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Leo Donnici

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Ridere per sopravvivere: Gintama, il capolavoro perduto di Hideaki Sorachi

  • Pubblicato in Focus

In un panorama saturo di anime che inseguono formule collaudate e protagonisti predestinati, Gintama è sempre stato un’anomalia. Un’irregolarità vivente, una scheggia impazzita dentro il sistema editoriale di Shonen Jump, capace di ridere del proprio editore, dei propri colleghi e di se stesso. È l’opera che ha trasformato il nonsense in linguaggio narrativo e la parodia in filosofia, un progetto nato quasi per caso e diventato, con il tempo, un simbolo di libertà creativa. Hideaki Sorachi ha dato vita a un universo che mescola samurai, alieni, androidi, cabaret e tragedie familiari con la stessa disinvoltura di un autore che non ha paura di essere contraddittorio. E forse è proprio questa incoerenza dichiarata, questa ribellione costante, a rendere Gintama un fenomeno unico nel suo genere.

La storia è nota ma mai banale: in una versione alternativa del Giappone del periodo Edo, la nazione è stata conquistata dagli Amanto, alieni che hanno vietato l’uso delle spade e umiliato i samurai. È un’ambientazione che nasce dal paradosso e ci sprofonda dentro, un mondo in cui la tradizione incontra la fantascienza e in cui la dignità del passato si scontra con l’assurdità del presente. In questo scenario si muove Gintoki Sakata, un ex-samurai dai capelli argentati che sopravvive facendo il tuttofare insieme ai giovani Shinpachi Shimura e Kagura, una ragazzina aliena della potente razza Yato. La loro piccola agenzia, la Yorozuya, accetta qualsiasi incarico pur di guadagnare qualcosa, e ogni lavoro diventa pretesto per un’avventura, una risata o una catastrofe.

Ma Gintama non è mai stato solo una commedia. È un continuo oscillare tra farsa e tragedia, un’opera che svela la malinconia dietro il sorriso. Gintoki è un antieroe pigro, sfrontato, spesso ridicolo, ma profondamente umano. Vive di zucchero e sarcasmo, nasconde il dolore dietro le battute e affronta il mondo con l’unica arma che gli resta: l’ironia. In lui si concentra il tema più profondo dell’intera serie — la resistenza attraverso la leggerezza. Sorachi non racconta eroi che vincono, ma persone che sopravvivono, e lo fa con una naturalezza disarmante.

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L’anime, prodotto da Sunrise e trasmesso da TV Tokyo a partire dal 2006, ha dato corpo e voce a questa follia controllata. In Giappone, il pubblico si è subito diviso: da un lato chi ne amava la comicità demenziale, dall’altro chi non riusciva a incasellarlo in nessun genere. La regia, inizialmente affidata a Shinji Takamatsu e poi a Yoichi Fujita, ha compreso il cuore del manga e lo ha amplificato. L’animazione, pur priva di grandi mezzi, brilla per inventiva e ritmo. È un’opera che sa come far ridere anche con il fermo immagine di un personaggio che guarda in camera, sa come costruire pathos in mezzo al disordine e sa perfino ridicolizzare la propria produzione. Alcuni episodi sono veri e propri meta-manifesti dell’industria: in più di un’occasione, Gintama ironizza apertamente sui problemi interni di Jump o sugli scontri tra staff, arrivando persino a spiegare — dentro la narrazione stessa — i motivi di una pausa o di una censura. Era una forma di ribellione giocosa ma lucidissima, un modo per dire al pubblico che dietro ogni serie ci sono persone, scelte, compromessi. Pochi anime hanno avuto il coraggio di esporre le proprie crepe come Gintama.

In Italia, l’anime è arrivato grazie a Dynit, che ha curato i primi doppiaggi e la distribuzione home video, mentre una parte della serie è stata successivamente trasmessa su Anime Night, l’appuntamento serale di MTV dedicato all’animazione giapponese. Pur non avendo mai raggiunto la popolarità di colossi come Naruto o One Piece, Gintama ha conquistato un pubblico di appassionati grazie al suo humor intelligente e all’originalità del tono. L’autoironia sul doppiaggio, le battute “intraducibili” e le frequenti rotture della quarta parete hanno reso difficile ma affascinante l’adattamento. Ogni versione linguistica di Gintama diventa, inevitabilmente, un’opera a sé.

