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Intervista a Gipi

Ciao Gianni. Benvenuto (anzi, bentornato!) su ComicUs.
Il tuo ultimo racconto, Questa è la stanza, è uscito in Italia a novembre, per Lucca, ed è nato su proposta della Gallimard. È la prima volta che pubblichi per un editore francese?


Non è la prima volta.
Appunti per una storia di guerra è stato il mio primo lavoro pubblicato all'estero (Francia inclusa, con Actes Sud), poi c'è stato Gli innocenti (Vertige Graphic), Questa è la stanza e Esterno Notte.
Tutti i libri usciti in Italia sono al momento stampati nel resto d'Europa e negli Stati Uniti (o sono in via di pubblicazione).

Parlaci del tuo ultimo lavoro.

Ho scritto Questa è la stanza in un momento molto brutto, seguito alla morte di mio padre.
Volevo parlare di una perdita e della meraviglia (e la vergogna) che si prova quando, seppur affondati nel dolore, si sente la vita dentro di sé, che vuole andare avanti comunque.
Sensazioni che non avevo mai provato (e avrei preferito non provare mai).
La prima stesura del libro era molto dura e triste.
Man mano che ci lavoravo ho alleggerito, fino a lasciare solo un velo di inquietudine e tenendo invece la storia su un piano di leggerezza.
Probabilmente la verità è che il libro, la sua scrittura, il disegno, lo stare con il pensiero "nella" storia, sono stati il mio modo per salvarmi da un periodo molto brutto e triste.
Quando guardo il volume, adesso, ne ricevo un'impressione di tenerezza, non riesco a valutarne la qualità.

Dopo Esterno Notte, Appunti per una Storia di Guerra e Gli Innocenti hai scelto di riprendere in mano la tavolozza come ai tempi delle tue storie per “Blue”. Come mai questo ritorno al colore?

Non ho mai smesso di usare il colore, nelle illustrazioni o nelle pitture.
Per me, in Italia, fare libri a colori è molto difficile per una questione di costi.
Inoltre amo la bicromia, la trovo elegante e assoggettata alla narrazione.
Gallimard voleva editare un libro a colori. La collana ospitava altri tre volumi, tutti a colori.
Così ho tirato fuori gli acquarelli, anche se poi ho tenuto una chiave tonale e tenue.
Ho fatto tutti i cieli gialli (tutti tranne uno) senza accorgermi che erano gialli.
Ma come ho appena scritto, durante la lavorazione di Questa è la stanza ero in condizioni particolari...

Mi pare che il tuo stile grafico stia diventando sempre più essenziale. Come se volessi privilegiare la dimensione del racconto – i dialoghi netti, la struttura molto studiata – lasciando al disegno un carattere più istintivo, grezzo ed emotivo. È una tua scelta consapevole?

Direi di no, ma sono contento che questo accada. E' una cosa che succede da sola. I disegni si adattano e si piegano alla storia. Cambiano di racconto in racconto. In questo momento sto portando avanti due lavori fatti con tecniche e modi di disegnare completamente diversi.
Una è fatta di getto a tratto sottile con disegno da diario. La seconda vede il tratto a pennello ed una struttura molto rigida.

In Questa è la stanza c’è un elemento che accompagna le vicende dei protagonisti in modo sotterraneo: la musica. Tu hai scelto di non mostrarla mai (non ci sono segnali sonori, per esempio) ma di raccontarla attraverso le voci dei personaggi. Come mai hai privilegiato questo approccio narrativo?

La musica non compare mai. Esiste solo nella rappresentazione dei corpi. Nelle posizioni e nei movimenti. La mia idea di musica (per quel gruppo) è qualcosa che non ha niente a che fare con le note. E' un ricordo di forza. Di energia disperata che ricordo come condizione usuale della mia adolescenza.

In un recente intervento sul tuo blog hai scritto che fai fatica a disegnare le figure femminili o, meglio, che non riesci a caratterizzarle come coi personaggi maschili. A me sembra che in Questa è la stanza con Nina tu ci sia riuscito, no? Anche se si tratta di un personaggio non centrale della vicenda…

Non è proprio così. Non ho detto che non riesco a caratterizzare i personaggi femminili. Ho scritto che non riuscivo, in passato, a staccarmi dal vizio mediocre del disegno della fighetta.
Era una questione culturale e di esercizio. La questione culturale l'ho risolta in fretta, l'esercizio è venuto a ruota ma ha richiesto un po' più di tempo.
E' anche un fatto di rispetto verso i personaggi.
Volevo potergli infondere la stessa dignità (e la stessa assenza di dignità) che metto nei personaggi maschili.

