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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Crossed Deluxe 1, recensione: la fine del mondo secondo Garth Ennis

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Tra tutti gli esponenti della British Invasion che travolse il fumetto americano tra gli anni ’80 e ’90, la palma del più irriverente e sovversivo va sicuramente a Garth Ennis. Mentre Alan Moore, Neil Gaiman, Grant Morrison, Jamie Delano, Peter Milligan e gli altri terribili ragazzi inglesi operavano una raffinata decostruzione del media fumetto arricchendolo di qualità letteraria, Ennis lo prendeva letteralmente d’assalto con massicce dosi di humor nero, violenza e satira sociale e religiosa. Opere come Preacher, Hellblazer, Hitman realizzate per la DC Comics e il lungo ciclo di Punisher scritto per la Marvel hanno lasciato il segno, cementando la reputazione di Ennis come autore tra i più iconoclasti del settore. Ma il suo lavoro più scioccante e provocatorio doveva ancora arrivare. Nel 2008 la Avatar Press, casa editrice indipendente nota per aver calcato la moda delle bad girl negli anni ’90 e per essersi specializzata in seguito nell’horror attirando firme prestigiose come Alan Moore, Warren Ellis e lo stesso Garth Ennis, da alle stampe Crossed, una miniserie composta da prologo e da 10 capitoli, con la quale lo scrittore nord-irlandese firma la sua opera più sconvolgente.

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Crossed ha una struttura da tipico survival horror, il sottogenere probabilmente più frequentato dalla fiction di questo primo scorcio di millennio. Nel momento in cui l’opera di Ennis raggiunge gli scaffali delle fumetterie americane, The Walking Dead si colloca stabilmente sul podio delle serie più vendute e da lì a breve genererà una serie tv di grandissimo successo. Pur condividendone la struttura di massima, Crossed si discosta però di molto dal classico racconto a tema apocalisse zombie. Il plot e il suo incipit sono quanto di più abusato ci possa essere: un misterioso contagio si è propagato in tutto il globo, causando in breve tempo il collasso del mondo civilizzato e delle sue istituzioni. Ma l’epidemia che sta devastando l’umanità non trasforma le persone in morti viventi, bensì in sadici assassini. È come se il morbo da cui sono infetti li liberasse di qualsiasi freno inibitore, consentendogli così di lasciarsi andare a qualsivoglia sorta di efferatezza: stupri, omicidi, cannibalismo e altre oscenità da cui sembrano trarre un gran godimento. Gli “scrociati” (liberamente tradotto dall’inglese crossed) si muovono in branco e uccidono in modo truculento chiunque gli capiti sotto tiro; quando non ci sono vittime sacrificali nei paraggi, non è escluso che si massacrino tra di loro. La cosa più inquietante è che che gli scrociati, così ribattezzati a causa della piaga a forma di croce che il virus gli fa comparire sul viso, non hanno perso del tutto le loro facoltà intellettive, mentre il gusto per la perversione risulta amplificato fino a sfociare in una diabolica furia omicida che sembra divertirli molto.

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La storia segue un gruppo di sopravvissuti, il cui primo nucleo si forma all’esterno di una tavola calda di una cittadina americana di provincia, dentro la quale si è consumato all’improvviso un massacro senza senso. I superstiti ci mettono molto poco a capire che è successo qualcosa di terribile, che non è circoscritto alla macabra circostanza di cui sono testimoni. Organizzatosi intorno alle figure del pacato Stan e delle determinata Cindy, ragazza madre dotata di leadership e carisma, il gruppo decide di dirigersi verso il nord del paese, verso lande disabitate dove sperano di non incontrare gruppi di scrociati. Inutile dire che non sarà così, e capitolo dopo capitolo il numero di componenti della comitiva si assottiglierà sempre di più, in un crescendo di tensione e di scene di violenza estrema, a tratti difficilmente sostenibile.