Il manga, in Giappone, ha seguito una traiettoria altrettanto tormentata. Pubblicato inizialmente su Weekly Shonen Jump nel 2004, Gintama ha goduto di un successo stabile per oltre un decennio, fino a quando, nella sua fase conclusiva, ha iniziato a subire un calo di vendite. Nonostante ciò, Sorachi si è rifiutato di troncare la storia bruscamente. Insieme al suo storico editor Onishi, ha combattuto per ottenere la libertà di concludere l’opera secondo la propria visione. Quando Jump decise di accorciare i tempi, Sorachi spostò Gintama su Jump Giga, una rivista parallela che gli avrebbe dovuto garantire più spazio. Ma la pubblicazione lì durò solo tre volumi: troppo breve per un finale degno. Così l’autore decise di trasferire la conclusione su un’app gratuita, chiudendo infine l’intera saga con il volume 77 nel 2019. È un caso raro nella storia dell’editoria giapponese: un autore che, pur di rispettare la propria idea, trascina la serie da una testata all’altra, resistendo alla pressione del mercato. È un atto di coerenza e affetto verso i lettori, un ultimo gesto samurai da parte di chi i samurai li aveva già raccontati come nessuno.

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Anche in Italia la pubblicazione del manga ha avuto un percorso accidentato. I primi diciotto volumi furono editi da Planeta DeAgostini, che però interruppe la collana per motivi interni. Dopo anni di attesa, la serie è stata finalmente ripresa da Star Comics, che ne ha curato la ristampa e ha reso disponibile anche la parte finale. Un percorso a ostacoli che riflette, in piccolo, la storia stessa di Gintama: complicata, disordinata, ma sostenuta dalla tenacia dei fan.

L’opera di Sorachi vive di paradossi. È una commedia che parla di dolore, un’epopea che si prende gioco delle epopee. Le gag dissacranti e le parodie di altri anime (da Dragon Ball a Attack on Titan) non sono mai solo parodie. Sono il modo in cui l’autore dialoga con la cultura popolare, smontandola e rimontandola con affetto. In un episodio può ridicolizzare l’intero concetto di “amicizia shōnen” e in quello successivo mostrare quanto, in fondo, quell’amicizia sia l’unica cosa che ci tiene in vita. È un equilibrio delicatissimo, che Sorachi gestisce con la naturalezza di un equilibrista consapevole di camminare su un filo sopra il vuoto.

A rendere Gintama così potente è anche il suo cast corale. Ogni personaggio, anche quello che nasce come macchietta, finisce per rivelare una profondità insospettabile. Lo Shinsengumi di Kondo, Hijikata e Okita, ad esempio, passa dal ruolo di spalla comica a quello di protagonista tragico in più di un arco narrativo. Gli antagonisti, come Takasugi o Utsuro, incarnano versioni distorte di Gintoki: sono ciò che il protagonista avrebbe potuto diventare se avesse ceduto al rancore o alla follia. Questa specularità tra bene e male, tra onore e sopravvivenza, dà all’opera una dimensione morale complessa. Gintama non predica, ma osserva. Non premia la virtù, ma la resilienza. Ogni personaggio è imperfetto, e proprio per questo reale.

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Nel corso degli anni, la serie ha saputo crescere con il suo pubblico. I primi episodi sono dominati da un umorismo quasi slapstick, ma man mano che la storia prosegue, l’ironia si fa più consapevole, più legata alla memoria e alla perdita. Sorachi non ha mai nascosto il suo pessimismo verso la società moderna. Dietro il caos di Gintama si intravede un senso costante di disillusione: il Giappone invaso dagli Amanto è la metafora di un Paese che ha ceduto la propria identità culturale alla modernità, e i samurai che sopravvivono ai margini rappresentano l’uomo comune di oggi, schiacciato ma ancora dignitoso. È un’opera che ride di tutto, ma non banalizza nulla.

Tra le figure secondarie più emblematiche c’è Hasegawa Taizō, soprannominato Madao  abbreviazione di marude damena ossan, “un uomo completamente inutile”. Ex impiegato di dogana, perde il lavoro e precipita in una spirale di disoccupazione e fallimenti che lo trasforma in un barbone con gli occhiali da sole sempre storti. Ma dietro la sua comicità disperata, Sorachi costruisce una delle satire sociali più taglienti della serie: Madao rappresenta l’uomo comune schiacciato dal sistema, il lavoratore giapponese che, una volta escluso dalla routine produttiva, perde anche la propria identità. È un personaggio tragicomico che incarna la precarietà esistenziale del Giappone moderno, dove la vita stessa sembra avere senso solo finché si lavora.

