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Luca Giovanelli

Luca Giovanelli

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La morte di Stalin

Iosif Stalin fu un dittatore paranoico, sanguinario e spietato. Accanto alla tragedia maggiore dei molti innocenti arrestati, imprigionati, deportati o sommariamente giustiziati, ce ne fu un'altra, minore, ma significativa sul piano ideologico e politico: fare scivolare la spinta liberatrice della Rivoluzione d'Ottobre in un esercizio di potere fine a se stesso, assurdo e circolare, in cui la personalità del capo diventa nume tutelare e angosciante, le procedure burocratiche santificano il travisamento della realtà e gli uomini, così avulsi da ogni forma di verità, diventano, da eroi del Popolo, pedine miopi e spaventate di un gioco perverso che non possono fare altro che subire.

Con Stalin, l'Unione Sovietica senza saperlo aveva di fatto già abdicato ad ogni suo progetto di guida mondiale del proletariato e di liberazione dell'umanità: non più (forse mai) uno statista in grado di influenzare le umane e progressive sorti, Stalin diventa feticcio, corpo e immagine di uno status quo monolitico da mantenere e preservare. Fabien Nury e Thierry Robin sembrano particolarmente interessati a sottolineare tutti questi aspetti e lo fanno con un'operazione intelligente ed elegante: restringere il campo ai momenti immediatamente precedenti e successivi alla morte del dittatore sovietico, giocando abilmente con generi e influenze diverse, dati storiografici e caratterizzazioni grafiche dei personaggi.

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La prima parte della storia – Agonia – prende le mosse dall'ictus che colpisce Stalin il 28 febbraio del 1953 e dei tentativi, da parte del Comitato Centrale del PCUS di “gestirne” la possibile (e poi effettiva) dipartita. Le tavole presentano griglie estremamente varie e articolate, con vignette di dimensione medio-piccole, in cui prevalgono i primi piani, le figure intere, i piani americani e medi. Da questo impianto grafico ne scaturisce un thriller grottesco e paranoico, in cui i personaggi si muovono come se fossero incastonati o imprigionati nelle loro stesse paure. Su tutti torreggia la figura luciferina di Lavrentij Berija, il potentissimo capo della polizia segreta sovietica, la cui caratterizzazione grafica riassume ottimamente lo stile Robin: un tratto nervoso, caricaturale, che ricorda in molti punti il Tim Sale di The Long Halloween e Dark Victory. Ricchi di ampie campiture nere e di giochi chiaroscurali, i disegni sono arricchiti da colori eleganti, plumbei e tenui sui quali le figure umane sovente sfociano in vere e proprie silhouette: parodie di corpi e volti e del potere insomma, che unitamente alle poche inquadrature più ampie, spesso dall'alto, alleggeriscono l'atmosfera cupa di questa prima parte con massicce dosi di humor nero e sarcasmo.

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Se il corpo di Stalin, nella prima parte è oggetto reale e quasi ripugnante, da nascondere e rinchiudere, nella seconda parte della storia – I Funerali – è simbolo artificiale da mostrare e condividere: qui le tavole respirano maggiormente. Gli autori includono inquadrature più ampie, corali, si concedono le splash-page, i campi lunghi e medi, i colori virano verso tonalità più chiare giocando sui contrasti del bianco (di Mosca, delle divise) e dei rossi: la morte di Stalin riguarda tutti, il tiranno crudele è stato anche l'amatissimo padre del popolo. Lo sceneggiatore Fabien Nury dà ritmo alla vicenda alternando abilmente scene all'interno e all'esterno dei palazzi del potere. Nel primo caso riesce a rendere credibili e mai noiosi i dialoghi da politburo delle riunioni del Comitato Centrale dove la lotta di potere per la successione di Stalin richiama per tensione e efficacia film come La parola ai giurati. Nel secondo caso Nury usando in modo creativo e funzionale alcuni episodi realmente accaduti e altri “aggiustati” per l'occasione, sfrutta le convenzioni del dramma storico per descrivere scene corali dall'effetto drammatico ed espressionistico che in più punti ricordano il cinema di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.