Servendosi di un genere provocatorio e sovversivo come lo splatterpunk, con Crossed Ennis porta alle estreme conseguenze uno dei temi tipici della sua produzione, ovvero la denuncia dell’ipocrisia di una società governata dalla violenza, nonostante le apparenze. Gli scrociati solo la rappresentazione di un’umanità privata di etica e di qualsiasi compassione, quello che potremmo diventare se rinunciassimo ad aderire a regole e convenzioni sociali, se la nostra moralità e la nostra coscienza venissero inghiottite dalle tenebre. Ma l’autore non è tenero neanche con il gruppo di sopravvissuti, ritratti non certo come eroe ma come individui abbrutiti disposti a tutto pur di sopravvivere, anche ad abbandonare quel che resta della loro umanità. Esemplare in tal senso la sequenza che illustra l’incontro con il gruppo di orfani, il passaggio chiave dell’intero volume che non spoileriamo ma che è lo specchio dell’abisso in cui precipitano i protagonisti. Crossed è quindi un’opera con un messaggio? Forse si o forse no. Quello che è certo è che non deluderà gli estimatori dell’horror tout-court.

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Ennis è un maestro nell’usare la suspense, che esplode puntualmente in scene di violenza brutale sapientemente messa in scena da Jacen Burrows. L’artista, specialista del genere, rappresenta l’orrore senza lasciare nulla all’immaginazione. Un repertorio di nefandezze raccomandato solo agli stomaci forti, ma che centra l’obiettivo di scioccare il lettore. La linea chiara delle matite, abbinata ad una palette di colori luminosa, accentua l’effetto sconvolgente delle immagini.
Panini Comics raccoglie il primo ciclo di Crossed, abbinato allo spin-off Crossed: Badlands sempre firmato dagli stessi autori, in un poderoso volume deluxe che ci sentiamo di sconsigliare alle anime particolarmente sensibili.

Refrain, recensione: il ritorno del "Nero Criminale" di Carlotto, Ruju e Ferracci

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Tornano le atmosfere noir alla milanese concepite dal trio Massimo CarlottoPasquale RujuDavid Ferracci in Refrain, sequel del precedente e apprezzatissimo Ballata per un traditore, sempre edito da Feltrinelli Comics, che aveva aggiornato il poliziottesco all’italiana per i nostri giorni.

Erede della tradizione che vede tra i suoi maggiori esponenti lo scrittore Giorgio Scerbanenco e il regista Ferdinando Di Leo, Ballata per un traditore conferma l’impegno dello scrittore Massimo Carlotto nel mondo del fumetto, in cui ha portato gli elementi tipici dei suoi romanzi di successo, come la serie dedicata all’ “Alligatore”. Qui avevamo fatto la conoscenza del Commissario Lo Porto, corrotto funzionario di polizia che con la sua squadra aveva fatto da garante per decenni ad un patto scellerato tra istituzioni e le famiglie criminali milanesi. L’omicidio di suoi due vecchi collaboratori scatena una spirale di violenza e una resa dei conti rimandata da troppi anni. Il commissario Stefania Rosati, in particolare, ha un conto da chiudere con Lo Porto che fu il responsabile morale dell’assassinio di suo padre, il magistrato Cosimo Santini. Quando Lo Porto le fa il nome di Adriano Musitelli, killer della Mafia esecutore del delitto, la Rosati attraversa il confine tra legge e vendetta e lo fredda senza pietà. Non sa però di essere filmata da uomini di John Ogu, esponente della mafia nigeriana che, alleandosi a quelle russa e slava, vuole sostituire la criminalità locale ai vertici della cupola milanese. La storia si concludeva con Stefania Rosati ricattata dalla nuova alleanza mafiosa, che minaccia di diffondere il filmato in cui uccide Musitelli. Il commissario, suo malgrado, si trova così ad essere il “nuovo Lo Porto”: un funzionario pubblico corrotto che fa gli interessi della criminalità.

