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Antonio Ausilio

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Ant-Man & The Wasp: Persi e ritrovati, recensione: a spasso nel Microverso

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Ogni Marvel fan che si rispetti sa bene che Stan Lee e Jack Kirby cominciarono presto a recuperare nelle loro storie parecchi personaggi o concetti provenienti dal passato della Casa delle Idee, quando questa si chiamava ancora Timely. Capitan America e Namor sono due dei ripescaggi più noti, ma in pochissimi sanno che anche il Microverso, reintrodotto da Lee e Kirby su Fantastic Four 16 (vi aveva trovato rifugio il Dottor Destino, dopo essere apparentemente scomparso nel nulla qualche mese prima, per effetto di un raggio miniaturizzante), è in realtà una creazione degli anni Quaranta. Per la precisione, questo universo microscopico apparve per la prima volta sulle pagine di Captain America Comics 26, albo in cui gli autori Ray Cummings e Syd Shores trasportarono il futuro vendicatore a stelle e strisce e il suo fedele alleato Bucky Barnes, fino a quel momento impegnati a difendere gli Stati Uniti dalle forze dell’Asse, nel microscopico mondo di Mita a combattere contro il malvagio despota Togaro.

Successivamente, nelle abili mani di Lee e Kirby, il Microverso divenne lo scenario di storie memorabili, soprattutto non appena i Fantastici Quattro dovettero scontrarsi con uno degli abitanti di quell’universo, il temibile Psycho-Man. Furono poi Harlan Ellison e Roy Thomas a proseguire brillantemente le vicende del Microverso, quando nel giugno del 1971, su Incredible Hulk 140, il Golia Verde, esposto a un raggio miniaturizzante (tanto per cambiare!), si ritrovò sul mondo di K’ai, dove conobbe e si innamorò della principessa Jarella. Ma, per quanto, grazie a quelle storie, il Microverso sia diventato un luogo immaginario ben noto agli appassionati, esso sarebbe rimasto praticamente sconosciuto al grande pubblico, se non fosse stato introdotto, con il nome di Regno Quantico, anche nel Marvel Cinematic Universe. È lì, infatti, che scompare la Janet van Dyne cinematografica, ed è sempre lì che rimane intrappolato Paul Rudd, nelle vesti di Scott Lang, alla fine di Ant-Man & the Wasp, suggerendo in maniera sibillina, che il Regno Quantico giocherà un ruolo importante nella rivincita degli Avengers contro Thanos, che vedremo nei cinema alla fine di aprile. Ed è proprio con l’obiettivo di sfruttare il più possibile l’interesse mediatico che un film di successo porta con sé, che la Marvel Comics ha fatto uscire nella seconda metà del 2018 una miniserie con Scott Lang e Nadia van Dyne come protagonisti, recentemente pubblicata da Panini Comics in un bel volumetto cartonato da fumetteria (impeccabile per confezione e stampa), che è ormai diventato il formato abituale della casa editrice modenese per le serie recenti di un certo rilievo.

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L’intenzione della Marvel non è evidente solo dal titolo della miniserie, che ricalca alla lettera quello del secondo film dedicato all’"Uomo Formica", ma anche dal tono leggero e scanzonato dell’intera opera, una caratteristica ben presente anche nelle due pellicole dirette da Peyton Reed. Senza considerare che l’azione si svolge quasi per intero proprio nel Microverso. Inoltre, sempre per rimarcare il legame tra cinema e fumetto, è bene ricordare che il personaggio di Nadia van Dyne (conosciuta all’esordio come Nadia Pym) è stato introdotto sulle pagine degli Avengers, solo per dare una versione cartacea alla Hope van Dyne vista nei film. Non essendoci, infatti, un modo plausibile per inserire nella continuity marvelliana una figlia di Hank Pym e Janet van Dyne, Mark Waid, in quel momento alle redini della testata degli Eroi più potenti della Terra, è riuscito, attraverso un’abile operazione di ret-con, a presentare ai lettori la figlia, mai menzionata prima, che il “papà” di Ultron ha avuto (senza saperlo) dalla prima moglie Maria Trovaya. Lo stesso Waid, evidentemente desideroso di tornare a una delle sue creazioni, è anche l’autore dei testi di questa miniserie, dove la sua verve ironica (ammirata anche in altre sue opere passate, ma spesso controbilanciata da una buona dose di drammaticità: basti pensare, per esempio, alla lunga run di Daredevil di qualche anno fa) trova libero sfogo in un susseguirsi di situazioni paradossali, colpi di scena a ripetizione, battibecchi continui tra i due protagonisti e personaggi di contorno al limite del demenziale.

