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Valerio Coppola

Valerio Coppola

Razzismo, problemi di memoria selettiva

  • Pubblicato in Focus

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rom

Un popolo sparso in tutta Europa da tempo immemore, secoli. È ovunque pur non avendo una casa propria, la sua è un’invasione subdola e silenziosa. Mai integrato con noi e con le nostre tradizioni, sempre separato e avvinghiato alle proprie usanze malsane. Un popolo di gente infida, portata per natura a truffare le persone per bene e approfittarsi dell’onesto lavoro altrui. Li riconosci al primo sguardo: hanno tutti quell’abbigliamento, tutti quegli stessi tratti somatici.
Per chi sono queste parole? Per i rom? O per gli ebrei? La verità è che sono state dette per gli uni e per gli altri, e non a caso entrambi questi popoli hanno subito lo stesso destino per decisione nazista e per mano europea. Il “problema” ebraico l’abbiamo tutto sommato espulso, mutandolo in buona sostanza in un problema palestinese, anche se l’antisemitismo rimane un abito buono per ogni stagione nel Vecchio Continente. I rom, invece, hanno avuto la discutibile sfortuna di non avere una rappresentanza sufficientemente nutrita nei campi di sterminio, finendo in ombra rispetto alla questione ebraica e dunque non imponendosi mai come una situazione da affrontare, né in ambito internazionale, né tantomeno europeo.

Ora perdonatemi se parlo in prima persona e la prendo larga, ma è necessario. Una cosa che non ho mai sopportato di tutta la discussione sullo sterminio nazista è la saltuaria e sottintesa volontà di risvegliare un senso di colpa. Non so se sia una cosa intenzionale o inconsapevole, ma in molta della retorica (in senso neutro) che circonda il discorso della memoria, il messaggio sottostante sembra spesso essere: “Non puoi odiare gli ebrei perché l’Europa gli ha fatto questo e quest’altro”. Messo in questi termini è un discorso assolutamente stupido. Prima di tutto, trattandosi di un imperativo, è intrinsecamente perfetto per suscitare reazioni uguali e contrarie. In secondo luogo circoscrive il problema antisemita a quei dodici anni di dominazione nazista, o tutt’al più partendo dal famoso “affaire Dreyfus”, elidendo completamente tutto ciò che è venuto prima, i secoli di persecuzioni, stragi e disumanità. Ma terzo, e ancor più grave, è proprio quel meccanismo vagamente ricattatorio che lega il senso di colpa verso gli ebrei a un senso di debito verso gli ebrei. Onestamente ritengo di non avere nessuna colpa nei confronti di tutte le generazioni di ebrei di cui l’Europa ha fatto scempio. Né d’altra parte mi sento in debito con loro, se non per un unico debito morale. Ma è qui il punto. Questo mio debito morale non dice “Non discriminare gli ebrei”: significherebbe non aver capito niente. Invece, il debito morale che sento nei confronti di ogni singolo ebreo marchiato è “Non discriminare nessuno”. Ecco perché il meccanismo del senso di colpa è letteralmente aberrante: perché, per paradosso, riporta tutta la questione a un punto di vista razziale, e in maniera implicita non mi fa vedere ogni singolo ebreo, morto o sopravvissuto, in quanto essere umano al pari di tutti, bensì appunto come un “ebreo” ancora ghettizzato, nuovamente portatore di uno status diverso da quello degli altri per via della sua appartenenza etnica. E questo si chiama razzismo.

Magari è banale, ma ritengo che capire questa cosa sia importante. Se questo discorso entrasse in maniera aperta nella retorica della memoria, forse questa ne uscirebbe davvero consapevole e soprattutto efficace. La lezione terribile che la ferocia nazista dovrebbe trasmettere non è una questione etnica, ma universale: e in fondo, a livello istituzionale la lezione è stata effettivamente incorporata nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti (non a caso universali) del secondo ‘900. Ma il problema di una retorica accomodata nell’abitudine della settorialità etnica è grave, perché infatti continuiamo a vedere come l’uguaglianza “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” sia un principio che cozza con i comportamenti quotidiani reali. A volte sembra che, celebrata la giornata della memoria, ci siamo lavati la coscienza a sufficienza da poter fare del nostro peggio nel resto dell’anno. E la vicenda del popolo rom è la testimonianza più oscena di quanto poco abbiamo imparato dalla nostra memoria.