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C'è una vena profondamente sarcastica ne La Morte di Stalin: è  con questo sguardo che Fabien Nury e Thierry Robin proteggono loro stessi, e soprattutto i lettori, dalle trappole più prevedibili che riguardano i giudizi su Stalin e lo stalinismo, ovvero la condanna urlata, la mesta e debole auto-critica o la disonesta apologetica. Gli autori sono partecipi alle vicende umane dei protagonisti, ma mai ciecamente schierati. Il punto di vista corrosivo, a tratti veramente feroce, lascia spazio a momenti di sentita compassione che regalano a molti dei personaggi inaspettate sfaccettature: ci scopriamo così genuinamente solidali con l'ingenua figlia del dittatore Svetlana, partigiani di Kruscev e compagni, nonostante le loro evidenti meschinità, disgustati prima e tristi poi per Vassia, l'altro figlio di Stalin; lo stesso, mostruoso Berija, ricettacolo delle ingiustizie e delle crudeltà del regime, suscita sentimenti contrastanti quando nel finale appare come l'ennesima vittima. In questo senso, nel mostrare in modo semplice e diretto il retroscena del potere assoluto e delle sue strutture come un terreno popolato da riconoscibili e umanissime debolezze e pulsioni, La Morte di Stalin è un'opera intelligente, acuta, emozionante.

Dorando Pietri. Una storia di cuore e di gambe

Tunué inaugura la nuova collana Traguardi con la storia di Dorando Pietri, il giovane  garzone di pasticceria di Mandrio di Correggio (poi “emigrato” a Carpi) che nel 1908 vinse la maratona olimpica di Londra: venne poi squalificato per aiuti regolari ricevuti pochi metri prima di tagliare il traguardo, ma da questa sconfitta arrivò riscatto sociale e con questo soldi, fortuna e sopratutto molta fama, almeno per una parte della sua vita.
Metafora edificante del valore dell'impegno e del sacrificio, e dell'etica del perdente, la figura di Pietri è poco nota alle giovani generazioni, mentre molto più conosciuta a chi abbia qualche minima nozione di cultura sportiva extra-calcistica, se non altro perché viene puntualmente rispolverata ogni quattro anni in occasione delle Olimpiadi.

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L'inizio vede Dorando sospeso fra la fatica della gara appena conclusa e l'attesa di un esito che non sarà così scontato; il podista emiliano è egli stesso un eroe minore sospeso fra due mondi, con le radici ben piantate nella sua “emilianità”, laboriosa e contadina e le gambe a mulinare miglia (e denaro) nella ricca e capitalista America.
L'approccio stesso dello sceneggiatore Antonio Recupero sembra quello di voler sospendere  protagonista e racconto fra due modi (e mondi) narrativi. In primo luogo si scorgono riferimenti allo spokon giapponese: il protagonista inusuale - Pietri era basso, con le gambe storte, in teoria un'antitesi dell'immaginario olimpico - ma talentuoso che sbaraglia atleti più forti di lui, un maestro che lo guida, la spalla incoraggiante (il fratello Ulpiano), lo sport come sacrificio estremo di forze, energie, risorse. In secondo luogo poi si intuiscono sforzi di inserire la “piccola storia” di Dorando in un affresco di più ampio respiro storico e sociale: la giovane Italia che cerca visibilità internazionale, l'Emilia povera e proto-socialista, la cannibalizzazione capitalistica dello sport (Pietri fu di fatto il primo professionista italiano dell'atletica leggera), le prime avvisaglie del fascismo.

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I disegni di Luca Ferrara sono coerenti con le considerazioni fatte sopra. Il tratto semplice caratterizzato da linee pulite, nette e nervose definisce bene i personaggi trasmettendo quel senso di dinamicità che è una delle caratteristica essenziali di una storia che mette al centro la corsa e l'atletismo; all'interno di queste cornice grafica piuttosto classica irrompono elementi che rimandano  ai manga - in particolare gli occhi - e che forniscono l'altro ingrediente vincente: l'umanità e l'impatto emotivo. Una sintesi di questo si può ammirare nelle tavole, molto belle, che descrivono l'arrivo di Dorando Pietri all'interno dello stadio olimpico.
Suggestivo l'uso del colore con le tonalità dal gusto retrò e nostalgico che accompagnano le varie tappe della vita di Dorando: il giallo e il verde della campagna emiliana a rappresentare l'infanzia, fino a colori più “maturi” e forti – rosso, marrone – per la maturità atletica, fino al “gioco” dei grigi e dei colori più lividi e crepuscolari a dipingere la delusione della sconfitta e i rimpianti del protagonista sul finale della storia.

