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Antonio Ausilio

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Buzzkill, recensione: agli esordi di Donny Cates e Geoff Shaw

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Quando ci si avvicina ai primi lavori di un autore, diventato nel frattempo una star, il timore è sempre quello di trovarsi di fronte a qualcosa di acerbo, dove è difficile scorgere quel talento poi emerso nelle opere successive. Pertanto, il fatto che Buzzkill, miniserie di quattro numeri scritta da Donny Cates nel 2013 per Dark Horse e poi raccolta in volume da Image quattro anni dopo, sia arrivata in Italia solo ora in un cartonato pubblicato da Saldapress, ci aveva fatto pensare che un simile ritardo dipendesse proprio da una motivazione di quel tipo. È stata, quindi, una piacevole sorpresa constatare che il titolo in questione mostra, invece, uno scrittore già maturo e dalle idee molto chiare. Mike Richardson, patron della casa editrice di Seattle, deve averlo percepito subito, visto che, prima di lasciare al giovane Cates la possibilità di esprimersi su un progetto a più lungo respiro (proprio la miniserie oggetto di questo articolo), gli è bastato metterlo alla prova con un paio di storie brevi per Dark Horse Presents.

In verità, ai testi di Buzzkill (termine che deriva dallo slang giovanile americano, utilizzato per apostrofare i guastafeste e gli asociali) compare anche il batterista dei Toadis Mark Reznicek, texano e appassionato di fumetti pure lui (tanto da comparire nelle vesti di sé stesso, assieme al resto della band, nella serie X-Men ’92), del quale, peraltro, non si conoscono altre incursioni nella letteratura disegnata. Non sappiamo, quindi, quale sia stato il suo reale apporto alla sceneggiatura, anche perché la miniserie sembra in tutto e per tutto opera del nostro Donny.

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L’incipit è a prima vista banale: abbiamo un giovane che si presenta a una riunione degli Alcolisti Anonimi, per trovare la forza di liberarsi – almeno in apparenza - da una dipendenza che gli sta rendendo la vita un inferno. La verità, però, è molto diversa, perché dopo qualche vignetta scopriamo che Francis, questo il nome del protagonista, benché all’inizio si faccia chiamare Ruben, è in realtà un super-eroe, anche se parecchio sui generis. I suoi poteri, infatti, si manifestano solo assumendo ogni genere di sostanza stupefacente (sono sufficienti semplicemente la caffeina e la nicotina), che, tuttavia, non lo lasciano indenne dagli effetti collaterali, che quei prodotti provocano nelle persone normali. Ed è proprio questo ad averlo spinto a “disintossicarsi”, soprattutto dopo che la sua ragazza Nikki è rimasta scioccata nel vederlo perdere il controllo a seguito dell’abuso di droghe e alcol.

Poche righe di trama, più che sufficienti a far intuire l’originalità del soggetto, ma che, per contro, non rivelano quanto il ventinovenne Cates del 2013 fosse già uno storyteller di alto livello e dallo stile non così differente da quello dell’apprezzatissimo autore che è diventato oggi. L’attuale scrittore di Venom e Thor è, infatti, noto per la grande capacità con cui riesce a contaminare le sue storie con elementi presi da diversi generi narrativi, tanto che Babyteeth e Redneck (forse i suoi progetti creator owned più noti) sono molto più che due serie horror, così come anche i prodotti più mainstream realizzati per la Marvel sono difficilmente etichettabili come semplici fumetti di super-eroi. Considerazione ancora più vera per Buzzkill, in cui gli scontri tra buoni e cattivi hanno una semplice funzione accessoria, necessaria a portare in primo piano i tormenti interiori del protagonista. Paradossalmente, tuttavia, questi ultimi vengono quasi del tutto oscurati da un’ironia distribuita in dosi massicce, caratterizzata, oltretutto, da una forte componente parodistica, che sembra evocare sia l’irriverenza di Garth Ennis (omaggiato con una grottesca reinterpretazione della Justice League, che richiama i Sette di The Boys) che la bonaria demenzialità di Hero Squared del duo Keith Giffen/J.M. DeMatteis (autori anche di una celebre versione scanzonata della vera Justice League, dagli stessi toni), resa esplicita soprattutto dalla figura del Dottor Blaqk (una bizzarra rivisitazione del Dottor Strange della Marvel) e nei pungenti scambi di battute tra i personaggi, utilizzati perlopiù per prendere di mira – sebbene in maniera benevola - molti cliché supereroistici.

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Lo sceneggiatore texano, però, ci ha abituato a commedie dal sapore agrodolce, una caratteristica che scopriamo essere già presente in Buzzkill e che trova il suo compimento nello struggente e, per certi versi, inaspettato finale. Quest’ultimo, se da un lato conferma l’abilità con cui Cates riesce a cambiare più volte registro nella stessa storia, dall’altro mostra un ulteriore tema ricorrente delle sue opere. Infatti, a dispetto di scenari dark popolati da vampiri, demoni e mostruosità di ogni genere, con cui il cartoonist americano sembra avere un feeling particolare, raramente nei lavori da lui firmati si respira un clima disperante, in quanto i suoi “eroi” sono sempre dei personaggi positivi e - benché dotati di una buona dose di ambiguità -  capaci, nel momento opportuno, di mostrare il lato migliore di sé stessi, anche a costo di rimetterci. È questo il caso di Francis, consapevole delle conseguenze che comporta il consumo di stupefacenti, ma più interessato al bene che ne può derivare per il resto della comunità. La reale dipendenza del giovane protagonista, pertanto, non è verso droghe e alcol, bensì verso gli atti di eroismo, di cui proprio non riesce a fare a meno.