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È chiaro che per ottenere un simile risultato, la trama non poteva che essere un semplice pretesto, tanto che possiamo tranquillamente riassumerla in poche righe: dopo aver seguito i Guardiani della Galassia sul pianeta base dei Nova Corps, Scott Lang, al fine di tornare sulla Terra in tempo per festeggiare il compleanno della figlia Cassie, chiede aiuto a Nadia van Dyne, la quale, pur controvoglia, in pochi minuti realizza un mezzo di trasporto subatomico a correlazione quantica, in grado di riportarlo indietro. Scott, però, non segue alla lettera le indicazioni di Nadia e rimane bloccato nel Microverso, costringendo la nuova Wasp a tentare di recuperarlo. L’impresa si rivela più difficile del previsto e solo dopo numerose peripezie (e diversi incontri ravvicinati con gli strani abitanti del Microverso) i due riescono a tornare a casa.

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Waid trova un alleato perfetto in Javier Garrón, le cui tavole ricchissime di dettagli (ma mai confuse), si sposano magistralmente al ritmo frenetico imposto alla narrazione dallo sceneggiatore americano. Grazie anche all’ottimo lavoro del colorista Israel Silva, Garrón riesce a creare un Microverso come mai si era visto prima, più simile al Regno Quantico dei due film di Ant-Man, che all’universo in miniatura delle storie a fumetti del passato. Un ambiente perfetto per mettere in mostra un talento visionario fuori dal comune, particolarmente evidente in una sequenza di tre tavole all’inizio del quinto episodio, che definire surreali è poco. Waid asseconda più che volentieri l’irruenza espressiva del disegnatore spagnolo, capace persino di andare con l’immaginazione ben aldilà delle indicazioni generali presenti nella sua sceneggiatura. Questo lo si intuisce dalle parole di Garrón riportate negli extra alla fine del volume: vi si legge, infatti, che Waid, per aumentare l’effetto comico, aveva chiesto che gli esseri rappresentati nel Microverso non fossero degli umanoidi, come visto fino ad allora, ma degli esseri totalmente alieni, già a partire dal loro aspetto esteriore. Lo sceneggiatore americano, da buon filologo dei fumetti Marvel e DC, porta a esempio i mostri dai nomi roboanti e quasi impronunciabili delle classiche storie di fantascienza, che l’Atlas (nome che assunse la Timely negli anni Cinquanta) pubblicava su testate come Tales to Astonish, Journey into Mistery o Strange Tales, prima che queste cominciassero a ospitare le storie dei super-eroi che tutti conosciamo. Ma i buffissimi Saarg ideati da Garrón, sicuramente più in sintonia con il tono farsesco della serie (l’autore spagnolo sostiene di essersi ispirato a delle semplici patate!), sembrano più un omaggio agli stravaganti alieni ideati da Sydney Jordan sulle strisce di Jeff Hawke, che alle creature di Jack Kirby e Steve Ditko. Inoltre, l’espressione un po’ caricaturale che caratterizza i suoi personaggi, che in serie Marvel più tradizionali potrebbe essere visto come un limite, contribuisce ulteriormente a sottolineare l’ironia di fondo della trama. Sarà probabilmente per tutte queste ragioni che, di recente, a Garrón sono state affidate le matite della nuova serie di un personaggio importante come Miles Morales.