Quella dei rom è una questione rimossa dalla scena pubblica, salvo quando torna utile sotto il profilo della cronaca e dell’emergenza. Ma che emergenza è una situazione che dura da decenni senza vedere mutamenti sostanziali? Sembra più probabile che questo modo di vedere le cose sia volutamente distorto, e che il problema non si voglia risolvere. Il libro di Alain Keler illustra in modo molto lucido questo stato di cose. È evidente che il problema delle comunità rom è prima di tutto sociale ed economico e andrebbe risolto in chiave politica. Non di certo con la repressione e l’ordine pubblico, né tantomeno appellandosi a fattori di matrice etnico-culturale. I rom vivono in condizioni di degrado perché non vogliono lavorare e preferiscono vivere in maniera parassitaria? Certo! E gli ebrei sono usurai. Ecco dove non funziona la memoria: sappiamo tutti che gli ebrei non sono usurai per natura. Ma lo sappiamo perché ce l’hanno insegnato nelle giornate della memoria, oppure perché l’abbiamo capito davvero? Perché se l’avessimo capito, sapremmo anche che i rom, al netto delle mele marce che troviamo ovunque, vogliono lavorare e vivere in condizioni materiali migliori, come tutti.

LePerilJuifDetto questo – ed ecco perché mi esprimo in prima persona – devo fare una confessione: io sono un razzista. Perché anche io, con tutti i bei discorsi che faccio, quando vedo un rom per strada ci penso a mettere le mani sul portafogli. È brutto, e me ne vergogno non poco, ma è così. Credo che il pregiudizio lo respiriamo di continuo, e che il nostro ambiente comunicativo sia intimamente razzista. Per certi versi è addirittura normale, e in un certo senso è anche uno dei meccanismi alla base del fumetto. Lo spiegava magnificamente Will Eisner (che del razzismo si è anche occupato nelle sue opere, vedi Il Complotto) quando descriveva il modo in cui il fumettista immagina, forma e disegna una storia: per essere capiti, bisogna rifarsi a esperienze condivise, cioè a dei comportamenti, delle azioni, delle estetiche tipiche, vale a dire degli stereotipi. Una comunicazione chiara deve insomma semplificare ricorrendo anche a espedienti come la caricatura e l’esagerazione del reale: in questo modo l’estrema complessità è ricondotta a schemi comprensibili a tutti grazie a pochi elementi riconoscibili. Così, se disegno un uomo con una lama tra i denti, i miei lettori sapranno che si tratta di un pirata, e la comunicazione fumettistica grazie a questa icona può dirsi riuscita. Il guaio, però, è che nel mondo concreto questo si chiama pregiudizio: letteralmente pre-giudizio, cioè un giudizio dato prima di conoscere la realtà effettiva dei fatti. Finché quell’uomo non mi dirà di essere un pirata, io potrò tutt’al più supporre che lo sia, ma non posso averne la certezza. Così, quel rom sarà un ladro solo se tenterà di derubarmi. In caso contrario, è più probabile che io sia un idiota, anche perché quel rom non aveva neanche “un coltello tra i denti”, ma si limitava a essere ciò che è: un essere umano.

Il punto, come si dice, è riconoscere di avere un problema, almeno se si intende affrontarlo. Prendiamo solo il più recente dei tanti casi occorsi negli ultimi anni, cioè il rogo contro l’insediamento rom a Torino agli inizi di dicembre. Riguardo quella vicenda, il sindaco Piero Fassino, insieme a un ampio coro, ebbe a dire che Torino non è una città razzista. Ah no? E come si definisce un gruppo di persone che rivolge la propria rabbia contro un intero gruppo solo perché, pare, due tra quelle decine di persone avrebbero fatto violenza “a uno dei loro”? E la facilità con cui hanno creduto all’accusa non è razzista? E la facilità con cui si è scelto di prendere nelle proprie mani la giustizia invece di rivolgersi alle autorità, come se si stesse andando ad ammazzare un branco di cani rabbiosi invece che delle famiglie? E ancor prima, quali concetti deve avere assorbito per anni dal suo ambiente di vita quella ragazza, per formulare come prima falsa accusa quella contro dei rom? Non è che, quasi istintivamente, si rendeva conto che quell’accusa avrebbe trovato un terreno fertilissimo per attecchire, perché “tutti sanno che i rom sono canaglie”? Queste persone vivevano nel vuoto o in quella città?