Una costrizione psicologica che scaturisce dalla volontà di distinguersi in maniera netta dall’ingombrante figura paterna, che ha segnato in negativo la sua infanzia. Si tratta, in sostanza, di una brillante rilettura del motto “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” che se per Peter Parker nasce dal rimorso per aver causato indirettamente la morte di suo zio Ben, per Francis diventa il desiderio di essere quella persona che suo padre non è mai stato. Quindi, anche lo strampalato programma dei dodici passi seguito dal protagonista si rivela, di fatto, un tortuoso percorso per riaffermare con forza il proprio modo di essere, fino alle estreme conseguenze. Una tematica complessa che testimonia la predisposizione di Cates a voler far convivere costantemente nei suoi testi leggerezza e profondità, sebbene difficilmente questa caratteristica venga percepita nelle sue storie per la Marvel, dove a prevalere è spesso il semplice aspetto ludico.

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Passando ai disegni, se Buzzkill ha rappresentato il primo vero banco di prova per Cates, lo stesso si può dire per Geoff Shaw, che prima di questa miniserie, poteva vantare solo una breve storia per Batman e poco altro. Diventato poi complice dello sceneggiatore texano in diversi altri progetti, in questo si può già apprezzare quel segno spigoloso e fortemente graffiato (una versione anarcoide e più sporca del tratto di Sean Murphy che ricorda parzialmente anche il Sam Kieth delle origini), ulteriormente affinato nel successivo God Country, ma parecchio smorzato nei suoi lavori per la Marvel. L’artista che nella minisaga Thanos vince e, ancora di più, nel primo ciclo dei Guardiani della Galassia di Cates, è sembrato un po’ indeciso sullo stile da adottare – anche se capace di mantenere un certo dinamismo nelle scene d’azione e una discreta espressività nei personaggi - in Buzzkill mostra che, all’epoca dell’uscita della miniserie, padroneggiava già piuttosto bene la costruzione delle tavole e sapeva lavorare in perfetta sinergia con i testi del suo partner creativo, modellando il proprio tratto in base al grado di drammaticità degli eventi. Nei due titoli Marvel citati prima, infatti, a essere tenuto maggiormente sotto controllo era l’elemento caricaturale dei suoi disegni, ma in questo modo anche la carica umoristica della sceneggiatura tendeva ad affievolirsi, facendo passare quasi in secondo piano quello che è uno dei punti di forza dello scrittore americano.

Una curiosità prima di chiudere: Cates ha più volte dichiarato che, allo stesso modo di Stephen King - che ama avere il Maine come scenario delle sue opere - a lui piace ambientare le sue storie in Texas, stato dove è nato e cresciuto e dove tuttora vive. In Buzzkill, però, fa addirittura di più, perché in alcune vignette fa comparire il bar Posse, locale che esiste realmente, dove il nostro Donny ha lavorato per circa cinque anni, prima di iniziare la sua carriera nei fumetti.

Nonostante tutto, recensione: un amore indietro nel tempo

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Che la Bao Publishing sia dotata di grande fiuto nello scovare giovani talenti è una qualità che alla casa editrice milanese viene riconosciuta da tempo, e senza scomodare il fenomeno Zerocalcare - che da parecchi anni ha oltrepassato la ristretta cerchia degli appassionati – è sufficiente citare, come esempio, il duo Teresa Radice-Stefano Turconi, i cui nuovi lavori sono ormai uno degli eventi più attesi dai lettori di fumetti della nostra penisola. Questo successo ha fatto sì che la coppia di autori diventasse anche portavoce di quel particolare filone narrativo, a metà tra la commedia brillante e il dramma sentimentale, dove l’espressività dei personaggi rappresenta un elemento fondamentale e viene spesso esaltata dallo stile cartoonesco dei disegni.

All’interno del catalogo Bao, ritroviamo lo stesso modo di raccontare ne Il Principe e la Sarta di Jen Wang o nel primo volume di Un’estate fa (Yellow Kid come fumetto dell’anno nell’edizione virtuale di Lucca Comics del 2020), uno dei migliori risultati del sodalizio artistico nato tra lo sceneggiatore belga Zidrou e il disegnatore catalano Jordi Lafebre, dei quali, fino al titolo appena citato, in Italia si era visto solo lo struggente Lydie, uscito per Comma 22 quasi dieci anni fa. Escludendo l’assistenza ai colori di Clémence Sapin, Lafebre è anche l’autore unico di Nonostante tutto, volume mandato di recente in fumetteria sempre da Bao (in un’edizione pregevolissima per confezione e qualità di stampa), dove scopriamo che l’artista di Barcellona non è solo bravo a lavorare con matite e pennelli, ma anche uno scrittore di talento.

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La storia del libro ha come protagonisti Zeno e Ana, lui è uno spirito libero e un eterno sognatore, lei una carismatica donna in carriera. Basta, però, solo uno sguardo e una notte passata assieme perché i due, pur così diversi tra loro e pur vivendo esistenze separate, si amino per tutta la vita. Zeno la trascorre quasi completamente in mare, mentre Ana decide di sposarsi e di farsi eleggere sindaco della cittadina in cui entrambi sono cresciuti. Una carica che ricoprirà con determinazione e passione fino al suo pensionamento, perennemente in attesa di una lettera o di una telefonata da parte dell’uomo a cui ha smesso di pensare solo di rado, a dispetto del continuo peregrinare di lui in giro per il mondo, in cerca dell’ispirazione per portare a termine la tesi di dottorato in fisica, che lo ha tenuto impegnato per tantissimi anni. Un amore tormentato, che sembra destinato a rimanere incompiuto, dove le occasioni perse, gli eventi avversi o il semplice desiderio di condurre la propria vita secondo i principi in cui si è sempre creduto hanno costantemente la meglio sui sentimenti. Eppure, la storia raccontata da Lafebre non è mai triste, se non in un breve, ma intenso, faccia a faccia tra Ana e suo marito Giuseppe (un personaggio solo apparentemente di supporto, che finirà per raccogliere le simpatie di gran parte dei lettori).