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Dorando Pietri è quindi un piacevole in-between fra due stili - narrativi e grafici- che crea un'amalgama coerente e abbastanza equilibrata: una scelta giusta e comprensibile se ci si mantiene ancorati agli scopi divulgativi e formativi del graphic novel, che, sorretta da dialoghi semplici e ben strutturati, ne guadagna in facilità di lettura e scorrevolezza.
D'altra parte virare, seppur rischiando, in modo più deciso verso scelte stilistiche nette, che siano le iperboli e l'epica dello spokon oppure le suggestioni di un approccio storico-sociale meno accennato e più approfondito, avrebbe forse dato un'impronta più solida e interessante alla storia di questo piccolo grande italiano.

Perramus

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Un tradimento, la fuga nella notte, una bieca e imprevista collusione con i propri aguzzini e un cappotto rubato, il cui brand è opportunità di un secondo battesimo per il protagonista, senza più nome e memoria, e al contempo suo oggetto transizionale, attraverso il quale si (tra)veste e porta in giro la propria colpa, l'esigenza di dimenticare e di ritrovare comunque una propria identità.
È questo l'incipit de "Il pastrano dell'oblio", la prima delle quattro storie che compongono Perramus, opera seminale del fumetto argentino scritta da Juan Sasturain e disegnata da Alberto Breccia, ristampata finalmente in versione integrale e in un volume poderoso e prestigioso da 001 Edizioni.

Perramus è un anti-eroe che tenta di rimediare ad un suo peccato originale; per questo, per i suoi dubbi e le sue umanissime paure, forse ci si affeziona presto a lui: da complice diventerà protagonista di un'avventura “per aria, per mare e per terra”, una storia di opposizione e resistenza al regime dei Marescialli (chiaro riferimento alla dittatura argentina) rappresentato da militari dal volto di teschio. I suoi comprimari saranno il forzuto e pragmatico Canelones, operaio uruguaiano che incontra all'inizio dell'avventura; il Nemico, leale e malinconico pilota diventato suo malgrado strumento di propaganda per il regime; infine, lo scrittore J.L. Borges, che fungerà da guida e catalizzatore di progressive consapevolezze. Se il canone narrativo è quello dell'avventura classica, il percorso che si delinea pagina dopo pagina ne smonta però i tradizionali cliché; scritta quando la giunta militare argentina era, seppur morente, ancora in essere (1982), tutta questa prima parte è pervasa da un profondo senso di inquietudine: i personaggi sono trasportati loro malgrado dentro la storia, in un gioco complesso di sovrapposizioni fra verità e finzioni, fra ricerca di senso e enigmi da risolvere. La storia si chiude, paradossalmente, non chiudendosi affatto, ma anzi, facendo leva sul concetto di desiderio e di ritrovamento dopo uno smarrimento, apre le porte all'avventura successiva e in un certo senso alla vita.
Le altre tre storie che compongono il volume sono infatti il completamento del percorso descritto sopra e sono il riflesso, per così dire, della storia argentina post-dittatura, delle speranze, illusioni e disillusioni di un popolo intero che si riaffaccia alla democrazia e, forse, alla normalità: una volta ricostruito se stesso, ne "L'anima della città" (1984), Perramus con i suoi pards, va alla ricerca dell'identità collettiva di un popolo, concentrandosi sulle “piccola storia” dei quartieri di Santa Maria (una versione alternativa di Buenos Aires, presa a prestito dalla scrittore Juan Carlos Onetti); ne "L'Isola del Guano" la ricerca si estende, con spirito caustico e dissacrante, all'identità politica e morale del Paese; "Dente per dente" descrive infine un'ultima ipotesi di ricerca, la più difficile, quella della felicità. Anche in questi episodi la quest avventurosa viene smontata e sovrapposta al giallo “metafisico” (di cui Borges è maestro), all'allegoria, al racconto grottesco e farsesco, alla satira sociale e politica.

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La sceneggiatura di Sasturain è scevra di didascalie e costruita su dialoghi colti, ironici, debordanti; propone costantemente al lettore un esercizio impegnativo e vitale fatto di riferimenti letterari, meta-narrazione e rimandi alla realtà storica del periodo: ad esempio, il già citato Borges, descritto in una versione più ideale che verosimile,  sopravvive a se stesso e si affianca nell'ultima storia ad un Gabriel Garcia Marquez oggetto e soggetto di narrazione e, al corpo del tanguero Carlos Gardel; e poi parodie/trasfigurazioni di Kissinger, di Frank Sinatra, di Fidel Castro e del cinema western. L'autore gioca così a rappresentare, decostruire e modificare miti della cultura argentina e americana quasi a suggerire che è attraverso la manipolazione del simbolico e del suo riappropriarsene che possiamo ritrovare significato e quindi speranza. Come nella migliore tradizione delle historietas poi la scrittura mostra grande naturalezza nell'incastrare gli stilemi della letteratura di genere con un naturale impegno e una critica sociale che non risparmiano nessuno: l'ottusità e la violenza dei militari, l'ingenuità e inerzia degli intellettuali, l'ingerenza degli americani; gli stessi protagonisti sono spesso, bonariamente, sbeffeggiati.