Ant-Man & Wasp è, in definitiva, una bella miniserie adatta a passare un’oretta in allegria.

Descender 1-6, recensione: la fantascienza confusa di Jeff Lemire e Dustin Nguyen

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Il canadese Jeff Lemire è ormai da diversi anni uno degli artisti più importanti del panorama fumettistico americano. Dopo gli esordi come autore completo per piccole case editrici indipendenti, nel 2009, sulla scia del successo del graphic novel Essex County, considerato in Canada uno dei cinque romanzi più importanti dello scorso decennio, approda alla DC Comics, con cui firma un contratto di esclusiva. È in questi anni che Lemire comincia a cimentarsi come semplice autore dei testi, diventando uno degli scrittori più prolifici del periodo (arriva a scrivere anche sei serie contemporaneamente, e in almeno una di queste si occupa persino dei disegni). Terminato il contratto con la DC, comincia a lavorare, sempre a ritmi altissimi, anche per altre case editrici, tra cui la Marvel e la Valiant, senza disdegnare di dedicarsi a progetti creator-owned per l’Image e la Dark Horse. Tuttavia, come prevedibile, questa iperattività ha finito per incidere sulla qualità dei suoi lavori: per esempio, anche solo restando alla Marvel, sebbene i cicli di Hawkeye e Moon Knight da lui gestiti possano essere considerati due delle cose migliori prodotte dalla Casa delle Idee negli ultimi anni, pur essendo stato chiamato a sostituire due grossi calibri come Matt Fraction e Warren Ellis, non si può dire altrettanto per le sue storie su Extraordinary X-Men, o per la sua collaborazione con Charles Soule ai testi di Death of X e Inhumans vs X-Men. È probabile, però, che il dover sottostare alle rigide regole della continuity marvelliana abbia inciso in maniera consistente sul risultato finale del suo lavoro, tanto è vero che il Lemire visto sulla recente Black Hammer per la Dark Horse, è tornato a essere l’autore ispirato che abbiamo sempre conosciuto. Ma, come la più classica eccezione a confermare la regola, ecco che a smentirci è arrivata Descender, maxiserie di 32 numeri realizzata per l’Image assieme al bravissimo Dustin Nguyen, che la Bao Publishing ha raccolto in Italia in sei eleganti volumetti cartonati (l’ultimo dei quali presentato in anteprima all’ultima edizione di Lucca Comics and Games).

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Uscita originariamente negli USA tra il marzo del 2015 e il luglio di quest’anno, Descender è una serie fantascientifica ambientata in un lontano futuro dove i discendenti dei terrestri hanno costituito, assieme ad altre razze aliene, il Consiglio Galattico Unito (CGU). Cuore di questa alleanza è il pianeta Niyrata, la cui popolazione viene decimata nelle primissime pagine, a seguito del misterioso attacco di un gigantesco robot. Anche gli altri pianeti principali del CGU vengono devastati da robot simili, generando nei pochi sopravvissuti un’autentica fobia verso gli esseri artificiali.
Dieci anni dopo, su una colonia mineraria periferica, il piccolo robot di compagnia Tim 21 si risveglia da un sonno iniziato poco tempo prima dell’attacco dei Mietitori (nome dato nel frattempo agli enormi robot). Collegandosi a un server del CGU per cercare di apprendere cosa sia successo in tutti quegli anni, viene identificato dai militari di Niyrata, che incaricano il capitano Telsa di andare a recuperarlo. Tim 21, infatti, potrebbe aiutare l’umanità a comprendere la natura dei Mietitori, il cui codice macchina (l’equivalente robotico del nostro DNA) è risultato analogo a quello del piccolo robot. È l’inizio di un lungo inseguimento attraverso il cosmo, che vede protagonisti oltre alle varie razze del CGU, anche la resistenza robot del Cablato (di cui fa parte Tim 22, gemello cibernetico del piccolo protagonista), tutti in qualche modo interessati a Tim 21. Ma, alla resa dei conti conclusiva, la sorprendente natura dei Mietitori e dei loro costruttori viene finalmente rivelata.