C’è uno personaggio, nella tue storie, che ti rappresenta, per il carattere o per la storia personale?

Giuliano è la mia voce, da tre libri a questa parte. Stava in Appunti per una storia di guerra, si è fatto un giro con il nipote in Gli Innocenti e suona la chitarra in Questa è la stanza.
E' un personaggio, solitamente, che guarda le cose e non le capisce. Mi rivedo in questa condizione.
Devo ripetere però che, per quanto abbia trascorso l'adolescenza suonando in un gruppo hardcore, non c'è molto di autobiografico ne La stanza, se non il ricordo di energia di cui parlavo prima.
Se avessi fatto un racconto autobiografico sarebbe stato mille volte più duro. I ragazzi di Questa è la stanza non bevono, non fumano, non usano stupefacenti.
La condizione della "mia stanza" era completamente diversa.

In uno dei racconti presenti nel tuo sito c’è la storia di un uomo che finisce in carcere. Questo è un racconto autobiografico?

Se ti riferisci a Pesci alla turca la risposta è sì.

Hai ammesso più volte di non conoscere molto del fumetto, di essere quasi infastidito dall’immagine tipica del fumettista. Per questo quando ti chiedono che lavoro fai, rispondi lo scrittore. Non hai paura di sembrare vittima di un “complesso di inferiorità” verso il tuo mestiere? O al contrario, di apparire un po’ snob?

Non ho paura di nessuna delle due cose. Ma la questione sta da un'altra parte.
Il mio è solo un problema pratico. Non ho smanie di stare in una categoria o nell'altra. Il problema, per me, in Italia è che alla parola fumetto sono associate tonnellate di cose che non mi riguardano e non mi interessano. Quindi, ogni volta devo specificare il tipo di lavoro che faccio, la questione di non fare avventura, di non avere un eroe particolare e così via.
E' una semplice rottura di scatole.
Ora, dato che ad uno scrittore non viene chiesto: "che personaggio racconti?" ho pensato di adottare la formula.
Se sei uno scrittore, il pubblico si aspetta che tu racconti delle storie, che è esattamente quello che faccio. Se dico che faccio i fumetti mi viene chiesto di disegnare un Paperino, e questo non lo so fare tecnicamente e faccio brutte figure.
Non c'entra niente il concetto di migliore o peggiore e non c'è una gara tra mestieri. E' solo una questione personale. Ogni vena polemica o ricerca di atteggiamenti snob non mi riguarda proprio.
Esempio: La versione francese di Appunti per una storia di guerra è finito tra i migliori venti libri dell'anno, in Francia. Nessuno ha visto come un problema il fatto che ci fossero pure dei disegni dentro.

La tua voglia di comunicare, di confrontarti con la comunità fumettistica, per esempio, anche al di là del tuo lavoro: questo denota un desiderio di essere popolare, secondo me, che è il contrario dello snobismo. Popolare in senso buono, nel senso di rivolgerti a tutti. Non pensi che siano sufficienti le tue storie per raccontarti?
E come vedi l’attuale critica fumettistica in Italia?


Cerco la comunicazione da sempre. Non faccio altro. Lo faccio anche con il tecnico della caldaia del riscaldamento e con i Testimoni di Geova che mi vengono a casa.
Comunicare per me significa sentirmi al sicuro.
Le mie storie spero che siano sufficienti a raccontare se stesse. Io sono pure un essere umano con delle opinioni e delle tensioni extra-storie.
Mi piace il confronto e mi piace provocare, sopratutto se sono in ambienti sonnecchianti e compiacenti.
Della critica fumettistica in Italia non so niente.
Immagino che rifletta la condizione culturale del nostro ridente paese. Sarebbe normale. E immagino che ci siano delle eccezioni positive. Sarebbe normale anche questo.

Dalle tue interviste risulta chiaro che le scelte stilistiche e narrative che fai sono sempre molto consapevoli, come se sentissi fortemente la responsabilità di ciò che racconti. Credi che il fumetto – e la narrativa in generale – debbano essere più attenti a quello che dicono? Che debbano avere quasi una funzione “formativa” verso i lettori?