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Refrain riprende dal momento esatto in cui si concludeva la Ballata: la Rosati è sempre più invischiata nel gioco pericoloso in cui lo coinvolge Ogu, e al quale lei non può sottrarsi a causa del ricatto. La nuova alleanza tra mafia nigeriana, russa e slava la usa per sbarazzarsi dei concorrenti più agguerriti come i latinos, dandole soffiate che le servono per sgominare le bande rivali. Forte di questi apparenti successi, subito sfruttati a livello mediatico, la Rosati diventa il nome di riferimento nella lotta alla criminalità a Milano. Un nome talmente sotto i riflettori da insospettire qualche collega navigato. Di più non diremo per non rovinare il gusto della lettura, salvo che la situazione del Commissario Rosati si farà sempre più complicata e la costringerà a commettere azioni estreme che non saranno senza conseguenze.

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Con Refrain Massimo Carlotto e Pasquale Ruju, che affianca ai testi l’autore padovano, continuano il racconto della discesa agli inferi di un gruppo di servitori dello stato che finiscono col diventare peggiori della feccia che si propongono di combattere. Un abisso etico e morale che non lascia scampo a chi se ne fa lambire, anche se inizialmente mosso dalle migliori motivazioni. Carlotto e Ruju riescono ad abbinare introspezione psicologica e analisi sociologica (con un accenno alla retorica politica tipica dei nostri tempi) ad un’azione mozzafiato, con continui colpi di scena e twist di sceneggiatura che non finiranno di stupire e intrattenere il lettore.

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Il tratto spigoloso e rigorosamente in bianco e nero di David Ferracci costituisce il compendio grafico ideale per accompagnare un racconto noir disperato come quello imbastito dalla coppia di scrittori. Essenziale e quasi austera, la matita di Ferracci rende alla perfezione l’atmosfera nera della vicenda, accompagnando con uno storytelling forsennato lo script al fulmicotone di Carlotto e Ruju ma senza scadere mai nella spettacolarizzazione fine a se stessa. Un esito artistico di pregevole fattura, quello confezionato dal trio di autori, di cui l’ultima pagina preannuncia un inevitabile terzo capitolo.

Batman: Le Nuove Avventure, recensione: il ritorno della Gotham dark déco

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Nel 1989 il Batman realizzato da Tim Burton ed interpretato da Micheal Keaton, Jack Nicholson e Kim Basinger arrivò sugli schermi di tutto il mondo, dando inizio all’era dei moderni cinecomic. Non più pellicole di serie b, realizzate in economia - che fin dai tempi dei serial degli anni ’40 era lo standard per questo genere di prodotto, fatta eccezione per il pioneristico Superman di Richard Donner -, ma veri e propri kolossal interpretati dai migliori attori in circolazione. L’impatto del Batman del 1989 sulla cultura pop del suo tempo fu enorme, il caratteristico logo del Cavaliere Oscuro era ovunque e per la prima volta, un personaggio dei fumetti abbandonava i confini angusti della ristretta cerchia di appassionati per diventare una star multimediale.
Questo successo spinse la Warner Bros. a mettere in cantiere un sequel, che uscì nell’estate del 1992, dal titolo Batman Returns. Il film esasperava la vena dark già presente nel primo capitolo, rendendola più coerente con l’estetica di Burton. Tra i cambiamenti apportati, ce ne fu uno inevitabile. Anton Furst, lo scenografo che grazie a Batman aveva vinto un meritato Oscar, si era suicidato nel 1990, prima di iniziare a lavorare al sequel. Per sostituirlo venne chiamato Bo Welch, che aveva lavorato con il regista in Beetlejuice.

Nel dare forma alla Gotham City immaginata da Tim Burton, Furst optò per un mash-up conflittuale di stili, che spaziavano dal futurismo post-moderno dell’architetto giapponese Shin Takamatsu, all’espressionismo tedesco dell’architetto del Reich, Albert Speer, il tutto condito con una spruzzata rétro della New York degli anni ’40 attraversata dall’Art Decò. Una sintesi audace e geniale, che fece epoca. Un esito artistico talmente influente che non rimase confinato al lungometraggio dell’89, ma condizionò anche il fumetto di provenienza e la serie animata, Batman: The Animated Series, che venne trasmessa a partire dal 1992 sull’onda lunga del successo dei film di Burton.