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Una trama, quella di Descender, avvincente e appassionante quindi, che non manca di parecchi spunti interessanti, ma che nasconde anche diverse cadute di tono. Particolarmente efficace, per esempio, è il modo in cui Lemire tratteggia le personalità dei robot. Sia Tim 21 che Tim 22, sono, di fatto, il risultato delle esperienze vissute dai due esseri artificiali nei primi anni della loro “vita”. Tim 21 è buono, generoso, incapace di fare del male perché è sempre stato trattato dai suoi “genitori” umani quasi alla pari del loro figlio naturale, Andy, il quale considerava il piccolo robot alla stregua di un fratello (sentimento peraltro condiviso da Tim 21). Tim 22, invece, è l’esatto opposto: sottoposto a ogni sorta di angheria dall’anziano padrone a cui, in teoria, avrebbe dovuto fare compagnia, è diventato un essere malvagio e senza scrupoli. Inoltre, l’interesse che il capo del Cablato, Psius (che Tim 22 considera una sorta di padre) prova per Tim 21, lo porta a tentare la distruzione di quest’ultimo per semplice gelosia. Una differenza nei caratteri dei due robot così netta, però, sembra suggerire che secondo Lemire negli esseri artificiali non possano esistere sfumature o compromessi: o sono la rappresentazione ideale della bontà o sono l’essenza del male. Estremi che difficilmente potrebbero essere associati a un essere umano, ma che il lettore trova perfettamente naturale in un robot. Tutto logico, quindi, se Lemire, a un certo punto, non decidesse di scombinare le carte. Infatti, verso la fine della serie, con un lungo flashback, l’autore canadese introduce l’antichissima razza dei Descender. Questi evolutissimi esseri non sono organismi biologici, ma robotici. Non solo, dato che il loro nome significa “coloro da cui deriva tutta la vita”, potrebbero essere addirittura i creatori della vita biologica nell’universo. Un’idea spiazzante e suggestiva ma, francamente, inverosimile. Considerando poi che sia Tim 21 che i Descender sono un’evidente citazione del film A.I. di Steven Spielberg (il primo è un omaggio a David, il piccolo robot protagonista della pellicola, mentre i secondi somigliano parecchio agli avanzatissimi Mecha che compaiono nelle ultime scene del film), la trovata di Lemire appare ancora più bizzarra. Nella pellicola di Spielberg, infatti, i robot si evolvono in esseri molto progrediti, assolutamente immuni dalle imperfezioni che caratterizzano il genere umano, ma a partire da progenitori molto meno sofisticati, creati dall’uomo con il preciso scopo di superare i propri limiti. Esattamente il contrario di quanto mostra Lemire, i cui Descender esibiscono una spietatezza un po’ ottusa e del tutto incoerente con la loro presunta superiorità: non esitano un istante a sterminare l’intera vita organica, senza mai cercare un dialogo e pretendendo che l’umanità si adegui alla fredda logica delle loro equazioni. L’uomo è solo un errore da eliminare al più presto: la vita biologica non è degna di proseguire nel suo cammino, perché incapace di raggiungere quella perfezione che caratterizza invece le macchine.

