nell’atmosfera natalizia nella futuristica base del vecchio barbuto nel Circolo Polare Artico, dove tutti si preparano alla ‘Missione regali’. A condurre l’operazione per distribuire gli oltre due miliardi di pacchetti in tutto il mondo è una squadra di milioni di elfi, capitanati da Steve, l’altro figlio di Babbo Natale. Arrivato a oltre 70 missioni, quest’ultimo è in procinto di andare in pensione, ma non sembra pronto a depositare il cappello rosso, come ha fatto il padre, Nonno Natale, che dopo più di 130 anni ancora non si rassegna alla vita da semplice anziano.

Grazie alle fantascientifiche attrezzature di cui è dotata la famiglia Natale, a partire dalla S1, gigantesca nave spaziale, anche quest’anno tutti i regali vengono consegnati… tranne uno. Proprio quel singolo pacchetto dimenticato rischia di compromettere l’intero senso della festa e toccherà proprio al pasticcione e imbranato Arthur, con l’aiuto di Nonno Natale, ricordare a tutti che al di là della complessità di un mondo in continua crescita sono i sorrisi dei bambini nella mattina del 25 dicembre la cosa che più importa al mondo. Consegnare quel singolo regalo prima dell’alba, però, non sarà un’impresa semplice.

Se a prima vista la pellicola può sembrare un film di Natale come se ne sono visti tanti, in realtà Il figlio di Babbo Natale (Arthur Christmas in originale) riesce a evitare molti dei cliché del genere e a mantenere una vena forte di ironia miscelandola con i sentimenti migliori che le feste sanno infondere senza mai scadere nella sdolcinatezza. Ci si commuove in alcune scene, in altre si sorride con sincerità per un mondo che riesce a ridere di se stesso, a far emergere le contraddizioni e i problemi di un pianeta ostaggio della stessa tecnologia che ha permesso di rendere la vita più semplice da un punto di vista, ma molto più complessa per il numero di possibilità che si aprono. Un mondo, il nostro, dove una slitta trainata da renne non ha più magia a sufficienza per superare i controlli di radar e satelliti, dove il ‘basta un pensiero’ è stato surclassato da una banalizzazione delle feste. Il film ha in sé tutte queste problematiche, a cominciare dal ridurre il Natale in una immane consegna di pacchetti, ma riesce a rimettere tutto in gioco, regalandoci un nuovo sguardo sulla nostra vita.

Anche dal punto di vista visivo la pellicola è di alto livello, anche grazie a uno spettacolare 3D che porta lo spettatore quasi a entrare fisicamente in alcune scene, a cominciare dalle sequenze di volo sulla slitta in cui sembra di essere su una simulazione realistica. Il design non punta al realismo, ma mischia lo stile di plastilina di Aardman con le moderne tecniche di animazione, in un connubio ‘sporco’ e per questo molto efficace. Un plauso va agli sceneggiatori e a tutti coloro che hanno lavorato ai dettagli della trama, studiata nei minimi particolari, tanto da determinare il tempo che hanno a disposizione gli elfi per consegnare ogni regalo (18,14 secondi per casa), un perfetto controllo del movimento della slitta intorno al globo e finanche la divisione degli elfi in 13 ripartizioni con compiti e gadget specifici. Unica nota dolente i titoli di coda: del brano ‘Santa Claus is Comin’ to Town’ cantato da Justin Bieber potevamo di certo fare a meno.

Sottoscrivi questo feed RSS