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Creata da Bruce Timm e Eric Radomski, col contributo di Paul Dini e Alan Burnett nel ruolo di produttori esecutivi, la serie animata era una elegante rielaborazione del mito del Cavaliere Oscuro, che riprendeva il design della Gotham City di Anton Furst fondendola con l’estetica pulp e rétro dei cartoni animati di Superman prodotti dai fratelli Fleischer nei primi anni ’40. Batman: TAS (acronimo con cui è universalmente nota la serie) divenne un classico istantaneo fin dal suo primo apparire e viene oggi considerata non solo fra le migliori serie animate mai tratte da un fumetto, ma anche il miglior adattamento di Batman mai realizzato, grazia a una cifra qualitativa elevatissima, all’affascinante look noir e allo spessore delle trame e delle caratterizzazioni dei personaggi.  La serie andò in onda fino al 1995 vincendo quattro Emmy Award, ospitò il debutto di un personaggio di grande avvenire come Harley Quinn, generò due lungometraggi per il grande schermo - tra cui il notevolissimo Batman: La Maschera del Fantasma - e dette il via al cosiddetto Timmverse, l’universo condiviso di serie animate targate DC Comics curato da Bruce Timm.

Mentre si parla di un revival della serie animata con nuovi episodi realizzati per la piattaforma HBO Max, la DC ha provveduto lo scorso anno a fornirgli un sequel ufficiale a fumetti con Batman: The Adventures Continue, collana che vede i vecchi produttori di BTAS Paul Dini e Alan Burnett tornare nel ruolo di scrittori per i disegni di Ty Templeton.

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Panini Comics ha raccolto la prima stagione di questa nuova serie in un corposo volume cartonato, contenente i primi otto episodi che si suddividono tra storie autoconclusive e archi narrativi con più capitoli. Ritroviamo Batman, gli alleati storici come Robin - un Tim Drake agli inizi del suo sodalizio col Cavaliere Oscuro -, Nightwing, Batgirl e il Commissario Gordon, oltre a classici villain come Joker, il Pinguino, Mister Freeze, il Cappellaio Matto, Bane, Harley Quinn e Poison Ivy. Ma ritroviamo soprattutto la Gotham City dark decò tanto cara agli spettatori della storica serie. Le vicende riprendono proprio dove si era interrotta quest’ultima, e Dini e Burnett si divertono a proporre la versione animata di classici personaggi DC che non avevano fatto in tempo ad apparire in BTAS. Assistiamo quindi al debutto in questo universo di Deathstroke, Azrael e Red Hood/Jason Todd, il secondo Robin che nel canone classico era stato andato incontro ad un destino tragico per mano del Joker salvo poi ritornare nei panni del misterioso vigilante dalla maschera rossa. La vicenda che segna la vita di Batman è qui rielaborata per un pubblico all-ages, ma questo non pregiudica affatto la fruizione da parte di una fascia di lettori più adulta, grazie all’ottima prova alla macchina da scrivere di Dini e Burnett che ritrovano la stessa verve qualitativa della serie animata. Il tono è sì all’insegna della leggerezza, ma non mancano passaggi drammatici e colpi di scena che tengono il lettore incollato alla poltrona, anche grazie ad un plot intrigante condito da sottotrame che attraversano il volume per esplodere nei capitoli finali.

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Lo stile cartoony dei disegni di Ty Templeton, veterano della precedente serie a fumetti degli anni ’90 tratta dalla serie animata, centra lo scopo di riportare il lettore nelle atmosfere di BTAS, di cui riprende il classico character design.
Batman Le Nuove Avventure è una lettera d’amore ad una serie animata che ha fatto epoca, un volume che emozionerà i vecchi spettatori ormai cresciuti e che non mancherà nello stesso tempo di appassionare una nuova generazione di lettori.