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A Lemire possiamo concedere il dubbio che volesse solo utilizzare una metafora (e il fatto che i Descender non vogliano rivelare la loro origine, potrebbe addirittura portare a una parziale revisione del nostro giudizio, una volta che l’autore canadese avrà chiarito anche questo mistero) per mostrare quanto l’imperfezione umana sia insita nella sua natura organica. Ma l’avere candidamente ammesso nella postfazione dell’ultimo volume che il finale che aveva concepito per la serie non lo avesse mai veramente soddisfatto, tanto da decidere improvvisamente di modificare la trama attraverso l’introduzione della magia, non aiuta a fugare il dubbio che le diverse incoerenze (oltre a quelle già descritte, occorre almeno citarne un’altra: i Descender chiamano “mietitura” lo sterminio dell’umanità, ma non se ne capisce il motivo, visto che il termine “mietitori” per i giganteschi robot è stato coniato dall’uomo, non da loro), parecchi dialoghi poco efficaci, alcuni personaggi incompiuti (a cominciare dal poco incisivo Dottor Quon) e banalità varie (una su tutte: il ridicolo nome di Regina Ibrida che il personaggio di Effie sceglie per sé, una volta diventata un cyborg) non siano altro che il frutto di continui rimaneggiamenti o di una semplice perdita di interesse dell’autore verso la serie nel suo complesso.

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A ogni modo, la svolta fantasy imposta alla narrazione potrebbe portare parecchi benefici, non solo ai testi di Lemire, ma anche a Dustin Nguyen, i cui splendidi acquerelli, pur se autentico valore aggiunto dell’opera, sono sembrati poco adatti a rappresentare gli scontri a fuoco, le scene di lotta o le semplici ambientazioni fantascientifiche introdotte dalla trama. La delicatezza del suo tratto e la leggerezza dei colori sembrerebbero più idonei ad atmosfere di altro tipo, più intimiste, oppure, semplicemente più fiabesche. E le ultime pagine del volume conclusivo, o l’evocativa immagine finale, che fa da introduzione ad Ascender (la nuova serie che nel 2019 proseguirà con una nuova veste la storia di Descender), sembrano proprio confermare questa impressione.

La Sensazionale She-Hulk - Marvel Omnibus, recensione: l'innovativo e geniale classico di John Byrne

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Quando John Byrne tornò alla Marvel nel 1989 era uno degli autori più importanti del fumetto americano, un’autentica superstar, il cui nome sulla copertina era sufficiente a decretare il successo di una testata. L’autore anglo-canadese (poi naturalizzato statunitense), stanco di sottostare ai diktat di Jim Shooter (editor in chief alla Marvel fino al 1987), aveva passato qualche anno alla DC Comics, dove era riuscito nel non facile compito di rinnovare un’autentica icona della nona arte come Superman. Forte di questo risultato, fece ritorno alla Casa delle Idee per dedicarsi a serie secondarie, fiducioso che, in questo modo, avrebbe potuto lavorare con una maggiore libertà creativa. Per cominciare, prese le redini dell’agonizzante West Coast Avengers dove, in pochi numeri, riscrisse completamente la storia di parecchi membri degli Eroi più potenti della Terra e dove, tra le altre cose, introdusse la versione oscura di Scarlet, un concept che sarà utilizzato molti anni dopo da Brian Michael Bendis, per la realizzazione della fondamentale saga Vendicatori Divisi. Ma, nello stesso anno, Byrne fu incaricato di rilanciare anche un altro personaggio in cerca di riscatto, l’esuberante Jennifer Walters, alias She-Hulk.