Sento una responsabilità forte verso me stesso. E' una cosa dolorosa riguardare una storia vecchia e sentirsi a disagio. Mi capita, con alcune cose vecchie, dove non avevo fatto un lavoro sufficiente di riflessione. Dove, in sostanza, non sapevo bene che cosa stavo raccontando.
Questa cosa mi fa molto male e, visto che preferisco essere felice che infelice, adesso mi tengo d'occhio: non mi fido delle mie sensazioni, delle mie opinioni e neanche delle mie conclusioni.
Credo che una buona parte di me sia completamente rincoglionita dagli anni in cui è cresciuta. Quindi non mi fido. Non nel lavoro, almeno. Le lascio prendere il sopravvento quando devo fare cazzate o cose senza conseguenze, ma la sorveglio quando scrivo.
La speranza è che esista (anche in noi stessi) un senso di umanità e che si sia ancora in grado di raccontarlo. Non il bene o il male, ma andare a vedere se esiste ancora un nucleo antico di umanità. Quello che, forse, sta alla base della comunicazione universale.
Sono convinto che la società dei consumi, per l'appunto, consumi questo nucleo fino a renderlo invisibile.
Partendo da questo, cercando di avere rispetto per me stesso, mi trovo involontariamente ad avere rispetto pure per i lettori. E poi tratto il lavoro con ossessione. Rileggo mille volte, butto tutto quello che non è funzionale alla storia e adotto tanti altri accorgimenti maniacali noiosi da raccontare.
Insomma, non ho tanto una tensione pedagogica verso gli altri (non ora, almeno), ma verso me stesso. Se lavoro con coscienza coltivo la mia coscienza. Penso.

Parliamo di Esterno Notte, la tua prima raccolta di racconti per Coconino. Il volume comincia con La Storia di Faccia che è, in un certo senso, una dichiarazione di poetica. Nell’introduzione, tu spieghi che dopo l’11 settembre sentivi l’esigenza di raccontare l’angoscia di quel momento particolare per il mondo, ma le voci dei tuoi amici ti spinsero a tornare nel tuo spazio, nella provincia che conosci bene. Ti è mai venuta la tentazione di uscire da quello spazio? Di cambiare generi o ambientazioni, o di raccontare in modo diretto anche eventi che non conosci, come l’11 settembre?

Racconto sempre eventi che non conosco. Altrimenti non racconterei proprio.
Ma preferisco raccontare e prendere spunto da questioni che ho affrontato realmente (senza comprenderle).
La mia posizione di fronte ai temi del racconto è quella dell'ebete: ho vissuto un evento e non l'ho compreso o non mi sono neppure accorto che accadeva.
Allora fermo il mondo. Torno indietro, scrivo cercando di ritrovare il filo.
Quando ho fatto La storia di Faccia, ho iniziato scrivendo sulla spinta del terrore seguito all'attentato dell'11 settembre e poi Faccia ha preso a parlarmi nella testa (veramente) e (veramente) mi sono sentito uno spettatore televisivo che credeva di aver avuto un'esperienza solo perché aveva visto delle immagini di esplosioni. La paura che mi davano quelle immagini e il dolore per tutta quella morte era comunque una esperienza di secondo grado.
E allora ho preso a raccontare di esperienze di primo grado sulle quali non ero più tornato. Cose che almeno minimamente avevo conosciuto e che dovevano stare ancora da qualche parte, dentro di me, sotto scatoloni pieni di pubblicità e suonerie di cellulari e vizi da consumista.
Credo che lo sgomento per il cambiamento che stava cadendo sul mondo dopo l'attentato di New York sia finito comunque nella storia, ma non potevo parlarne direttamente.

Anch’io abito in provincia. Credo che tu abbia saputo cogliere questa “lentezza” apparente, questa fissità dei paesaggi e delle persone, questo distacco dal tempo che in certi momenti prova chi vive in provincia. Ciò ti dà la possibilità di raccontare le cose (cose anche molto reali, come ne Gli Innocenti il tema del terrorismo) da un punto di vista un po’ marginale ma anche autentico. È questo che cerchi, nel tuo lavoro, l’onestà prima di tutto?