Mostri, recensione: il grande ritorno di Barry Windsor-Smith

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Quando Barry Smith, giovane artistico britannico di belle speranze, debutta sul finire degli anni Sessanta sul mercato statunitense con alcune prove non del tutto convincenti su testate sparse della Marvel Comics, nessuno prevede per questo ventenne un futuro da maestro del fumetto quale diventerà da lì a pochi anni. Le pagine illustrate da Smith per X-Men, Daredevil, Avengers sono evidentemente influenzate dalla sua ammirazione giovanile per Jack Kirby, di cui riprende le anatomie statuarie e la costruzione spettacolare delle tavole. Ma la forte considerazione per l’opera del Re non basta a dare personalità al lavoro di Smith. La sua imitazione di Kirby risulta troppo sfacciata e priva di reale ispirazione, non lasciando presagire un grande futuro per la carriera del giovane artista che decide di prendersi un periodo sabbatico dai comics per affinare il suo stile. Si dedica così allo studio dei pittori preraffaelliti, modificando il suo approccio alla resa dell’anatomia umana che passa dalle masse kirbyane a figure più snelle ed eleganti. La svolta della carriera dell'autore avviene con le storie di Conan the Barbarian disegnate a partire dal 1970. Dopo un inizio timido, la collana decolla grazie all’eleganza delle tavole di Smith, divise tra figure sinuose e dinamiche ed edifici sontuosi, diventando la collana più venduta del decennio insieme ad Amazing Spider-Man. Il tratto raffinato, meticoloso e ricco di dettagli di Smith spingono la serie verso una cifra autoriale sconosciuta al fumetto mainstream dell’epoca. Quando Smith abbandona la collana dopo 26 storie, la percezione del pubblico nei confronti dell’autore è mutata. Smith è ormai considerato un maestro, uno degli artisti più innovativi del decennio, che può permettersi un nuovo e momentaneo ritiro dalle scene del fumetto seriale, di cui non sopporta le scadenze stringenti, per continuare una sua personale ricerca stilistica.

Durante questo periodo, in cui fonda un suo studio personale per sperimentare un modo diverso di fare illustrazione, cambia il suo cognome in Windsor-Smith, affiancando il cognome materno a quello paterno. È il simbolo di una svolta stilistica ed autoriale, che segnerà tutti i lavori successivi. Dopo un decennio di sperimentazioni in campo artistico, nel 1983 Jim Shooter - editor-in-chief della Marvel - lo richiama in servizio presso la Casa delle Idee. Inizia così per l’autore un decennio sfolgorante, ricco di lavori di notevole spessore che diventeranno iconici, dalla storia della Cosa su Marvel Fanfare, che rivela il suo talento come autore completo, alla miniserie dedicata a Machine Man, dalla collaborazione con Ann Nocenti su Daredevil ai due capitoli di Vitamorte, storia intimista dedicata a Tempesta che appare su due numeri di Uncanny X-Men in cui collabora proficuamente con Chris Claremont. È in questo periodo ricco di impegni che Windsor- Smith comincia a lavorare a un graphic novel dedicato ad Hulk. Il progetto si trascina per anni, sia per la meticolosità certosina dell’autore, sia per l’impegno profuso nella realizzazione di Weapon X, miniserie dedicata alle origini di Wolverine a cui la Marvel conferisce precedenza assoluta e che si rivelerà come uno dei massimi capolavori della carriera di Windsor-Smith. Il progetto su Hulk non verrà però abbandonato, ma verrà ripreso nel corso dei decenni e sviluppato per un altro editore fino a trasformarsi in un’opera lontana anni luce da quella prevista inizialmente.