Nata nei primi anni Ottanta del secolo scorso, con il preciso intento di sfruttare la popolarità della serie televisiva dedicata a Hulk, interpretata da Bill Bixby e Lou Ferrigno, She-Hulk fu la protagonista di una breve serie di 25 numeri. Nel primo episodio, opera di due mostri sacri come Stan Lee e John Buscema, il lettore viene subito informato che l’avvocato Jennifer Walters è la cugina (mai nominata prima di allora) di Bruce Banner. Sarà proprio l’alter ego di Hulk a determinare la trasformazione di Jennifer in una versione femminile del Golia Verde. Infatti, ferita in uno scontro a fuoco, riuscirà a salvarsi solo grazie a una trasfusione di sangue del cugino. Le radiazioni gamma presenti nel sangue di Bruce, però, determineranno la trasformazione di Jennifer in una gigantessa verde. She-Hulk, come fu battezzata, era molto simile all’essere in cui si trasformava il suo più celebre parente, tranne che per una caratteristica, che diventerà, poi, fondamentale. Jennifer, infatti, quando diventava She-Hulk, non perdeva mai coscienza di sé. Proprio grazie a questa differenza, nel tempo il personaggio subì un profondo restyling, che ebbe inizio con il suo approdo nelle fila dei Vendicatori (all’epoca scritti da Roger Stern) e che culminò con l’ingresso nei Fantastici Quattro, per sostituire la Cosa dopo le prime Guerre Segrete (durante il famoso ciclo del quartetto, scritto e disegnato proprio da Byrne). Già in queste storie il personaggio cominciò a mostrare uno spiccato sense of humor, oltre a una buona dose di malizia. Byrne, inoltre, aumentò sempre di più il suo sex appeal, esaltando con il suo tratto morbido le generose forme dell’eroina.

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Quasi come una sorta di preludio alla sua nuova serie personale, nel 1985 la Marvel affidò sempre a Byrne la realizzazione di un graphic novel dedicato all’eroina: la storia era un puro pretesto per sottolineare la carica erotica del personaggio, oltre che per rimarcarne le forti potenzialità umoristiche. Se Byrne non avesse lasciato la Marvel poco dopo, probabilmente si sarebbe arrivati alla nuova serie di She-Hulk in un tempo più breve. Difficile pensare, però, che con le restrizioni imposte dal Comics Code (l’organo di censura che aveva ancora potere di veto sulle scelte editoriali), l’autore avrebbe potuto godere fin da subito di una forte autonomia creativa. A ben vedere, il prestigio accumulato nei pochi anni passati alla DC, gli servì soprattutto per accrescere il proprio potere negoziale nei confronti degli editor, attenti a far sì che gli autori non infrangessero in maniera evidente le regole del suddetto codice.

Byrne aveva ben in mente cosa fare con She-Hulk. Il personaggio si era ormai evoluto in qualcosa di completamente diverso da una mera controparte femminile di Hulk ed era arrivato il momento di sfruttarne appieno le enormi potenzialità. A sancire il deciso cambio di direzione, la nuova testata non utilizzò il nome della serie del 1980, Savage She-Hulk, ma quello del graphic novel del 1985 Sensational She-Hulk. Fin dalla copertina del primo numero, Byrne mise in chiaro le sue intenzioni: una sfrontata She-Hulk a mezzo busto si rivolge direttamente ai lettori, minacciando la distruzione della loro collezione degli X-Men (allora saldamente in testa alle classifiche di vendita) in caso di mancato acquisto della testata a lei dedicata. L’umorismo in una serie di super-eroi non era una novità. Proprio negli anni della permanenza di Byrne alla DC, Keith Giffen e J.M. DeMatteis avevano trasformato la Justice League in una divertente commedia super-eroica, ma si erano ben guardati dallo spingersi oltre. Solo il compianto Steve Gerber, una decina di anni prima, aveva tentato la strada del meta-fumetto, ma il suo Howard the Duck era un personaggio che satireggiava i costumi e la politica degli Stati Uniti dell’epoca, non un eroe che prendeva in giro le regole stesse del fumetto.