Forse non si può "cercare" l'onestà. Sarebbe disonesto.
Per me è importante avere un atteggiamento di umiltà verso la scrittura e la narrazione. Mettersi con le mani in alto, arrendersi al fatto di non capire le cose.
Se questo metodo di lavoro porta all'onestà, tanto meglio. Ma questo (se avviene) avviene inconsapevolmente.
La provincia è il mondo che conosco. Quando vado a Parigi resto incantato dalla bellezza, dalla vastità, dalla magnificenza. Ma non saprei raccontarla. Sono cresciuto nei paesaggi che disegno, con persone che hanno i caratteri che descrivo.
Inoltre, la sensazione (o la condizione pratica) di solitudine che ho sempre avvertito nel mio ambiente è anche un buon espediente narrativo. Isolare i personaggi, metterli in mondi deserti, mi facilita il lavoro e stacca le storie dalla contingenza.

La tua visione del mondo (e della provincia) è affettuosa, ma anche tagliente. I personaggi sono tanti killerini impauriti che si fingono cattivi e sembrano sempre sul punto di scoppiare. Alcuni di questi trovano delle valvole di sfogo (per esempio nella musica), altri no, e finiscono a tirare calci a case vuote (Gli Innocenti). Oggi, tanti ragazzetti di provincia passano il tempo a girare per i centri commerciali e sognano di scappare in città o di andare in televisione. Pensi che esista ancora, quella provincia che racconti?

Non lo so cosa esiste. Sospetto che esista "tutto".
Tuttavia, se facessi racconto realista o autobiografico di base avrei di che preoccuparmi: sto invecchiando, non conosco le mode, le nuove musiche, i modi di dire. Vedo ogni tanto dei programmi televisivi dove a fondo schermo scorrono dichiarazioni d'amore in sms, con tutte le "x" e le "k" e i ragazzi si vestono con cose brutte da disegnare.
Ma non faccio questo. I personaggi sono simboli, le ambientazioni sono pretesti. Non voglio scopiazzare i "giovani d'oggi".
E' una cosa che faccio senza pensarci troppo, ma con il tempo ho visto che funziona. I personaggi si decontestualizzano e i lettori (e anch'io) si identificano più facilmente. I luoghi sono non luoghi adattabili ad ogni nazione.
Non metto mai i nomi dei posti, le insegne dei negozi sono intelleggibili e così via.
Quando ho usato dei nomi di paesi (Appunti per una storia di guerra) ho imposto alle versioni straniere di tradurre anche i nomi di luoghi che apparivano sulle tavole.

La storia che chiude Esterno Notte, Muttererde, è un racconto atipico: una netta divisione tra testo e immagini che crea due narrazioni parallele, una scritta e l’altra visiva. La cosa creò subito qualche problema di classificazione: quando il racconto era in lizza per vincere un premio importante, qualcuno nella giuria pensò di non votarla dato che non si trattava esattamente di un fumetto…

Era una stupidaggine, naturalmente..

È un esperimento che ritenterai?

Non lo so. Però, nel farla, ho imparato alcune cose.
Negli ultimi lavori che sto facendo ci sono blocchi di testo abbastanza impegnativi, ma la lettura di questi è molto più legata alle immagini di quanto accadeva in Muttererde.
Il testo non sta in un mondo suo, ma va a fare ritmo al pari dei disegni. Lo vedrai in Hanno ritrovato la macchina, il nuovo albo della serie Ignatz.

Ci puoi parlare della tua attività di regista?

No, perché non c'è una mia attività di regista.
Ho girato molti cortometraggi e due lunghi, ma questo non basta a far di me un regista. A volte scrivo in forma di sceneggiatura cinematografica e spesso penso alle immagini in termini di inquadrature ottiche.
Lavorare con la macchina da presa mi ha fatto bene per imparare a gestire ritmi e inquadrature. Mi ha insegnato molto per quanto riguarda la narrazione con immagini e la gestione del tempo nel racconto.

Ho letto che hai conosciuto Pazienza, è vera questa cosa? E cosa puoi dirci di lui?

E' vera e priva di importanza.
Ho trascorso due settimane , quando avevo 19 anni a fare un corso con lui e altri grandi autori del tempo.
Io ne adoravo il lavoro. La timidezza ha fatto sì che non ci parlassi molto. Lo vidi disegnare e pensai che era davvero bravissimo. Tutto qua.
Alcune cose che mi disse mi sono rimaste in mente e poi lui era il primo "vero disegnatore vivente" che conoscevo. Era la prova che si poteva essere disegnatori ed esistere contemporaneamente.