Il tono della serie raggiunge il suo apice nella saga finale, trasposta nell’ultimo film, Gintama: The Final (2021). Lì Sorachi chiude un cerchio lungo quindici anni. Il film, prodotto da Bandai Namco Pictures, si presenta come la vera conclusione della storia e riassume tutto ciò che Gintama è sempre stato: un addio comico e tragico allo stesso tempo. C’è azione spettacolare, ci sono morti e rinascite, ma soprattutto c’è una consapevolezza struggente. Gintoki, Shinpachi e Kagura non sono più i buffoni di una serie comica, ma amici che si salutano dopo aver condiviso un lungo viaggio. La pellicola è un omaggio al pubblico e all’autore stesso, piena di autocitazioni e di quella ironia malinconica che è la cifra più autentica di Sorachi. Dopo la fine, resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di irripetibile: una commedia che ha imparato a parlare della vita meglio di tanti drammi.

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L’eredità culturale di Gintama è profonda ma spesso sottovalutata. In patria è diventata un riferimento trasversale, citata da autori comici, youtuber, persino politici. È una serie che ha insegnato a un’intera generazione che si può essere dissacranti e sinceri allo stesso tempo. All’estero ha avuto una diffusione più lenta, ma costante: piattaforme di streaming, community dedicate e progetti di fansubbing hanno mantenuto viva la passione anche dopo la fine della serializzazione. In Italia, la prova più tangibile di questa longevità è rappresentata da iniziative come il podcast Anime d’Argento, interamente dedicato a Gintama. Creato da un gruppo di appassionati italiani, il programma esplora gli episodi, i temi e le curiosità dell’opera con uno sguardo critico e affettuoso, dimostrando come l’interesse per la serie continui a rinnovarsi anche a distanza di anni. È il segno di una comunità che non ha mai smesso di ridere e riflettere insieme ai suoi protagonisti.

Rileggendo o rivedendo Gintama oggi, si percepisce chiaramente quanto fosse avanti rispetto al suo tempo. Sorachi ha costruito una narrazione postmoderna in piena regola, in cui la consapevolezza del linguaggio è parte integrante della trama. I personaggi sanno di essere personaggi, ma proprio per questo diventano più veri. È un gioco di specchi continuo, dove la risata nasce non dall’assurdità del mondo, ma dalla nostra incapacità di accettarlo. In un certo senso, Gintama è un’opera sul mestiere stesso di raccontare: sulla difficoltà di dare un senso a qualcosa che, per sua natura, non ce l’ha.

Quando i titoli di coda dell’ultimo film scorrono e la musica si spegne, resta una sensazione familiare: quella di aver vissuto qualcosa che somiglia terribilmente alla vita. Disordinata, ironica, dolorosa, tenera. Gintama non offre risposte, ma un invito: ridere, anche quando non c’è niente da ridere. E forse è questa la più grande lezione di Hideaki Sorachi: che la comicità non è fuga, ma resistenza. Che la leggerezza, se coltivata con sincerità, è la forma più alta di coraggio.
Tra l'altro, con tutte le proposte di nicchia abbastanza scadenti che abbiamo avuto nel panorama italiano negli ultimi anni, e l'aumento costante del prezzo, Star Comics dovrebbe davvero mettersi una mano nella coscienza a ristampare questo shonen, che merita davvero una lettura da parte di tutti.

4 Words About: Dead Rock 1

  • Pubblicato in Focus

4 Words About, ovvero "Per chi apprezza il dono della sintesi".
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Arriva in Italia la nuova sfida dark-fantasy del Maestro Hiro Mashima, annunciata già da molti mesi. Inizialmente concepita come opera breve, ha ottenuto il successo in patria rapidamente, ed è la sua prima esperienza con il genere "scolastico". L'opera ci porta in un'accademia demoniaca, dove solo i più forti sopravvivono e competono per diventare Re Demoni. Protagonista è Yakuto, un ragazzo ordinario ma determinato ad entrare nell'accademia a qualsiasi costo, cercando di superare persino "Kami" il preside della Dead Rock Academy.
Mashima abbandona i toni più leggeri in favore di un registro più cupo, fatto di prove mortali, competizioni e tradimenti. Il tratto è fluido e marcato, creature inquietanti e worldbuilding che cattura il lettore. Introdotti già molti personaggi, che possono risultare caotici ma tengono l'atmosfera magnetica e ricca di colpi di scena. Insomma, un inizio promettente, da uno dei mangaka più prolifici e amati degli ultimi anni.