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L’autore catalano decide di raccontare la vicenda ricorrendo a un singolare espediente narrativo, il quale, benché impiegato più volte da cinema e letteratura, e in parte utilizzato anche da Zidrou in Un’estate fa, se viene gestito con molta abilità, come in questo caso, riesce sempre a non apparire artificioso e ad appassionare i lettori. I venti brevi capitoli in cui è diviso il libro, infatti, sono disposti in ordine inverso, facendo, quindi, cominciare la storia di Ana e Zeno dalla fine, per poi andare a ritroso nel tempo per quasi quarant’anni, fino al momento del loro primo incontro. E sebbene il termine della vicenda sia noto da subito, non si perde mai il desiderio di conoscere gli eventi che hanno portato a quell’epilogo. Questo grazie allo stile di scrittura di Lafebre, che, come quello del suo mentore Zidrou, si inserisce perfettamente nel sottogenere di cui dicevamo all’inizio, lasciando, quindi, ampio spazio alle emozioni, soprattutto – e inevitabilmente - quando queste sono necessarie a rendere tangibile l’indissolubile legame tra i due protagonisti.

Alla trama non manca neppure la giusta dose di leggerezza, raggiunta attraverso l’uso di calibrati intermezzi umoristici e di passaggi in cui a prevalere sono i buoni sentimenti, l’esaltazione della gioia nelle piccole cose, il romanticismo estremo, o anche solo il richiamo nostalgico del passato. Oltretutto, la sensibilità di Lafebre è sincera ed emerge chiaramente tanto nei suoi dialoghi (di una spontaneità disarmante) quanto nei pochi passaggi muti (tra cui l’intero capitolo uno), dove la mimica dei personaggi o la forza evocativa di immagini e colori diventano più eloquenti delle parole.

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Approfondendo il discorso relativo ai disegni, abbiamo già detto del tratto cartoonesco dell’autore, ma sarebbe una considerazione alquanto riduttiva se, per descriverli, ci fermassimo a questa semplice definizione. Più corretto aggiungere che nello stile di Lafebre si scorge l’influenza di varie scuole fumettistiche, a partire, come prevedibile, da quella franco-belga, in particolare quella che fa capo ai vari Joann Sfar, Émile Bravo e Blutch, la cui tendenza a distorcere le anatomie o gli eccessi grotteschi vengono, tuttavia, addolciti da una forte impronta disneyana, che sembra più evocare i lungometraggi della Pixar, che i classici della Casa di Topolino. Fondamentale, poi, l’utilizzo di tonalità pastello, a rimarcare la delicatezza della storia, più calde o più fredde, a seconda dello stato d’animo dei protagonisti, del luogo in cui si trovano o del continuo alternarsi delle stagioni. Le tavole, infine, sono quasi sempre suddivise in una gabbia a sei vignette (fanno eccezione i capitoli puramente epistolari, dove le immagini si allargano per includere quanto più testo possibile delle lunghe lettere scambiate tra Ana e Zeno nel corso degli anni), gestite, tuttavia, in maniera molto libera e fantasiosa, per riuscire a trasfigurare la realtà nei momenti più poetici del racconto. Stessa cosa dicasi per gli sfondi, pronti a scomparire o a rarefarsi quando i due protagonisti compensano la distanza che li separa attraverso un’atmosfera sognante, quasi magica, che fa assumere alla vicenda una connotazione a tratti fiabesca. Tanti elementi che facilitano l’immersione nelle pagine del libro e che fanno di Nonostante tutto una calda coperta in cui avvolgersi durante una giornata uggiosa. Gli stessi elementi già racchiusi nella bellissima copertina dove, tramite il riflesso in una pozzanghera, Ana e Zeno immaginano sé stessi ancora giovani, intenti a vivere quell’amore a prima vista nato nella pioggia e che nella pioggia ancora continua, in un cerchio della vita rappresentato dalle prime due vignette, che sono anche le ultime due.

Zack Snyder's Justice League, recensione

  • Pubblicato in Screen

E così, alla fine, hanno vinto i fan. Una semplice frase che riassume quello che è successo in questi giorni, quando è arrivato sugli schermi di casa nostra, in contemporanea mondiale, il film Zack Snyder’s Justice League, un titolo che la dice lunga sulla natura dell’operazione e che ha visto concretizzarsi una battaglia iniziata sin dall’uscita nelle sale di quella che, fino a queste ultime settimane, era ancora considerata la versione ufficiale della pellicola. Una battaglia condotta a colpi di hashtag su Twitter (#ReleaseTheSnyderCut) e di svariate petizioni sul web, dove a schierarsi in favore del regista del Wisconsin sono arrivati persino importanti membri del cast come Ben Affleck e Gal Gadot, e che porta addirittura a immaginare il profilarsi di una rivoluzione nella gestione dell’entertainment hollywoodiano.