Ci sono altri autori, scrittori o personaggi che vedi come punti di riferimento nel tuo lavoro?

La cosa che mi affascina è sempre (comunque) la scelta di visione e di racconto e la determinazione. Difficilmente sono rapito dal disegno, ma non per una questione di qualità, che spesso riconosco altissima, per una deformazione che mi fa affezionare alle manifestazioni di umanità nel lavoro.
Quindi i miei riferimenti sono di tipo affettivo e non formale.
Mi piacciono gli autori che fanno esperimenti difficili, che ragionano sul lavoro e cercano di far muovere il linguaggio del fumetto verso nuovi percorsi.
Devo fare una lista di nomi? Dimenticherei sicuramente un sacco di persone che ammiro.
Spiegelman con Maus è una specie di esempio di possibilità. Dopo averlo letto, ho capito dove si poteva arrivare con un romanzo a fumetti.
Mentre lavoravo ad Appunti... e mi crollavano morale e fisico, sfogliavo 5 è il numero perfetto di Igort e mi dicevo: "guarda quanto ha lavorato, cazzo. Non ti lamentare! Non puoi essere stanco per le tue misere paginette!" e ritornavo al tavolo.
Ah, mi piacciono gli autori con delle ossessioni.
Insomma, ho strani rapporti con i libri altrui :)

Parliamo delle tue recenti dichiarazioni a Peanuts, ti va?
Hai chiuso l’intervista contrapponendo al fantastico (falso e dominato dalle regole del consumismo) la purezza del reale, di una narrazione realistica e vera. Non è una distinzione un po’ troppo forte? In fondo si tratta sempre di due modi di guardare la realtà. È il talento a decidere se lo sguardo è efficace oppure no.


Io parto dall'idea di essere malato.
Io mi dico: sei cresciuto nell'Italia del boom economico, sei scemo per forza.

Questa è la mia base di ragionamento. Non è una regola che pretendo di applicare ad altri.
Non finirò mai di sottolineare questo aspetto: è una cosa che riguarda me. La battaglia che conduco contro questa "scemenza" è una battaglia personale.

Il talento è solo una parola. Io non credo in dio e non credo nei miracoli. Penso che siamo la somma delle esperienze fatte. Cresciamo se abbiamo una tensione alla crescita.
Allora mi dico: stai attento. Non ti addormentare, studia, resta cosciente, interrogati.
Io sono pigro e so che se rilasso queste difese, queste attenzioni, posso cagarmi su un divano davanti a Maria de Filippi per tutta la vita. Senza problemi.
Per quanto concerne lo sguardo: lo sguardo è efficace se è allenato e si rammollisce (come ogni altra parte di noi) con estrema facilità.

Ho parlato di "purezza del reale"? Aspetta che vado a rileggere...
[....]
Ecco... non l'ho fatto, mi pareva.
Non userei mai il termine "purezza". E' una cosa che mi fa tornare alla mente i nazisti. Quando ho letto la tua frase ho avuto paura di essermi rincoglionito.
Se devo pensare ad un termine da accostare a "reale" userei l'opposto: impurità del reale :)

Hai ragione. Parlavi di esperienza e fantasia. Però faccio fatica a capire perché la fantasia è più soggetta alla "scemenza" del mercato rispetto all'esperienza. Entrambi questi piani possono servire per intrattenere o per comprendere il mondo. I racconti fantastici di Poe, i mostri di Lovecraft o gli androidi di Dick non si limitano a intrattenere il lettore, non lo spingono all'ottundimento, anzi...

I racconti di Poe, i mostri di Lovecraft e gli androidi di Dick nascono tutti quanti (hai fatto tre esempi perfetti) da esperienze di vita profonde.
I tre scrittori citati non hanno trascorso la vita su un divano davanti alla tv o tra amici a giocare a D&D.
Il loro fantastico è (cavolo hai proprio preso tre esempi perfetti) una trasposizione delle esperienze (in molti casi terribili) fatte dagli autori/uomini nella vita.
Immagino che i nostri lettori li conoscano, ma se serve, possiamo ricordare l'esistenza disastrata di Poe, tra alcolismo e povertà terribile, e innamorate che gli morivano inesorabilmente davanti agli occhi ed una vita di fallimenti nel lavoro?
Per HPL possiamo/dobbiamo ricordare che i genitori erano completamente folli, la madre lo ha vestito da bambina per tutta l'adolescenza , il padre era un alcolizzato violento e la madre è finita in manicomio (e guarda caso, lui ha raccontato di persone che si trasformano in mostri orribili per tutta la vita).
E Dick? Una vita dedita allo sbriciolamento della psiche. Esperienze estreme con LSD, psicosi e sindromi di derealizzazione etc. Non ci si meraviglia che il suo tema continuo, alla fine, sia stato quello della percezione del reale, della propria non/esistenza etc.