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Dati del volume
Editore: Star Comics
Autori: Testi e disegni di Hiro Mashima
Genere: Fantasy, azione
Formato: 11,5x17,5 cm, C., 176 pp., b/n.
Prezzo: 5,50€
ISBN: 9788822659484
Voto: 7

Mitsutoshi Shimabukuro: genio creativo, caduta e ritorno di un mangaka controverso

  • Pubblicato in Focus

Mitsutoshi Shimabukuro è uno di quei nomi che nel panorama del fumetto giapponese evocano immediatamente immagini di banchetti smisurati, creature immaginarie e battaglie al limite dell’assurdo. Autore di Toriko, tra i manga più originali degli anni Duemila, ha saputo unire i codici classici dello shōnen con la cultura gastronomica, creando un universo narrativo unico. Ma la sua carriera non è soltanto una storia di successi: nel 2002 uno scandalo giudiziario ha rischiato di stroncarla per sempre, trasformando il suo percorso in un’altalena tra genialità creativa e giudizio morale, resilienza e caduta, reinvenzione e critica.

Per capire Shimabukuro bisogna partire dalle sue origini. Nato a Naha, Okinawa, nel 1975, cresce in un contesto particolare: la sua terra d’origine non è soltanto una regione periferica del Giappone, ma anche un crocevia culturale segnato dalla presenza di oltre ottocentomila americani, tra militari e famiglie, stabiliti nell’arcipelago. Questo legame con l’America lascia un’impronta profonda sulla sua immaginazione. Da bambino sviluppa una forte passione per gli anime, in particolare per Dragon Ball, che diventa per lui fonte di ispirazione e modello creativo. Quelle montagne rocciose, quei deserti e quelle vallate che Akira Toriyama disegnava con mano inconfondibile, accendono nella sua mente il desiderio di vedere con i propri occhi scenari simili. Non è un caso che uno dei suoi sogni dichiarati sia stato quello di visitare il Grand Canyon, attratto dall’idea che quelle scogliere titaniche potessero assomigliare ai paesaggi di Dragon Ball.
E non sembra un caso  che l'opening di Toriko includa proprio il protagonista stesso che corre tra le rocce come faceva Son Gohan nell'opening di Dragonball Z.

Seikimatsu Leader Den Takeshi

La fascinazione per l’America, respirata sin da bambino, si mescola così al mondo degli anime giapponesi, dando vita a una sensibilità ibrida, sospesa tra Oriente e Occidente. Non è solo una curiosità geografica: è un indizio di quel gusto per la grandezza, per gli scenari smisurati e spettacolari che in seguito avrebbero alimentato l’immaginario di opere come Toriko, dove l’avventura si misura sempre con l’eccesso e la meraviglia.

Da giovane Shimabukuro riesce a entrare nelle pagine di Weekly Shōnen Jump, la rivista simbolo del fumetto popolare giapponese. Il suo primo grande successo è Seikimatsu Leader Den Takeshi! (1997-2002), un manga comico esuberante, che con gag assurde e un protagonista sopra le righe conquista i lettori e gli vale lo Shogakukan Manga Award nel 2001. L’ascesa sembra inarrestabile, ma nel 2002 un arresto per aver pagato una minorenne per prestazioni sessuali mette improvvisamente fine alla sua carriera e segna una frattura durissima nella sua immagine pubblica.

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Per anni rimane nell’ombra, finché nel 2008 non trova la forza e l’occasione per rilanciarsi con Toriko, il manga che lo consacrerà definitivamente. Stavolta abbandona la pura comicità e costruisce un’epopea che ruota intorno al cibo, trasformando ingredienti e piatti in oggetti di desiderio, di lotta e di conquista. I protagonisti sono “gourmet hunters”, cacciatori di creature leggendarie e sapori impossibili, in un mondo che mescola avventura, battaglia e immaginazione culinaria. Le ambientazioni smisurate — montagne impossibili, mari infiniti, foreste dense e giungle inesplorate — riflettono direttamente quella fascinazione per i paesaggi grandiosi che da bambino lo avevano colpito guardando Dragon Ball e sognando il Grand Canyon.

