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Simone Celli

Simone Celli

Limbo – Quaderni del nordest

Le rose profumano e allo stesso tempo nascondono. Danno l’idea di un bello immortale, ma a volte sono lì per occultare la morte stessa. Limbo – Quaderni del nordest è una “guida turistica” costruita sui paradossi, sulle contraddizioni più o meno estreme di una certa Italia. Un piccolo mondo pieno di fiori dall’odore inebriante. E di spine, tante spine.

Elena Lori non è una sociologia, ma è come se lo fosse. Professione avvocato, il suo esordio nella nona arte è un trattato sull’umanità (o su una parte di essa) impregnato di intelligenza e leggerezza. Uno spaccato antropologico, arricchito di quella “spensieratezza-ma-non-troppo” che soltanto un fumetto può dare. E si finisce subito per riflettere, tra le luci e le ombre di una quotidianità deviata dall’apparenza, dall’opulenza, dal mito del denaro da ostentare sempre e comunque. Bravate in nome di un lusso che sembra impossibile, infelicità in pillole. Elena non giudica. Ricostruisce. Ne esce una fetta di Stivale satura di ambizioni destinate a chissà cosa, di delitti e di relitti umani. Il tutto con un atteggiamento ironico e a suo modo profondo, grazie soprattutto a un linguaggio che sa bene dove andare a tagliare.

Gianmaria Liani è il partner ideale per questa impresa. I suoi disegni sanno riprodurre tutto il tragicomico che sta sullo sfondo. Un surreale talvolta assurdo e che, per questo, fa pure sorridere ma che altre volte è davvero carico di dolore. Il veterano delle nuvole parlanti dà forma ai furbastri di paese, ai giovani rampanti, ai meridionali travolti dal “nordismo”, agli ambientalisti morbidi come plastilina, agli spritz che allagano le notti, le menti e chissà cos’altro. Tutti comprimari, personaggi messi in prima fila come specchietto per le allodole. Perché Elena ha un dono, quello di saper rendere invisibile il vero protagonista delle sue storie. Qualcuno che in questo caso non ha nemmeno un volto, né un corpo. Ma un nome sì, ce l’ha. Il nordest se ne sta lì. Sembra fermo e silenzioso, ma intanto grida ai quattro venti la sua vita così piena e contorta.

Schegge

Un non-Dylan Dog in un non-Bonelli. Il primo passo di Gianfranco Staltari versione antologico sembra il contrario di quello che fa di solito. Cioè, tra le altre cose, le sceneggiature per un certo Indagatore dell’incubo. Sì, quello dell’editore di via Buonarroti, anche perché altri non ce ne sono.
Il protagonista del racconto d’esordio di Schegge, però, non è un investigatore in salsa horror, ma un semplice rappresentante di commercio finito all’inferno per colpa di uno strano navigatore. Michele non è mister Dog (anche se un po’ gli assomiglia), ma un povero “cane” disperso tra la nebbia e dai minuti decisamente contati.
Schegge
comincia così, con la voglia di fare sul serio ma senza prendersi troppo sul serio. C’è un’ironia sottile quasi onnipresente e che non stride mai. Dieci colpi di una pistola nera come il buio, dieci morsi di un vampiro più fulmineo di Fiorello in versione Edward Cullen. In altre parole, dieci short stories all’insegna del brivido. E dello stupore. Sì perché, a volte, le poche pagine a disposizione non bastano e non sempre ci si spaventa davvero, ma spesso, molto spesso, si rimane sorpresi per l’idea di fondo. Lo zombie presidente, il succhiasangue che si risveglia in un futuro senza più globuli rossi, e tanti altri mostri, veri o per metafora, che hanno quasi sempre qualcosa di insolito.

Non c’è soltanto Il viaggio del malcapitato rappresentante con destinazione inferi (su disegni davvero simil-bonelliani di Valerio Nizi). In Dopo la pioggia, grazie alle matite di Michele Arcangeli, Staltari ci mostra una caccia alle lumache un po’ sui generis. Mai viste di così grosse. Un giorno dopo l’altro, con le tinte chiare di Paolo Massagli, è un erotic-horror lungo quanto un lampo. Dalla libido al ribrezzo in appena quattro pagine. Luigi Criscuolo, invece, è il disegnatore titolare di Fino all’ultimo vampiro. Il titolo strizza l’occhio a Godard, mentre la storia strappa un sorriso proponendo un futuro davvero poco adatto ai succhiasangue. Giovanni Timpano ha ormai una fama internazionale, tutta meritata; sue le matite di Fan numero uno, mini-racconto incentrato su uno stupratore di vip in un mondo di non-morti, con Manuela Arcuri come inconsapevole guest star. La memoria dell’acqua vede Veronica Baeli prestare il suo tratto grezzo e nitido per dare forma a un domani oppresso dai mostri della mitologia. The final cut (su disegni di una promettente Ilaria Tomasi, con il “vizio” dei volti un po’ troppo manga) narra di tutto un altro orrore, quello vissuto da una ragazza in balia di un rapitore senza scrupoli. Zombie for president, scritto insieme a Stefano Fantelli e disegnato da Onofrio Cirillo, propone invece l’ascesa al potere di una nuova stirpe; si prende in prestito il concetto di attivismo e lo si usa per imbastire uno scenario a misura di non-morto.
Sosta
, invece, è un horror dichiaratamente tarantiniano su disegni di Cristian Sbattentini; un commento su tutti: mai più nei bagni di un autogrill. Le matite di Dario Viotti chiudono il cerchio in Happiness is a warm gun; la vendetta è un piatto che va servito caldo e la pistola fumante della pseudo-Nikita, protagonista, ne è la prova.