Da sempre si discute se sia lecito o meno che una major possa decidere di modificare un film, quando il risultato non è quello atteso o quando, durante le famigerate anteprime pilota, le reazioni del pubblico appaiono poco incoraggianti. La storia del cinema racconta di numerosi esempi in cui la produzione è intervenuta sul montaggio finale prima dell’uscita in sala e tra questi vale la pena citare almeno Blade Runner, che ha goduto di ben due nuove edizioni, in cui il regista Ridley Scott ha avuto l’opportunità di mostrare la sua reale visione del racconto originale di Philip K. Dick (una parziale Director’s Cut, dieci anni dopo l’uscita della versione ufficiale e una definitiva Final Cut in occasione del venticinquennale del film). In genere, tuttavia, queste iniziative sono riservate a opere diventate nel frattempo dei classici del cinema o autentici cult e, solitamente, non fanno altro che recuperare scene tagliate o aggiungere piccole variazioni al montaggio, che non determinano cambi sostanziali nella pellicola. Cosa che, invece, è successa con il lungometraggio di Zack Snyder. Ma come è stato possibile arrivare a un epilogo tanto sorprendente? Per capirlo, occorre tornare indietro fino al 2009, quando la Warner Bros., considerata ancora lo studio cinematografico di riferimento per i cinecomic, grazie al successo di critica e di pubblico dei primi due capitoli della trilogia batmaniana di Christopher Nolan, decide, proprio su consiglio di quest’ultimo, di affidare al regista di 300 e di Watchmen la direzione del reboot di Superman, a seguito degli insoddisfacenti incassi del film che Bryan Singer aveva dedicato pochi anni prima all’ultimo figlio di Krypton. Nel frattempo, dopo aver esordito in maniera convincente con l’Iron Man interpretato da Robert Downey Jr., i Marvel Studios entrano a far parte dell’impero Disney e mostrano di essere davvero intenzionati a voler mettere in piedi un universo cinematografico condiviso tra i vari eroi di cui ancora detengono i diritti (è l’epoca in cui i film degli X-Men e dei Fantastici Quattro sono prodotti dalla Fox, quelli di Hulk dalla Universal e quelli di Spider-Man dalla Sony). L’idea sembra piacere molto al pubblico, tanto da convincere la Warner a tentare qualcosa di simile. E se in casa Disney si parla già di Marvel Cinematic Universe, per Superman e soci viene creato il DC Extended Universe. Questo avrebbe dovuto essere inaugurato dal Lanterna Verde con Ryan Reynolds nelle vesti del protagonista, ma l’esito fallimentare della pellicola fa sì che il primo lungometraggio dell’universo cinematografico DC diventi il Man of Steel di Snyder.

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Il film esce nel 2013 - quando The Avengers ha già conquistato il pubblico mondiale - e il suo buon successo al botteghino (a dispetto di non poche critiche sui toni eccessivamente dark della pellicola) spinge la Warner ad accelerare i tempi, dando carta bianca al regista del Wisconsin per finalizzare un fantomatico progetto Justice League, ancora allo stato embrionale. Snyder ci mette tutto l’impegno possibile e immagina non un semplice nuovo capitolo dedicato all’Uomo d’Acciaio, ma addirittura l’incontro tra i due big della DC. Tuttavia, la corsa dei Marvel Studios sembra inarrestabile, al punto che all’arrivo in sala di Batman v Superman: Dawn of Justice, nel 2016, Age of Ultron, sequel di The Avengers, ha già assicurato un altro exploit al box office alla Casa delle Idee. Avere nello stesso film due pesi massimi come il Cavaliere Oscuro e l’alter-ego di Clark Kent appare, improvvisamente, insufficiente e il primo “cross-over” cinematografico della Warner diventa la migliore opportunità per far esordire nel DC Extended Universe anche Wonder Woman e, in maniera del tutto pretestuosa, Flash, Aquaman e Cyborg, oltreché per mettere in piedi le basi dell’ormai annunciato lungometraggio che avrebbe riunito i sei eroi. I boss della major californiana, però, non sono completamente soddisfatti del lavoro di Snyder: l’atmosfera troppo cupa e la quasi totale assenza di ironia della pellicola contrastano nettamente con la leggerezza dei prodotti Marvel e temendo di andare incontro a un nuovo flop, decidono - sconsideratamente - di eliminare dal montaggio alcune scene, per un totale di circa trenta minuti, rendendo ancora più caotica una sceneggiatura già penalizzata dalle modifiche necessarie a giustificare l’ingresso di altri personaggi nella trama. Oltretutto, le critiche mosse dalla produzione alla regia non sono del tutto campate per aria, soprattutto a guardare lo scontro finale tra Superman e Doomsday, uno strabordante e inutile sfoggio di testosterone, che non riesce a emozionare neppure alla morte dell’Uomo d’Acciaio. Risultato: Batman v Superman: Dawn of Justice finisce per deludere tutti. La critica è impietosa e il pubblico in gran parte insoddisfatto.

La dirigenza della Warner sceglie di correre ai ripari e, non potendo più ritardare l’inizio delle riprese di Justice League, obbliga Snyder a snaturare il suo progetto iniziale, che prevedeva lo stesso stile portato avanti nei due film precedenti e una trama a più lungo respiro (si era persino parlato di un kolossal diviso in due capitoli). La sceneggiatura viene riscritta più volte e, da un giorno all’altro, il buon Zack si vede costretto a condividere il set con Joss Whedon, il regista dei primi due Avengers, ingaggiato dalla produzione per provare a infondere nella pellicola un po’ dell’umorismo tipico del MCU. Infine, ci si mette di mezzo il destino: il 12 marzo del 2017 la giovane Autumn, figlia ventenne di Snyder, muore suicida e il regista americano poche settimane dopo sceglie di abbandonare le riprese per dedicarsi alla famiglia. I vertici della Warner ne approfittano immediatamente e molto cinicamente incaricano Whedon di rigirare in fretta e furia intere sequenze. È il colpo di grazia definitivo: il film, che arriva nei cinema americani alla fine del 2017, è un ibrido male assemblato che riceve pessime recensioni e lo scherno del pubblico (verrà presto ribattezzato Josstice League dai fan hardcore di Snyder). Un disastro produttivo che non arriva a incassare neppure quanto Man of Steel e che segna la fine dell’universo condiviso DC (almeno per il momento).