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Il pitch pensato per quel graphic novel, discusso dall’autore col redattore capo Shooter e lasciato su una scrivania del mitico Bullpen della Marvel, è al centro di uno di quegli aneddoti della storia del fumetto che da vicende laterali diventano parte integrante di una mitologia. La trama ideata da Windsor-Smith suggeriva per la prima volta una chiave psicoanalitica ai tormenti di Bruce Banner, scovando nel rapporto con il padre violento l’origine dei suoi traumi, che precedono l’incidente che lo trasforma in Hulk. Il caso vuole che il soggetto dell’autore inglese, abbandonato su quella scrivania zeppa di tavole e proposte in attesa di approvazione, finisca nelle mani di Bill Mantlo, sceneggiatore tra i più prolifici della sua epoca e anima del Bullpen, la redazione Marvel che in epoca pre-internet pullula di autori e redattori. Mantlo scrive da anni The Incredible Hulk firmando storie di buon livello, ma che non sono certo caratterizzate da finezza psicologica. Fatto sta che su The Incredible Hulk 312, datato ottobre 1985, viene pubblicata Monster, storia scritta da Mantlo e disegnata da un giovane Mike Mignola, con una trama incentrata sul rapporto traumatico di Bruce Banner col padre violento che ricalca in tutto e per tutto il pitch di Windsor-Smith. Il quale, adirato, sospende la lavorazione del graphic novel dedicata al Gigante di Giada, pur continuando a collaborare con la Marvel, mentre Mantlo viene rimosso dalla testata e destinato ad una collana di seconda fascia, Alpha Flight.

Gli anni passano e la carriera di Windsor-Smith conosce altre importanti e significativi capitoli. I suoi anni ’90 sono caratterizzati dalle collaborazioni con nuovi e agguerriti editori come Valiant e Malibu, arrivate nel momento di maggior espansione del mercato, e con la Dark Horse, per la quale realizza il sogno di creare una rivista d’autore, Storyteller, che non incontra però il favore di un pubblico abituato al formato comic-book. Corre voce tra gli addetti ai lavori, però, che l’autore inglese non abbia mai smesso di lavorare a quel graphic novel su Hulk che, in corso d’opera, si sarebbe trasformata in qualcosa di completamente diverso. Nel frattempo, la sua produzione si fa sempre più rarefatta, limitandosi a qualche copertina. Di fatto, Barry Windsor-Smith scompare dal mercato fumettistico per quasi venti anni. Finché, nel 2020, arriva la notizia del suo grande ritorno con la pubblicazione di Monsters, pubblicato dalla Fantagraphics di Gary Groth, nume tutelare della critica fumettistica statunitense. Un tomo di quasi 400 pagine illustrate in un  rigoroso bianco e nero, un vero e proprio magnum opus attraversato da un furore realizzativo e da un’ambizione creativa impossibile da trovare nel panorama odierno del fumetto a stelle e strisce. Leggendolo, si intuisce quale fosse l’idea sottrattagli da Mantlo. Ma la storiellina apparsa in Incredible Hulk 312, nonostante preannunci futuri sviluppi narrativi chiave per il personaggio (Peter David renderà l’aspetto psicologico il perno del suo lungo ciclo), non rende giustizia all’intuizione originale di Windsor-Smith. Che, trasformata finalmente in opera compiuta dal suo autore, diventa un’affascinante, implacabile e terribile analisi sulla natura contagiosa del male, che rovina per sempre chi ne viene toccato.

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Nelle sue premesse, Mostri (che Mondadori porta in Italia con un clamoroso volume cartonato inserito nella sua collana Oscar Ink) è così ricca di archetipi narrativi che le sue lontane origini di fumetto supereroistico non potranno sfuggire ai lettori iniziati al genere. Siamo nel 1964 e Bobby Bailey, un ragazzo senza arte né parte, si arruola nell’esercito offrendosi come cavia per un progetto militare avvolto da grande segretezza. Si tratta di un esperimento per creare un super-soldato, derivato da un programma nazista. Il processo, estremamente doloroso, va storto e il ragazzo si ritrova trasformato in un mostro deforme e gargantuesco. Aiutato dal Sergente McFarland, ufficiale che lo aveva arruolato ed è ora afflitto dai sensi di colpa, Bobby riesce a fuggire dal complesso militare in cui era prigioniero salvo essere braccato dall’esercito che lo vuole catturare a qualsiasi costo.