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La versatilità di Alberto Breccia qui prende forma in uno stile espressionistico dove gli acquerelli in bianco e nero (e grigio) – colori della memoria, dei contrasti e dell'ambivalenza - producono tavole di grande potenza visiva. Le figure umane dei protagonisti emergono dai neri, tagliano il buio e le ombre per poi tornare a esserne parte, come la loro coscienza che emerge ed è poi sommersa nei paesaggi naturali e urbani, tratteggiati da grigi lividi. Questo è particolarmente evidente ne "L'anima della città": le architetture di Santa Maria richiamano  a volte Escher, a volte De Chirico, con il loro aspetto surreale, sghembo e gotico, compensato dal rigore geometrico di alcuni elementi simbolici della storia (banconote, carte da gioco, il quadrante di un orologio); ne "L'Isola del Guano" e in "Dente per Dente", che sono rispettivamente l'episodio più rocambolesco e quello più positivo fra quelli annoverati nel volume, trovano progressivamente spazio i toni più luminosi con una prevalenza del bianco e del grigio chiaro;  il nero conserva la sua eleganza con toni più pieni e meno sfumati, in alcune tavole ispiratissime dove Breccia contiene e dirige letteralmente il buio e la luce.
Le vignette, riempite da questo gioco di chiaroscuri, diventano una totalità ricca di particolari e sfumature e conservano grande equilibrio conferendo dinamicità alle angolazioni spesso insolite dei corpi (vedi le scene di azione) e sopratutto ai volti dei personaggi: essenziali, iperrealisti, come solcati dal tempo, quelli di Perramus, Borges e, in generale dei personaggi positivi, che conservano sempre una potente espressività, ai quali si contrappongono le figure grottesche e caricaturali di antagonisti e comprimari a segnalare la differenza fra la tensione morale dei protagonisti e l'ambiguità del contesto in cui si muovono.
 Si potrebbe andare avanti all'infinito: le immagini delle tavole del maestro argentino riempiono talmente gli occhi che si dovrebbe scrivere un saggio a parte.

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L'edizione proposta dalla 001 per cura, pregevolezza e costo, (giustamente) ne fa un libro d'arte, più che un graphic novel, ed è corredata da un eccellente apparato editoriale che introduce l'opera con contributi degli esperti Angel de la Calle e Javier Coma e dello scrittore Osvaldo Soriano.
Ognuna della quattro parti è accompagnata poi da una breve descrizione, di Sasturain e Breccia, che la situa storicamente entro le traiettorie autobiografiche dei due autori e i passaggi storico-politici dell'Argentina degli anni '80, evidenziandone i temi principali.
L'avventura si chiude con Perramus che va “vedere cosa succede... a vedere come cambiano le cose, a vedere se tornano a essere come prima”; il senso non sta nel finale – risponde Borges a Perramus nell'ultima pagina, facendo riferimento al viaggio di Ulisse – ma nel “cammino da seguire, le esperienze vissute […] in ciò sta il senso”.
Atto di redenzione, esercizio di memoria e di resistenza intellettuale, Perramus è soprattutto questo: una vivida testimonianza della fiducia nella nona arte come strumento di codifica e decodifica dei significati della realtà, oltre che del potere salvifico delle storie.

Marvel's Luke Cage: recensione

  • Pubblicato in Screen

Luke Cage è la nuova serie targata Marvel e costituisce un ulteriore tassello di quel composito universo supereroistico seriale che fra un anno circa dovrebbe sfociare nell'attesa miniserie The Defenders. Siamo di fronte ad un prodotto curato ed elegante: fin dagli affascinanti titoli di testa si coglie l'intenzione di dare continuità e coerenza a quegli aspetti di realismo e attualità che già avevano caratterizzato i precedenti Daredevil e Jessica Jones.