La brevità è un’arma a doppio taglio. Staltari dimostra di saper giocare bene con i suoi coltelli ma è, più che altro, l’intuizione alla base di certe “schegge” a tenere alta l’asticella. Un po’ troppa la smania di spostare in avanti il calendario e di mostrare scenari futuristici. Le parole evocano e fanno atmosfera, anche se a volte ne servirebbero di più taglienti e affilate, come certe lame. In fondo questi racconti-lampo non sarebbero niente senza il lampo di genio. Senza certe idee.
E Staltari, quando vuole, di idee ne ha da vendere.

Miki

Nero. È lo sfondo di una copertina, il nome di una casa editrice, il colore predominante di un’intera vita. Un peso che ci si porta dietro, e che non “snellisce” affatto come vorrebbe la tradizione. La pedofilia è un insieme di atti abominevoli che si trasformano in ricordi. Indelebili, forse, in ogni caso fardelli di cui si fatica a sbarazzarsi. Distribuito dalla Absolute Black, Miki fa la voce grossa, ma la farebbe anche senza le spalle coperte. Perché ha il coraggio di rendere visibili cose inguardabili. E voltarsi è tutt’altro che una soluzione.

Lorenzo Piscopiello prepara il pugno e poi lo scarica su chi legge. Lo considera un atto dovuto, di certo l’atto d’amore di un padre che ha sposato la causa fino a sfidare la censura in un paese come il nostro, in cui ci s’indigna per il singolo caso ma poi non si dà il dovuto risalto al fenomeno nella sua atroce globalità. È una sfida al “sommerso”, parola ripetuta con sapiente insistenza nell’editoriale dell’autore. Che non si accontenta di mostrare l’inganno che sta spesso dietro l’abuso: in scena va direttamente il secondo. Esplicito, quasi oltre l’ammissibile, Miki vuole colpire e ci riesce. Lo fa con uno stile che sa tanto di autoproduzione (quale è), ma non per questo elementare. Tanti i dettagli “in punta di matita” disegnati da Federico Gennari e Federico Piras, per un racconto mediamente fluido che non va, di certo, in punta di piedi. Tutto gira intorno alla vendetta (sofferta) di un bimbo violentato che, una volta diventato ragazzo, si trasforma in un giustiziere senza maschera. Caccia aperta contro i pedofili. L’obiettivo è ucciderli, anche in malo modo. Senza stare a centellinare né le grida né il sangue, senza fare economia sul tasso di crudeltà. Esecuzioni che avvengono pure “in flagranza di reato”. Il vero pugno sta proprio qui.

È soltanto il primo tassello di un progetto ambizioso, perché l’idea è di non fermarsi all’albetto d’esordio. Miki ha una missione ben precisa: sensibilizzare anche chi scrolla le spalle e passa oltre. È per questo che. tra intermezzi e appendici. ci sono anche degli articoli di giornale e un report del Telefono Azzurro. Per non dimenticare che, ogni tanto, quelli dei fumetti sono mostri reali e, per una volta, c’è davvero bisogno di puntare il dito.

Kokko San

Scordatevi i baffetti e il braccio alzato: il nuovo dittatore ha una cresta insolente e le penne in costante agitazione. È un gallo Livorno, italianissimo di origini, ma il suo territorio di conquista è un altro. Il Giappone, o meglio ancora la casa della piccola Yayoi. L’ha incontrata. L’ha seguita. Si è infilato in casa sua e non se n’è più andato. Ha lo sguardo eternamente minaccioso, è irascibile e fracassone, ma con la sua arrogante onnipresenza sarà un ottimo “collega” per questa bambina indaffarata nella lenta scoperta del mondo.

Fumiyo Kono avrebbe voluto essere come lei. Invece, quando era piccola, i due galli che aveva in casa li ha quasi ignorati. Kokko San è dichiaratamente il suo riscatto, un mea culpa sussurrato. Yayoi è il suo alter ego, l’incarnazione della fanciulla che non è stata. Ma al di là delle intenzioni dell’autrice, pluripremiata in patria e detentrice di due nomination nientemeno che agli Eisner Awards, le piccole grandi avventure della fanciulla e del suo gallo dispotico sono poesia spicciola. I versi sono tavole semplici e narrativamente imperfette, che però sanno riassumere al meglio la piena personalità dell’animale, burbero ma estremamente simpatico, così come la dolce intraprendenza di una bimba di dieci anni generosa come poche.

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