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Tutti sembrano voler dimenticare la parentesi Justice League il prima possibile, anche in virtù del successo (molto più di pubblico, che di critica, in verità) delle pellicole dedicate a Wonder Woman e Aquaman, che consolida l’idea della Warner di proseguire esclusivamente con progetti stand-alone. Eppure, chi aveva apprezzato l’operato di Snyder decide di non arrendersi e attraverso l’incessante campagna sul web di cui dicevamo all’inizio, e con un numero sempre più alto di sostenitori, riesce prima ad avere conferma che un montaggio preliminare della versione originale del lungometraggio esiste ancora e, in seguito, a convincere la major americana a utilizzare la “Snyder Cut” per promuovere la sua nuova piattaforma HBO Max. Al regista statunitense vengono addirittura concessi altri settanta milioni di dollari per completare degnamente la post-produzione della sua opera, dopodiché il resto è storia di questi giorni.

Terminato questo lungo excursus sulla rocambolesca epopea del film, resta ora da rispondere a un quesito fondamentale: ha fatto bene la Warner a tornare sui propri passi e accontentare i fan? Innanzitutto, sgombriamo subito il campo da due aspetti della pellicola, utilizzati da alcuni detrattori per rendere ancora più severo il loro giudizio sull’operazione. Il primo riguarda la lunghezza di questa nuova versione: è vero che di film con una durata di quattro ore se ne vedono pochi, ma una critica del genere fa alquanto sorridere nell’epoca del binge watching, considerando anche che la divisione in capitoli dell’opera (eredità dell’iniziale proposta di Snyder - poi bocciata da HBO - di trasformare il lungometraggio in una miniserie) ne permettono la fruizione in momenti diversi. Differente è il discorso se ci chiediamo quanto questa durata sia davvero giustificata, ma a questo arriveremo tra poco. Invece, a proposito del secondo aspetto preso di mira dai recensori, ci sembra anch’esso un tentativo un po’ goffo di voler trovare a tutti i costi dei difetti per le ragioni sbagliate. Ci riferiamo alla decisione di trasmettere la pellicola in formato 4:3, pur sapendo che essa sarebbe stata fruita su schermi in 16:9. Se è vero che il film era stato pensato per le sale Imax, infatti, il desiderio di avvicinarsi il più possibile a quel formato non ci sembra il capriccio di un autore in vena di scelte stravaganti, ma solo la soluzione tecnica più logica. Il problema reale è che per arrivare a una valutazione negativa di questo Zack Snyder’s Justice League non occorre andare a scovare qualche piccola pecca con il lanternino. Certo, riuscire a fare peggio rispetto al lungometraggio uscito nel 2017 o anche solo rimanere allo stesso (bassissimo!) livello, avrebbe assestato il colpo definitivo alla credibilità di Snyder, ma il fatto che questa nuova versione sia di qualità superiore rispetto a quella concepita da Whedon, non la rende né un’opera meritevole di essere ricordata (se non per la sua travagliata storia produttiva), né, tanto meno, un motivo per chiedere alla Warner di riconsiderare il suo progetto di ripartire con nuove idee.

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In effetti, i problemi già riscontrati nei lavori precedenti del regista sono ancora tutti presenti e, purtroppo, ulteriormente esaltati proprio a causa della durata extra-large della pellicola. Il primo che balza all’occhio è sicuramente l’uso massiccio e ingiustificato della slow-motion, che invece di aggiungere dinamicità alle scene d’azione finisce per sortire l’effetto opposto. Snyder, d’altra parte, non perde occasione per mostrare i suoi eroi in pose statuarie, che ne esaltano la fisicità e la possanza. Il ralenti, pertanto, è solo un modo per provare a mantenere tutto quel vigore anche nelle sequenze in movimento, anche se, come detto, a farne le spese è il ritmo della narrazione, a volte lento in maniera esasperante. Poi, naturalmente, c’è l’ossessione per i colori eccessivamente saturi e plumbei, un marchio di fabbrica del regista, che, anche questa volta, decide di imprimere allo scenario un’atmosfera gelida e oscura. Una cappa opprimente, che raffredda le emozioni e smorza l’empatia verso i personaggi. È comprensibile che Snyder abbia voluto mostrare la sua personalissima visione della storia, esattamente come l’aveva concepita in origine, ma queste scelte “autoriali” sono sembrate solo una forma di rivalsa verso chi aveva disprezzato il suo lavoro. Anche perché, detto francamente, l’estetica da videogioco che pervade il film fin dai primi minuti (a cui contribuisce pure la rozza colonna sonora di Junkie XL), e l’uso invasivo degli effetti speciali, non ci permettono di considerare Snyder un regista particolarmente raffinato. E neppure uno capace di darsi dei limiti: non nascondiamo, infatti, che l’epilogo posticcio dedicato al Knightmare (un futuro distopico in cui la Terra è caduta sotto il dominio di Darkseid e di un Superman malvagio, corrotto dall’Equazione Anti-Vita) ci sia parso solo un regalo ai fan di cui avremmo fatto volentieri a meno.