Quindi torno all'argomento. Necessitiamo, secondo me, di un bagaglio di esperienza reale anche (vogliamo dire sopratutto?) per narrare su piani fantastici.
In questo senso, l'esperienza televisiva, ma anche quella fantastica generata dai giochi di ruolo, secondo me non è sufficientemente pregnante.
Parlo di esperienze "necessarie" agli scrittori di storie, naturalmente. La mia mamma casalinga di 84 anni ha bisogni differenti, naturalmente. Insomma, non è una regola di vita, per me è solo una regola di lavoro.

Quindi il tuo approccio al reale è un modo per sfuggire ai tanti immaginari che si ripetono l’un l’altro e ci immergono costantemente. È una critica al cosiddetto “postmoderno” che oggi va tanto di moda, la citazione esplicita, l’uso delle convenzioni di genere e di stili che non ci appartengono?

No, è una cosa legata alla politica.
L'economia e la politica degli Stati Uniti hanno cambiato il mondo. Io sono cresciuto con il mito dell'America. Per me gli americani erano i buoni e i cattivi, quando morivano, gridavano "himmel!" o "Der Teufel!"
Ma le cose, da allora, sono cambiate. Le amministrazioni americane sono cambiate e i politici statunitensi di buon intento sono stati quasi tutti assassinati.
Questa America non è l'America della grande democrazia. E' un'altra cosa.
Ciò nonostante, noi cresciamo con modi americani (di serie b, perché importati e sempre in ritardo), e con l'immaginario americano a dominare e far scomparire il nostro (ma c'è, il nostro, o va costruito da zero?).
Ora, se le amministrazioni americane degli ultimi cinquant'anni non avessero avuto tutto questo gusto per la guerra e se il cinema americano non fosse quasi completamente dominato dalla fascinazione per la morte, io potrei anche mantenere intatte le mie simpatie.
Ma non è così.
Il sistema economico dominante cerca di imporre un immaginario che non condivido. Io cerco di non farglielo fare (non con me almeno). La questione sta tutta qui.
Non è però una questione di bieco antiamericanismo. Se fossimo dominati dagli svizzeri, guarderei con sospetto al cioccolato (gli orologi etc.. vai con i luoghi comuni a piacere), ma è dagli USA che la nostra vita è regolata.

Una delle cose che ti infastidiscono di più in chi accosta giochi e fumetti è la realtà dei giochi di ruolo, la costruzione di uno spazio in cui ognuno si sente libero di “giocare” entro un menu di regole già scritte.

Giochi e fumetti dei supereroi e fumetti fantastici hanno sicuramente molte cose in comune. Hanno ragione quelli che lo sostengono. Mi arrendo.

Ma quell'aspetto del fumetto non mi interessa e nel mio lavoro l'unica vicinanza con il mondo dei giochi è quello che deriva dalla mia alienazione, accuratamente coltivata giocando al pc.
Cioè, se vogliamo, il rincoglionimento cronico che mi induco giocando si riflette sulla imbecillità che finisce inevitabilmente nelle storie.
Così dovrei far contenti tutti. Questa discussione giochi - fumetti sta diventando noiosa.

Sarebbe ipocrita negare che il livello di coinvolgimento dato dagli rpg (che siano su carta o pc) è talmente alto da portare ad un allontanamento dal mondo reale.
Quindi, se il tuo obiettivo è la consapevolezza del mondo in cui vivi, una spinta contraria come quella data dai giochi non è l'ideale. Tutto qua.

Non c’è anche un’analogia di ruolo? Per esempio, in Appunti per una Storia di Guerra, ci sono questi ragazzini che cercano di sfuggire al loro ruolo, ma alla fine non ce la fanno. O forse sì?