È evidente che viviamo in un ambiente in cui lo stereotipo razzista è profondamente radicato, tanto da essere assecondato da meccanismi mentali automatici. E il fatto che in quella situazione sia esploso in maniera più violenta e palese, non significa che quello stesso modo di pensare non sia ben più diffuso, anche se poi non è da tutti la demenza di passare all’azione come è accaduto lì.
Ecco perché, magari, sarebbe meglio riconoscere che noi, così come la comunità in cui viviamo, abbiamo un serio problema di razzismo. Ogni giorno. L’autoindulgenza non porta da nessuna parte, e per capirlo basta guardare cosa siamo riusciti a fare a quegli esseri umani incidentalmente chiamati ebrei. E magari metterlo a confronto con ciò che stiamo facendo a quelli chiamati rom. Il buon uso della memoria è tutto lì.

Alain e i rom

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Ci sono pochi argomenti tanto ubiqui, e allo stesso tempo sconosciuti, quanto la questione dei rom. Nonostante si senta parlare in continuazione dei rom, con i media abituati a rappresentarli come se fossero un fenomeno naturale, quasi un tormentone stagionale, in realtà il grande pubblico poco o nulla sa di questo popolo: non solo non ne conosce le caratteristiche e le usanze, le differenze interne e la storia ma si adagia su comode semplificazioni che si traducono in una estrema confusione sul tema, a partire dal ginepraio di nomi con cui ci si riferisce al popolo rom e fino ad arrivare al peggior pregiudizio.
Partendo da una situazione analoga, per ventura di lavoro, nel 1999 il fotoreporter francese Alain Keler intraprese un percorso di conoscenza di questa sorta di mondo parallelo, approfondendolo negli anni a venire fino ad oggi.

Così, quello che esce dalla sua esperienza, sintetizzata in questo volume intitolato, appunto, Alain e i rom, è davvero un mondo parallelo. Parallelo perché, seguendo le peregrinazioni di Keler, si osserva come la presenza del popolo rom sia una costante dei diversi contesti europei, dai Balcani alle ex repubbliche socialiste, fino a Paesi come Italia e Francia. Eppure, nonostante questa variegata presenza sia così consistente nella storia e nell’attualità dell’Europa, nel racconto pubblico i suoi destini non sono mai intrecciati a quelli del continente, fino alla vera e propria rimozione: ecco il parallelismo, la mancanza di intreccio, nonostante i rom siano stati tristemente protagonisti proprio di uno dei più forti momenti identitari (in negativo) per l’Europa, assieme agli ebrei.

Convertendo le proprie esperienze in fumetto, grazie all’apporto grafico e narrativo di Emmanuel Guibert e Frédéric Lemercier, Keler adotta il registro del reportage per immagini alla Joe Sacco, producendosi in un racconto che fonde testimonianza e presa di posizione. Ma, nonostante il netto e consapevole punto di vista dell’autore/protagonista, non si può dire che il racconto non sia obiettivo: ritraendo le tante diverse comunità rom, Keler è abile e delicato nel non nascondere tutte le brutture che possono raggiungere il degrado quasi aberrante, stando attento nello stesso tempo a contenere il sentimento di pietà umana e a non ingigantire le situazioni più tristi. Così come, nella rappresentazione degli aspetti positivi, non si arriva mai alla celebrazione, seppure è intuibile il progressivo “innamoramento” dell’autore per ciò che osserva. Un punto di forza del racconto è, anzi, un’analisi attenta dei diversi fattori (non ultimi quelli sociali ed economici) che determinano le particolari condizioni di vita di questi gruppi. Analisi derivata dall’essere stato dentro ai problemi e in mezzo alle persone, invece di fermarsi a giudicare da fuori.

A ben vedere, in effetti, pare che l’inclinazione con cui Keler osserva e racconta sia quella propria della sua professione: la fotografia. L’autore va sul posto, sceglie un’angolazione e un’inquadratura, sfrutta la luce dell’ambientazione, ma ciò che infine entra nell’obiettivo non è altro che ciò che gli era davanti. Obiettivo, appunto.
Non a caso, sono proprio le fotografie di Keler a scandire il racconto: gli scatti dell’autore sono infatti usati dai suoi due collaboratori come vere e proprie vignette in soggettiva, restituendo momenti di forte autenticità al racconto espresso dalle parole di Keler stesso. E mentre alle foto è assegnato questo ruolo di rappresentazione del veduto, alle vignette in fumetto classico spetta invece il compito di far procedere la narrazione, di creare azione e scorrimento. Un amalgama riuscito che evidenzia anche la grande differenza concettuale e tecnica tra i due linguaggi, in ogni caso capaci di sostenersi a vicenda e integrarsi, se ben usati.
Un approfondimento a parte merita anche l’uso del colore: se le vignette fotografiche sono caratterizzate da un caldo e spoglio bianco e nero, le “foto disegnate” sono, invece, dominate da una tavolozza opaca e autunnale che riempie un tratto semplice e pulito. L’impatto emotivo della scelta cromatica restituisce, in maniera molto efficace, la difficoltà e la pesantezza delle realtà raccontate: così non è un caso che nell’ultimo capitolo, nel momento in cui Alain incontra un vero riscatto dei rom e inizia davvero a sentirsi parte della loro storia, esploda il colore, nelle illustrazioni come nelle foto, portando una cromaticità più accesa, vivace e allegra.