Ma anche sull’inadeguatezza di soggetto e sceneggiatura le cose da dire non sono poche. Il Chris Terrio all’opera su questo film sembra solo un lontano parente del brillante dialoghista capace di portarsi a casa un Oscar per lo script di Argo. Di sicuro la mano pesante di Snyder non ha aiutato, ma non si può negare che la storia sia ridondante, di una prevedibilità sconcertante e con personaggi dalla psicologia ridotta ai minimi termini. E non ci riferiamo al monocorde Steppenwolf, a cui ha giovato molto poco il cambio di regia, ma proprio ai membri della League: Aquaman, quasi non pervenuto, se non nel momento del suo primo incontro con Bruce Wayne. Wonder Woman, più interessata a sfoggiare un abito nuovo a ogni inquadratura, che a incidere veramente nella vicenda (ed è un peccato perché Gal Gadot dà comunque l’impressione di essere una brava attrice). Flash, una brutta copia del Quicksilver della Fox, oltreché un tentativo andato a vuoto di aggiungere un pizzico di ironia alla trama (le sue battute sono spesso inconsistenti e in chiara disarmonia con l’atteggiamento più serioso degli altri protagonisti). E, infine, Superman, utile semplicemente per rendere la scazzottata finale più fracassona. Solo Batman e Cyborg mostrano una caratterizzazione più definita. Soprattutto il secondo, che è l’unico ad averci veramente guadagnato rispetto alla versione cinematografica (evidentemente le rimostranze dell’attore Ray Fisher verso Whedon non erano totalmente prive di fondamento). Tuttavia, i tormenti di Victor Stone, ripresi pari pari dalle storie a fumetti, avrebbero dovuto essere rielaborati in una maniera più originale per risultare veramente interessanti.

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Un fiasco totale, quindi? No, per quanto discutibili le scelte di Snyder appaiono coerenti con la sua idea di cinema e, tutto sommato, se si esclude il momento finale dello scontro con Steppenwolf (l’attacco a tre di Aquaman, Superman e Wonder Woman è da action di serie Z) e l’eccesso di slow-motion di cui abbiamo già detto, qualche scena di combattimento riesce a essere persino divertente. Tutti i comprimari poi, sebbene poco presenti, se la cavano molto bene, Jeremy Irons su tutti. Infine, questa "Snyder Cut" restituisce un minimo di dignità a un’operazione che aveva messo in mostra non solo l’insensibilità di Hollywood, capace di legare il nome del regista a un film non suo, nonostante la tragedia che lo aveva colpito (umanamente parlando, il fatto che il nostro Zack abbia potuto dedicare l’opera alla figlia scomparsa rappresenta la degna conclusione di tutta la vicenda), ma anche la totale incapacità dei vertici della DC Films di capire le ragioni del successo dei Marvel Studios. Paradossale, in proposito, è la realtà di questi giorni, in cui la Warner strombazza come un evento la messa in onda del montaggio preliminare di Justice League, riveduto e corretto (per poi affrettarsi a dichiarare che il progetto non prevede ulteriori sviluppi), mentre Kevin Feige e soci inaugurano la nuova era televisiva della Casa delle Idee con un brillante gioco metanarrativo come WandaVision, foriero di chissà quante altre innovazioni nell’ambito dell’intrattenimento casalingo e preludio a una ramificazione ancora più estesa del Marvel Cinematic Universe.

Chiudiamo con una consapevolezza: a dispetto del nostro giudizio negativo, siamo sicuri che - come è giusto che sia - le posizioni degli ammiratori di Snyder (già ripartiti a invadere il web con il nuovo ashtag #RestoreTheSnyderVerse) non si sposteranno di un millimetro. Speriamo solo che questo non impedisca alla Warner di battere altre strade, perché dopo i nuovi capitomboli con Harley Quinn: Birds of Prey e Wonder Woman 1984, ci piacerebbe che l’immagine della DC al cinema si legasse solo a progetti di qualità, quantomeno simili all’ottimo Joker di Todd Phillips, vincitore di un Leone d'Oro, o al promettente The Suicide Squad di James Gunn.

Focus On: Lo Squadrone Supremo di Mark Gruenwald

  • Pubblicato in Focus

Non è un segreto che, gran parte di coloro che scrivono o disegnano fumetti, non desiderano altro che approdare, prima o poi, sulla testata del proprio eroe preferito. Mark Gruenwald era uno di questi. Pur avendo trascorso tutta la sua carriera presso la Marvel (una carriera, purtroppo, bruscamente interrottasi nel 1996, quando l’autore, appena quarantatreenne, morì improvvisamente a causa di un attacco cardiaco), lo scrittore del Wisconsin era un grandissimo appassionato del mondo dei comics in generale, tanto da essere famoso per conoscere dettagli riguardanti alcuni personaggi, quasi del tutto ignoti anche ai più affermati esperti del settore (non è un caso che uno dei suoi lavori più celebri fu l’enciclopedico Official Handbook of the Marvel Universe). Tra i suoi amori dichiarati c’era la Justice League of America, il noto supergruppo che riunisce i più importanti eroi di casa DC, con il quale però non ebbe mai l’opportunità di lavorare. Tuttavia, diversi anni prima che Gruenwald venisse assunto dalla Casa delle Idee, sulle pagine degli Avengers (per l’esattezza, nel numero 69 dell’ottobre del 1969), Roy Thomas aveva fatto esordire, come avversari degli Eroi più potenti della Terra, un gruppo di supercriminali noto come lo Squadrone Sinistro, che presto si rivelò una sorta di versione distorta della Justice League. Il team, infatti, era composto da Hyperion, Nottolone, Dottor Spectrum e Trottola, che erano rispettivamente le controparti malvagie di Superman, Batman, Lanterna Verde e Flash. Con quella brillante trovata, lo scrittore del Missouri non aveva solo voluto omaggiare quei noti personaggi della concorrenza, ma, probabilmente, realizzare anche quello che all’epoca era il sogno proibito di ogni autore americano di fumetti e cioè scrivere una storia in cui a scontrarsi fossero alcuni dei personaggi più popolari delle due case editrici.