Il lettore che penserà alle origini di Capitan America o dell’Incredibile Hulk rimarrà spiazzato, perché nonostante sia attraversato dagli echi di leggende note, in Mostri non c’è spazio per alcun eroismo. Si respira un’aria simile a quella di Ruins di Warren Ellis, che era il riflesso distorto della celebrazione del sense of wonder che animava il Marvels di Kurt Busiek e Alex Ross. Qui c’è un esperimento azzardato, ereditato dalle peggiori menti criminali della storia, compiuto sulla pelle di un povero disgraziato, distrutto da un trauma da cui è impossibile riprendersi. Un incipit che serve a chiarire al lettore il tono dolente di un’opera in cui non ci sono eroi ma solo sopravvissuti e che poi, improvvisamente, diventa altro. Un flashback ci porta nel 1948, quando Bobby è un bambino che aspetta il ritorno dalla guerra dal padre Tom insieme alla madre Janet, nel piccolo centro di Providence. Il piccolo era appena nato quando il padre è partito per fare l’interprete al fronte, e non ha praticamente mai conosciuto il genitore. Janet conduce una vita difficile, tra l’ansia per la sorte del consorte, marito affettuoso, e la difficoltà di crescere un bambino da sola. Il tutto è mitigato solo dall’amicizia che nasce con Jack Powell, l’agente governativo incaricato di fornire informazioni ai parenti dei soldati in guerra. Ma un giorno Tom torna, e non è più l’uomo di una volta. È successo qualcosa in guerra, ha visto qualcosa di terribile che lo ha cambiato per sempre. È diventato iracondo e violento, e non esita ad alzare le mani su moglie e figlio. Da qui in poi la vita per Janet e Bobby si trasforma in un inferno, attraversato da una continua escalation di tensione di cui non anticipiamo nulla per non rovinare la sorpresa ai lettori.

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Che Barry Windsor-Smith fosse un artista tra i più raffinati della scena fumettistica internazionale non costituisce certo una sorpresa, e Mostri lo conferma. La magniloquenza grafica dei suoi classici Marvel o le tavole ricche di tinte preraffaellite dei lavori più sperimentali lasciano qui il passo a un rigoroso uso della china e del pennino, di un tratteggio realizzato con la minuzia e con la dedizione di un incisore. L’organizzazione della tavola è di sapore classico, basato sull’utilizzo della griglia a nove vignette, soprattutto per le scene di interni, salvo poi allargarsi a splash-page nei momenti di maggiore pathos. Una soluzione grafica ideale per una narrazione intimista, basata su gesti e sguardi, che denota la straordinaria sensibilità compositiva di un grande artista. Ma in Mostri colpisce soprattutto l’ambizione autoriale da cui è permeata, che va ben oltre quel mitico pitch di partenza per una storia di Hulk mai realizzata. C’è il mito di Prometeo che incontra il dramma borghese alla Douglas Sirk, una “pastorale americana” in nero che si incrocia con un momento controverso e oscuro della storia americana, quell’Operazione Paperclip che portò ex scienzati nazisti a lavorare per il governo americano. C’è posto anche per una spruzzata di paranormale, grazie alle capacità medianiche (avremmo detto “mutanti”, se ci fossimo trovati in un fumetto di supereroi) di un personaggio apparentemente secondario che sarà invece di fondamentale importanza per la risoluzione della vicenda.

Mostri è un’opera monumentale giocata su diversi piani temporali, complessa e stratificata che rischia più volte di crollare sotto il peso della propria ambizione, che barcolla a più riprese ma che riesce ad arrivare in porto trionfalmente, commuovendo ed emozionando. È un’epopea popolata da personaggi splendidi come l’indimenticabile Janet, un’opera di struggente, devastante e dolorosa bellezza. Nel suo ritiro quasi ventennale, portando a termine un progetto durato trentacinque anni, Barry Windsor-Smith ha realizzato il lavoro della sua vita, un racconto epico ed allo stesso tempo intimista, un capolavoro di complessità narrativa, spessore psicologico e intensità emotiva che non può lasciare indifferenti. Il grande romanzo americano realizzato ironicamente da un autore inglese che da giovane venne a cercare fortuna artistica in America e oggi, a chiusura di uno splendido cerchio, è doveroso annoverare tra i più grandi maestri della narrativa illustrata dei nostri tempi.

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