A fare da complemento al racconto in sé, piacevole e lineare, il volume presenta anche un breve prologo e un ampio epilogo dell’autore stesso, che non manca di apporre alcune note finali e alcuni suggerimenti per chi voglia approfondire le questioni affrontate (il volume è ben lontano dal concludere l’argomento, né si propone in alcun modo di farlo). Agli estremi troviamo invece una prefazione di Don Luigi Ciotti, fondatore delle associazioni Abele e Libera, e una postfazione di Giusy D’Alconzo di Amnesty International, che ha patrocinato l’importante e ottima pubblicazione (anche sotto il profilo materiale) targata Coconino. Un patrocinio più che meritato.

First Wave Special: Batman/Doc Savage

Continua la proposta in Italia, targata BAO, di materiale DC “collaterale”. L’ultima occasione, con un volumetto di formato leggermente ridotto ripieno di qualche dietro le quinte, coincide con l'avvio di una nuova linea: “First Wave”. Si tratta di una linea editoriale partita negli U.S.A. già nel 2010, corrispondente di fatto a un altro degli innumerevoli mondi del Multiverso DC. Ma è “un altro” universo piuttosto particolare.
L’operazione si costruisce, infatti, tutta sul recupero di personaggi appartenenti al filone pulp di fine anni ’30, primi ’40 del secolo scorso: così, accanto a un Batman versione base (qui estrapolato dal suo contesto ormai abituale), ritroviamo nomi più o meno noti come quelli di Doc Savage e Avenger, mentre già si annuncia l’entrata in scena di un altro calibro da novanta quale lo Spirit di Will Eisner (ma anche Black Canary, i Blackhawk e altri).

Questo primo volumetto si compone dei due speciali d’apertura usciti sotto il marchio “First Wave”, scritti rispettivamente da Brian Azzarello (architetto dell’operazione nonché autore della successiva miniserie) e Jason Starr. Entrambi gli episodi hanno uno spiccato carattere introduttivo, concentrandosi sulla presentazione di personaggi e contesto, con una trama che si avvia disponendo già molti elementi, senza però voler correre troppo. E sembra già evidente il profilo tematico che queste storie avranno, con una riflessione costante su quale sia il posto dell’eroe in un mondo che alterna stilemi netti tipicamente pulp (come l’hard boiled, il noir o il giallo) alla rappresentazione di un mondo complesso, sfaccettato e “cattivo”.

La presentazione di questo mondo viene scoccata come una freccia da Azzarello nella prima storia, protagonisti Batman e Doc Savage. Sullo sfondo di una situazione poco chiara, i due personaggi hanno modo di scontrarsi e confrontare le loro divergenti visioni del mondo e dell’essere eroi: Doc Savage aperto, solare e fiducioso nell’uomo, quasi a sostituire Superman quale tipico contraltare di Batman (ma meno bonaccione); il giovane Uomo Pipistrello è invece portatore di una visione più cinica, ricorrendo a sotterfugi e addirittura non disdegnando l’uso di armi da fuoco (come appunto avveniva durante i suoi primi passi editoriali). In entrambi i casi – e qui la vena tipicamente pulp – siamo al cospetto di personaggi tutti d’un pezzo, segnati, duri e pronti all’eccesso. In questo senso sorge, anzi, il dubbio che Azzarello abbia mancato un’opportunità: con una simile caratterizzazione di storia e personaggi, infatti, calare l’azione proprio negli anni ’30-’40 avrebbe forse aggiunto qualcosa all’impatto della lettura in termini di atmosfera (vedi il magnifico Batman: Nine Lives). Le vicende, invece, hanno luogo ai giorni nostri, e così sarà curioso osservare l’effetto contrasto di personaggi figli di un preciso tempo passato, messi in discussione da un mondo non più loro.