Un paio d’anni più tardi, Thomas (anche lui grande fan della Justice League) decise di andare oltre e catapultò gli Avengers in una realtà alternativa (inizialmente nota come Terra-S e poi rinominata Terra-712, per distinguerla dalla “nostra” Terra-616), dove essi incontrarono un altro gruppo di superesseri, che replicavano per nomi e aspetto i membri dello Squadrone Sinistro. Lo scontro fu inevitabile, ma presto i due team si resero conto del malinteso, perché, in quell’universo parallelo, Hyperion e soci non erano dei criminali, ma un gruppo di supereroi noto come Squadrone Supremo. Continuare a parlare della singolare storia editoriale di questi personaggi sarebbe troppo lungo, basti sapere che Gruenwald, non potendo disporre della Justice League originale, decise di seguire le orme di Thomas e, appena ne ebbe l’occasione, convinse i vertici della Marvel a dedicare una maxiserie di dodici numeri proprio agli eroi di Terra-712. L’intera saga (che comprende anche un numero di Capitan America, all’epoca sempre scritto da Gruenwald) era già stata ristampata dalla Panini qualche anno fa, in un volume della collana Marvel History (dopo la prima pubblicazione italiana, in appendice al mensile di Iron Man della Play Press, all’inizio degli anni Novanta) ed è tornato nelle librerie circa un anno fa, sempre sotto le insegne dell’editore modenese, nel prestigioso formato omnibus, con l’aggiunta del vero capitolo finale della storia, il graphic novel Morte di un Universo (apparso in Italia per la prima volta sul numero 12 della collana Play Special della Play Press, del gennaio 1992, e mai più ristampato da allora), assente nella precedente edizione della Panini.

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La vicenda raccontata nel volume, si ricollega direttamente a una mini-saga scritta da J.M. DeMatteis per i Difensori (e reperibile in Italia solo su alcuni numeri della rivista All American Comics della Comic Art, pubblicati quasi trent’anni fa), dove si vede l’alieno Iniziato, posseduto dall’entità mistica Null, impadronirsi delle menti di quasi tutti i membri dello Squadrone, per instaurare una dittatura degli USA sul mondo intero. Grazie all’aiuto del Dottor Strange e del resto dei Difensori, Hyperion e i suoi compagni riescono a sconfiggere i due avversari, lasciando, però, Terra-712 nel caos più assoluto. Da qui in poi, inizia la storia concepita da Gruenwald, che vede Hyperion riunire tutti i membri del supergruppo per cercare di trovare una soluzione alla disastrosa situazione mondiale. Alla fine, con le sole eccezioni di Nottolone e Amphibian (un personaggio chiaramente ispirato ad Aquaman), lo Squadrone Supremo deciderà di prendere il controllo totale della Terra, una sorta di dittatura illuminata della durata di un anno, in cui il gruppo si sarebbe impegnato a risolvere non solo i problemi politici ed economici più urgenti, ma anche a debellare definitivamente in tutto il mondo fame, povertà, malattie, guerre e criminalità. Un progetto ambizioso a cui aderirà anche il riluttante Amphibian e da cui, invece, prenderà le distanze Nottolone, convinto che imporre la volontà di pochi a tutti gli abitanti della Terra, nonostante le buone intenzioni, sia sempre sbagliato.

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Già da queste poche righe, è chiaro che Gruenwald non si limitò a una semplice celebrazione in salsa marvelliana dei suoi beniamini della DC: consapevole che il fumetto americano stava gradualmente perdendo quell’ingenuità che aveva caratterizzato il medium nei decenni precedenti, pensò di introdurre tematiche che, fino a quel momento, avevano sfiorato i comics solo in superficie. Già negli anni Settanta, negli USA, c’erano stati alcuni pioneristici tentativi di affrontare argomenti destinati a un pubblico più adulto (famoso, solo per citare un esempio, il ciclo di Dennis O’Neil e Neal Adams con la coppia Lanterna Verde e Freccia Verde), e in casa Marvel, nei primi anni Ottanta, Frank Miller aveva gradualmente trasformato Daredevil in un eroe più cupo, rendendo le sue storie sempre più disperanti. Tuttavia, tolto Lanterna Verde, sia l’Uomo senza Paura che l’alter ego di Oliver Queen erano eroi metropolitani, quindi abituati a muoversi nei bassifondi delle città. Non si poteva dire lo stesso per lo Squadrone Supremo, i cui membri, da perfetta emanazione di quelli della Justice League, continuavano a essere protagonisti di storie più tradizionali, con mirabolanti avventure in qualche remoto angolo della galassia o contro il mad doctor di turno. Solo Alan Moore, in Gran Bretagna, con la sua rivisitazione di Marvelman (o Miracleman che dir si voglia) aveva iniziato quel processo di decostruzione della figura del supereroe classico, che lo avrebbe portato, di lì a poco a concepire un capolavoro come Watchmen. Ma negli USA del 1985, quando uscì la serie dello Squadrone Supremo, il bardo di Nothampton era ancora un autore di nicchia, adorato dalla critica, ma poco noto al grande pubblico.