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Nei primi otto numeri, Byrne regalò ai lettori una trovata dopo l’altra, She-Hulk non solo era consapevole di essere all’interno di un fumetto, ma dialogava direttamente con il suo autore, spesso per rimproverarlo degli avversari da lui scelti per combatterla (tra i più ridicoli del cosmo Marvel). Naturalmente Byrne non voleva che la serie di She-Hulk fosse solo una sequenza di gag senza capo né coda. Da abile narratore non fece mai mancare una trama solida alle storie della Gigantessa di Giada. È vero, però, che ogni nuovo albo rappresentava per l’autore americano la possibilità di spingersi oltre, di infrangere una nuova regola. Voleva che She-Hulk fosse davvero un fumetto rivoluzionario. Stava, addirittura, per far apparire Lex Luthor (lo si intravede seminascosto in qualche vignetta come Signor L.) e per prendere in giro uno dei grandi successi cinematografici dell’epoca, Chi ha incastrato Roger Rabbit? (in originale Who framed Roger Rabbit?). Infatti, la copertina del numero nove, già completata da Byrne, è ormai rintracciabile solo sul web o su qualche rivista specializzata e vi si legge il titolo Who framed Roger Robot? in cui si vede una She-Hulk vestita da avvocato, che discute con un robot umanoide dietro le sbarre. Questa storia, però, non vide mai la luce in quanto l’editor Bobbie Chase pensò che Byrne avesse davvero esagerato, e non volle correre il rischio di far arrabbiare la Disney (che con la sua Touchstone Pictures aveva prodotto il film di Robert Zemeckis assieme alla Amblin di Steven Spielberg). Byrne, noto per non essere una persona conciliante, non la prese bene e abbandonò la testata. Per il numero nove si ricorse a un fill-in, e dal numero successivo la serie venne affidata ad altri autori (tra cui proprio Steve Gerber), nessuno dei quali, però, riuscì a replicare lo stile di Byrne. Lui stesso, con il passare dei mesi, si rese probabilmente conto che i tempi non erano maturi per scelte narrative così radicali, per cui, non appena Bobbie Chase passò la mano alla nuova editor Renée Witterstaetter, accettò di tornare alle redini della testata con il numero 31.

Considerando la serie una sua creatura, non tenne minimamente in considerazione il lavoro di chi lo aveva sostituito per parecchi mesi, riuscendo addirittura a scherzarci su in copertina, dove lo si vede portato via da She-Hulk, prima di poter cambiare il numero dell’albo da 31 a 9. Nella nuova run Byrne non tentò più di andare oltre certi limiti, proseguì semplicemente a ironizzare sui confini della censura, sfruttando sempre di più la sensualità della sua eroina, a prendersi gioco della storia della Marvel e a frantumare definitivamente la cosiddetta quarta barriera tra fumetto e mondo reale. Arrivati al numero 50 (un bellissimo albo celebrativo dove, tra gli altri, Frank Miller, Walt Simonson e Howard Chaykin si divertono a scherzare sulle loro opere più famose) Byrne diede l’addio definitivo alla serie. Consapevole che il fumetto americano stava cambiando (erano i primi anni dell’Image Comics e l’epoca i cui gli autori riuscivano ad affermare la propria voce), fu anche lui attratto dalla possibilità di detenere i diritti delle proprie opere. Iniziò a lavorare con la Dark Horse su Next Men e su altre collane minori di sua creazione. Il successo, però, non arrivò. I lettori più giovani erano maggiormente interessati agli eroi ipertrofici di Rob Liefeld e Todd McFarlane e il prestigio di Byrne, a poco a poco, si esaurì.
Leggere, oggi, le storie di Deadpool o andare al cinema a vedere i suoi film, non può non far pensare, con un po’ di amarezza, a quanto Byrne fosse in anticipo sui tempi. La comicità dell’alter ego di Wade Wilson spesso sfrutta gli stessi trucchi narrativi messi a punto dal nostro John sulle pagine di She-Hulk, ma ormai, purtroppo, sono davvero in pochi a ricordarselo.

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L’omnibus edito da Panini Comics, da poco disponibile nelle fumetterie, è uno splendido volume cartonato di oltre 600 pagine, che racchiude tutte le storie di Sensational She-Hulk realizzate da Byrne (compreso il simpatico preludio apparso su Marvel Comics Presents) e che rende finalmente giustizia a quest’opera fondamentale del fumetto popolare americano la quale, pur essendo stata pubblicata quasi trent’anni fa, non sembra invecchiata di un giorno. Il costo è un po’ elevato, ma, fidatevi, ne vale la pena.

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