Ad ogni modo, Azzarello, pur mettendo sul piatto parecchi ingredienti dell’intera “First Wave”, produce una storia perfettamente leggibile a sé, riuscendo a ingannare il lettore con una falsa pista e spiazzandolo con una conclusione utilissima a inquadrare il mondo di queste storie.
A volgere in azione la sceneggiatura di Azzarello è invece Phil Noto, che con un tratto pulito e armonioso e una colorazione raffinata, produce pagine piuttosto gradevoli e scorrevoli. Tuttavia, per paradosso, la grande piacevolezza di queste tavole sembra cozzare con la declinazione “sporca” o comunque d’atmosfera ricercata dalla storia. Noto, che per altro offre una rappresentazione non particolarmente indovinata di Doc Savage, sembra non interfacciarsi bene con il contesto urbano “consumato” che queste storie richiedono.
Molto più a suo agio, in tal senso, sembra invece Phil Winslade, autore delle tavole della seconda storia, le cui chine invadenti vengono riempite da colori più cupi. È in queste pagine che finalmente si respira la città congestionata e ruvida che è scenario perfetto per l’azione di questi personaggi. Ed è qui che, finalmente, vediamo un Doc Savage esplosivo e dalla linea più classica.

In questo secondo episodio, scritto come si diceva da Jason Starr, si fa un salto in avanti nel delineare il quadro generale della trama, introducendo anche un altro personaggio paracadutato dalle riviste pulp, The Avenger. Questo personaggio si presenta come il perfetto prodotto di una dimensione urbana marcia, richiamando anche visivamente il Rorschach di Watchmen (la sua prima vignetta è quasi una citazione). Ma, complici i disegni, è tutta la storia a spingere l’acceleratore sulla rappresentazione di un mondo oscuro in preda al crimine, alle cui multiformi minacce gli eroi rispondono in maniera necessaria ma diversa, in tensione reciproca.

E in fondo è qui l’interesse di tutta l’operazione: vedere questi eroi pulp tutti d’un pezzo mettersi in discussione l’uno con l’altro, e ognuno con un mondo non più semplice come quello che gli era naturale. Icone costrette a interagire tra loro e con il mondo reale. La voglia di vedere come tutto ciò si svilupperà di certo non manca.

Action Comics 1: asta record

  • Pubblicato in News

actioncomics1"Su, su e via!". Mai slogan fu più appropriato di quello coniato per Superman fin dai suoi primi anni di vita. E parlando dei suoi esordi editoriali, sono stati proprio questi a prendere il volo: in un'asta organizzata dal sito specializzato ComicConnect, infatti, l'albo Action Comics 1, contenente la prima apparizione di Superman, è stato venduto alla cifra da capogiro di 2,16 milioni di dollari.

Lo stesso albo aveva fatto scalpore neanche due anni fa, quando ad aggiudicarselo era stata una puntata da 1 milione di dollari. La cifra era poi stata oltrepassata in diverse occasioni da altre copie dello stesso albo, o da spillati altrettanto rilevanti, quali Amazing Fantasy 15, come si può osservare dalla stessa homepage di ComicConnect. In ogni caso è ormai assodato che albi di questo genere non fatichino a raggiungere quotazioni impressionanti, soprattutto se ben mantenuti (in questo senso è andata relativamente male al tizio in Illinois che ha ritrovato in soffitta una vecchia copia, non in perfette condizioni, proprio di Amazing Fantasy 15).

Ma tornando all'ultima copia da record di Action Comics 1, la circostanza si segnala anche per una voce pruriginosa che la riguarderebbe. È infatti iniziato a circolare un rumor secondo cui il venditore anonimo dell'albo in questione sarebbe niente meno che Nicolas Cage, noto appassionato di fumetti e detentore di una collezione sterminata. A quanto pare l'attore (interprete anche di pellicole fumettistiche come "Kick-Ass" e "Ghost Rider", a breve di nuovo nelle sale) aveva acquistato la sua copia dell'albo a 150mila dollari nel 1997, per "vedersela" poi rubare nel 2000. Nei mesi scorsi, poi, la polizia avrebbe ritrovato la refurtiva e l'avrebbe restituita a Cage. Sviluppo provvidenziale, se è vero che l'attore versa in una situazione finanziaria non proprio rosea, gravato da importanti debiti. E sempre ammesso che a vendere sia stato davvero Cage, cosa non così scontata, per chi conosce le tormentate passioni del collezionista appassionato...

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