Appunti per una storia di guerra racconta un bisogno di amore ambientato in uno scenario di conflitto.
A questo piano si aggiunge un ragionamento sulle differenze. Non è una questione di ruoli ma di destino sociale. Non ho mai pensato a dei ruoli per i personaggi.
Se restiamo con il pensiero nella borghesia possiamo pensarci tutti ai nastri di partenza con le stesse possibilità. Ma questa è ridente ipocrisia.
I poveri perdono. E perdono ancora di più in una società strutturata sul denaro.
I due ragazzini di Appunti vanno a combattere, alla fine. Uccidere o essere uccisi mi sembra una condizione con ridottissime possibilità di lieto fine.

In effetti, in molti film americani, dopo aver ammazzato tutti l'eroe è fiero e contento e torna a casa insanguinato. Ma queste sono cose da inumani.

"Quanto ti devono scoppiare vicino le bombe, per farti dire che una guerra è tua?": questa è una delle frasi che più mi ha colpito degli Appunti. Viviamo un'epoca di benessere e di relativa spensieratezza (perlomeno in occidente), finché ogni tanto qualche pazzo si fa esplodere su una metropolitana e ci costringe a svegliarci, per qualche giorno. Eppure i nostri governanti ci promettono che "i terroristi non riusciranno a cambiare il nostro stile di vita"...

Quella frase è stato il motore primario della scrittura della storia. Questa era la domanda che avevo in mente, in quei mesi.
I nostri soldati erano in Iraq e combattevano. Morivano. Uccidevano.
Intanto io giocavo a un gioco di guerra online. Avevo una strana vena di vergogna ma non smettevo. Un giorno feci un combattimento a squadre con altri giocatori italiani, avevamo tutti le cuffie e i microfoni (proprio come i fissati) e sentii per la prima volta le voci degli altri giocatori. Avevano toni drammatici e realistici: usavano termini militari e una veemenza che mi spaventò. "Detonazione! Detonazione!" gridava uno di loro dopo aver messo il (finto) plastico su un (finto) carro armato.
Mi spaventai e smisi. La vergogna, se ben coltivata, è un sentimento che può dare buoni frutti.

Appunti per una storia di guerra sta conoscendo importanti riconoscimenti dalla critica, in Italia e all'estero. Ha vinto il premio Romics e quello Goscinny, mentre la rivista francese Lire l'ha incluso, come hai accennato prima, tra i venti migliori libri dell'anno (unico volume a fumetti a comparire nella lista). Delle belle soddisfazioni...

E' pure in finale come miglior libro dell'anno al festival di Angouleme ed ha vinto il premio come miglior libro in altri due festival (sempre in Francia), non che quello come miglior volume di scuola italiana al festival Romics di Roma.
Sono cose che mi fanno piacere. Sopratutto mi fa piacere (al di là dei premi) il modo in cui i lettori hanno accolto i miei lavori, in Francia. Non me lo sarei mai aspettato. Racconto mondi piccoli, senza nessuna velleità universale e invece i ragazzi francesi (e tedeschi e spagnoli, etc...) ci si rivedono. Riconoscono le strade, i modi di fare. Per me questo è davvero un miracolo.

Allora un pochino ci credi, ai miracoli? :)

Il termine "miracolo" mi porta subito alla mente la chiesa cattolica. Ed è l'ultima cosa che voglio avere in mente in questo periodo. Non credo ai miracoli e neppure al riconoscimento automatico dei meriti. E non credo che "la fortuna gira" o che "la vita è una ruota" o che "tutto torna prima o poi" o roba del genere.
Però credo un pochino nella comunicazione tra le persone e penso che una buona esigenza di comunicazione, con alla base una ricerca minimamente onesta possa trovare (per quanto riguarda il mio lavoro) un certo riscontro tra i lettori.

Cos’hai in mente ora? Quale sarà il tuo prossimo stile?

Sto lavorando a due nuove storie, il secondo volume della serie Ignatz: Hanno ritrovato la macchina (che uscirà per Angouleme) e una storia a caduta autobiografica disegnata in stile libero. Tra alcuni mesi, se tutto va bene, salterà fuori. Il primo episodio sarà sul nuovo numero di Canicola, in uscita a fine gennaio.

Grazie della chiacchierata Gianni, in bocca al lupo per i tuoi progetti.


Davide Scagni
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