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Luke Cage è il – tutt'altro che amichevole – supereroe di quartiere. Il creatore e autore principale della serie, Cheo Hodari Coker, costruisce attorno al protagonista un contesto convincente, che pesca a piene mani (e sul filo del luogo comune) dalla cultura afro-americana e dal suo immaginario: Malcolm X e Shaft, il barbershop come luogo di incontro e coesione, la splendida colonna sonora che spazia dal soul, all r'nb, all'hip hop (con un gustosissimo cameo, fra gli altri, di Method Man in uno degli episodi-chiave). La trama è ricca, cupa e solida e richiama fortemente,e a suon di citazioni (troppe?), il cinema della blaxploitation, quello più “politico” di Spike Lee e Singleton, Tarantino e Scorsese: Luke Cage e la sua pelle indistruttibile si fanno scudo e confine netto di fronte al bene e il male, il giusto e lo sbagliato, concetti che si confondono e intrecciano quotidianamente nelle strade di Harlem. La storia di un eroe “suo malgrado”, umile e schivo che si contrappone a “villain” in doppio petto, per quanto non troppo originale, è tuttavia portata avanti con maestria e supportata da scelte registiche semplici ma efficaci: nei primi episodi soprattutto nei primi piani e mezzi primi piani, i personaggi positivi (Luke, Misty Knight, Pop) occupano un lato dell'inquadratura; le figure intere e i primi piani più tradizionali sono riservati invece ai cattivi, inseriti al centro di inquadrature dove sono spesso presenti elementi geometrici (quadrati, linee perpendicolari) e superfici riflettenti (mobili lucidi, vetri, specchi) a richiamare la mania di controllo e la doppiezza dell'ambiente criminale di Harlem. La prevalenza dei colori caldi come il rosso, il giallo e l'arancione, disegna attorno agli episodi un'aura di sensualità intrisa sempre da senso di minaccia incombente, paura, violenza lì da venire.

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Nei primi episodi la narrazione si snoda con sufficiente fluidità, ma senza troppe novità, fra action e gangster movie - con interessanti incursioni in altri generi (vedi il dramma carcerario dell'episodio 4), poi, negli episodi 7-8 e 9, la trama erompe e confluisce in un inaspettato procedural-thriller con rimandi e meccanismi sottilmente hitchcockiani: l'esplosione folle e insensata della violenza, il protagonista preso in mezzo ad un intrigo più grande di lui, il gioco incrociato fra quello che sanno i personaggi e quello che sappiamo noi spettatori, fino alla – ennesima – citazione, con uno degli scontri principali che avviene in un teatro.
Luke Cage si prenderà mano a mano (o pugno dopo pugno) il ruolo che gli spetta all'interno della storia, fino ad assurgere a simbolo di resistenza sociale e morale di una comunità contro prepotenze e violenze arbitrarie.

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Buon lavoro di casting con Mike Colter, già visto in Jessica Jones, che ha volto e corpo perfetti per Luke Cage; Simone Missick, nel ruolo di Misty Knight, e Rosario Dawson (anche lei già vista in Daredevil e Jessica Jones) si contendono il protagonista, interpretando due figure femminili forti e interessanti, forse non approfondite come avrebbero meritato; venendo ai villain, impressionante la somiglianza con la sua controparte cartacea anche per Diamondback, interpretato dal bravo, ma un po' troppo “samueljacksoniano” Erik LaRay Harvey; convincente Mahershala Ali nella parte del “padrino” Cottonmouth; menzione d'onore infine per Frank Whaley, ormai specializzato nella parte del poliziotto sfortunato (vedi Ray Donovan) e Theo Rossi (Sons of Anarchy), che con il suo enigmatico Shades avrà in futuro sicuramente lo spazio che si merita.

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Luke Cage è la conferma che la Casa delle Idee con i suoi prodotti televisivi targati Netflix vuole distaccarsi per atmosfere e stile al ben più pompato ed epico MCU. Ciò che colpisce della serie è anche quello che, paradossalmente potrebbe renderla poco accessibile e appetibile per il comic fandom più tradizionale: le atmosfere cupe e pessimiste, il ritmo talvolta lento, il privilegiare l'approfondimento psicologico a scapito della pura azione, il finale volutamente sospeso danno un'impronta precisa e un appeal molto particolare che potrebbero portare lo spettatore di fronte alla dicotomia amore/odio incondizionato. Da parte di chi scrive la serie è altamente consigliata.

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