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L’intuizione di Gruenwald, quindi, per l’epoca fu qualcosa di rivoluzionario. In soli dodici numeri, lo scrittore americano mise in scena eroi dubbiosi, fragili, a volte anche meschini. Personaggi che, fino a quel momento, si erano dimostrati integerrimi e che invece si scoprivano, improvvisamente, afflitti da gelosia, rabbia, frustrazione e tutta un’altra serie di sentimenti molto lontani dallo stereotipo del supereroe, a cui il lettore era stato abituato fino a quel momento. Inoltre, potendo contare su una libertà creativa difficilmente ottenibile su altre collane della Casa delle Idee (essendo la serie ambientata in un universo parallelo, la sua influenza sulla continuity marvelliana sarebbe stata praticamente nulla) Gruenwald ne approfittò per violare altri due tabù, innanzitutto, dopo poche pagine, tutti i membri del gruppo, per ottenere la fiducia degli abitanti del pianeta, rinunciano alle loro identità segrete, e, poi, in un crescendo drammatico, parecchi protagonisti perdono la vita (in alcuni casi neppure a causa delle azioni di qualche villain). È proprio grazie a tutto ciò se, negli anni, la serie dello Squadrone Supremo è diventata un fumetto di culto.

Tuttavia - è bene sottolinearlo - a rileggerli oggi, i testi dell’autore americano appaiono un po’ datati, soprattutto perché egli cercò di far coesistere quelle autentiche novità narrative con la leggerezza dei comics degli anni Sessanta. Emblematici, in proposito, il continuo ricorrere dei vari personaggi a diminutivi dei propri nomi di battaglia, la presenza di numerosi criminali pittoreschi e il fatto che alcuni membri del team non smettono mai di indossare il loro costume (neppure per lavorare o per andare a letto!). D’altra parte, come detto, il nostro Mark adorava la Silver Age, per cui, forse temendo di snaturare quei personaggi, a cui era particolarmente legato, non osò spingersi oltre. Ne è una prova il fatto che, il graphic novel successivo alla serie, è caratterizzato da un impianto decisamente più classico e vede lo Squadrone Supremo impegnato in una corsa contro il tempo, per salvare il proprio universo da un’entità cosmica dal potere immenso. Il lavoro di Gruenwald, comunque, non fu dimenticato, tanto che la serie dello Squadrone Supremo è stata, verosimilmente, una delle opere di riferimento di Mark Waid per Kingdom Come, o, più di recente, di Mark Millar per Jupiter’s Legacy. Chi, invece, non hai mai fatto mistero della sua fonte di ispirazione, è J. Michael Straczynski, che ha ripreso le tematiche del suo collega scomparso prima in Rising Stars e, successivamente, in Supreme Power, quasi un remake moderno della saga di Gruenwald.

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Abbiamo volutamente lasciato in secondo piano la parte grafica, in quanto, a parte un episodio realizzato dal grande John Buscema, il resto della maxiserie vide all’opera prima Bob Hall e poi Paul Ryan (autore anche dei disegni del graphic novel), due onesti artigiani, di cui non si ricordano lavori particolarmente meritevoli di essere menzionati e che, detto sinceramente, neanche in questa maxiserie offrirono una prova che rimarrà ai posteri. Dei due, Hall, ormai ritiratosi da diversi anni per dedicarsi al teatro, sua grande passione, era quello dalle maggiori capacità. Infatti, il suo stile, pur se perfettamente in linea con le mode artistiche del periodo, non mancava di qualche sprazzo di originalità: i vari personaggi, tratteggiati spesso in maniera spigolosa o con dettagli del volto volutamente lasciati in secondo piano, riuscivano a comunicare ai lettori un’ampia gamma emozionale. Inoltre, i passaggi più drammatici della narrazione erano spesso esaltati da un abile uso delle ombre e da una costruzione delle vignette estremamente variabile. Ryan, invece, che ha collaborato più volte con Gruenwald (D.P.7, Quasar), aveva un tratto più classico (tanto che, prima della sua prematura scomparsa, avvenuta qualche anno fa, si dedicò a lungo alle strisce di Phantom), con un buon rispetto delle anatomie e un discreto livello di dinamicità delle tavole. Dove mostrava maggiormente i suoi limiti, invece, era nella mancanza di espressività dei volti, sempre troppo rigidi e poco comunicativi. È anche vero, però, che nel fumetto americano degli anni Ottanta, le superstar del disegno si contavano sulle dita di una mano, e molti tra i più bravi avevano già preferito lasciare le big two per tentare la fortuna nel sempre più fiorente, e potenzialmente più redditizio, mercato indipendente. Sarebbe passato molto tempo, prima di vedere grandi artisti, provenienti da tutto il mondo, all’opera sugli albi dedicati ai supereroi. All’epoca, nella maggior parte dei casi, Marvel e DC si affidavano ad autori locali, o, tuttalpiù britannici, e Hall e Ryan, in mezzo a tanti disegnatori decisamente mediocri, erano sempre in grado di garantire un lavoro più che dignitoso.

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Qualche commento sulla nuova edizione della Panini, prima di chiudere: se, da un lato, gli omnibus continuano a confermarsi ineccepibili dal punto di vista della confezione, segnaliamo, tuttavia, che in questo volume manca, quasi del tutto, un vero e proprio apparato critico, se non poche scarne righe sulle alette della sovracoperta, maggiormente incentrate però sulla presentazione degli autori dell’opera originale. L’articolo tratto dalla rivista Marvel Age e i nostalgici pezzi posti all’inizio e alla fine del volume, infatti, pur se molto interessanti, non assolvono al compito di inquadrare la saga all’interno della continuity marvelliana o, semplicemente, di presentare lo Squadrone Supremo a un pubblico più giovane. Una scelta un po’ insolita, che rischia di limitare l’accesso a opere di questo tipo solo alla ristretta cerchia dei fan di lunga data. Un’affermazione, oltretutto, mai così vera come in questo momento, visto che Hyperion e compagni sono recentemente tornati sotto la luce dei riflettori, grazie all’imminente evento Heroes Reborn, rivisitazione contemporanea dell’omonima saga della seconda metà degli anni Novanta, che aveva visto il breve ritorno alla Casa delle Idee di alcuni transfughi Image.

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