Il manga diventa un successo planetario, con 43 volumi, adattamenti anime, film e videogiochi, e conquista anche un pubblico internazionale. Terminata la serializzazione nel 2016, Shimabukuro non si ferma. Nel 2020 lancia Build King, un manga più breve e meno mainstream, ma ugualmente indicativo del suo talento creativo. La serie propone un mondo in cui le costruzioni assumono vita propria e le architetture diventano veri protagonisti, sostituendo le tradizionali battaglie shōnen con sfide ingegnose e spettacolari. Sebbene non abbia ottenuto la popolarità di Toriko, Build King è stato apprezzato dai fan per l’originalità dei concept, il senso dell’umorismo tipico dell’autore e la capacità di trasformare idee insolite in tensione narrativa. Alcuni critici hanno sottolineato come Shimabukuro riesca a sorprendere anche quando si discosta dal formato classico, confermando la sua predisposizione a sperimentare e reinventarsi senza perdere la sua impronta stilistica.

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La figura di Shimabukuro resta però controversa. Per alcuni rappresenta il genio creativo capace di fondere humour e grandiosità, per altri un autore irrimediabilmente segnato da colpe personali. L’amicizia con Eiichirō Oda, autore di One Piece, e i crossover realizzati insieme dimostrano che, almeno nell’ambiente dei mangaka, il suo talento non è mai stato dimenticato. Ma per il pubblico resta la contraddizione tra la forza delle sue opere e l’ombra di un passato che continua a pesare.

A distanza di più di vent’anni dallo scandalo, Mitsutoshi Shimabukuro rimane una figura complessa, difficilmente riducibile a una sola definizione. Cresciuto tra anime, suggestioni americane e paesaggi titanici, ha trasformato quella passione infantile in opere che esaltano l’eccesso, la sfida e il desiderio. Allo stesso tempo, la sua vicenda personale ricorda che talento e responsabilità non viaggiano mai disgiunti. Forse per questo i suoi manga, oltre a intrattenere, raccontano anche l’ambiguità di chi li ha creati: un autore capace di immaginare mondi immensi, ma inseguito per sempre dalle ombre del proprio passato.
Ciò che ci chiediamo a questo punto è: riavremo mai una ristampa di Toriko, nonostante i continui aumenti di prezzo? Arriverà anche Build King?

Mojuro, recensione: il sequel di Jujutsu Kaisen di Gege Akutami apre le porte a un futuro di magia e alieni

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Dopo il travolgente successo di Jujutsu Kaisen, Gege Akutami torna sulle pagine di Weekly Shōnen Jump con il debutto di Mojuro, una serie che fonde il linguaggio oscuro delle arti occulte con suggestioni di fantascienza. Il primo capitolo, intitolato Special Grade Circumstance, non ha deluso le aspettative dei lettori, portandoli 68 anni avanti rispetto agli eventi della saga originale.

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La narrazione si apre con un evento senza precedenti: l’arrivo di circa 50.000 alieni Simuriani, in fuga da un pianeta ormai in rovina. A bordo della nave madre Naunax, gli extraterrestri chiedono asilo politico sulla Terra. Gli Stati Uniti, dopo un primo contatto, lasciano la responsabilità della trattativa al Giappone: un riconoscimento implicito del peso che gli stregoni continuano a esercitare nello scacchiere mondiali.
Tra i protagonisti spiccano Yuka e Tsurugi Okkotsu, fratelli di dieci e undici anni e nipoti dei celebri Yuta Okkotsu e Maki Zen’in. Orfani dei nonni, recentemente scomparsi di vecchiaia, i due si ritrovano a gestire un’eredità ingombrante: l’anello maledetto di Yuta, passato a Tsurugi per volontà del clan Gojo. La scelta scatena inevitabili tensioni familiari, con Yuka che fatica ad accettare un destino che sente di meritare almeno quanto il fratello.
Mentre la diplomazia si interroga sull’integrazione dei Simuriani, un’altra minaccia scuote la società: rapimenti di bambini e stregoni. Un oscuro traffico sembra muoversi dietro le quinte, pronto a trasformare l’energia maledetta in merce da rivendere. In questo scenario ambiguo fa la sua comparsa Maru, investigatore enigmatico che si rivela essere lui stesso un Simuriano, aprendo nuovi interrogativi sul fragile rapporto tra umani e alieni.

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Il capitolo culmina con un confronto drammatico: i due fratelli Okkotsu vengono travolti dagli eventi e messi di fronte al crimine che insidia la loro epoca. Sullo sfondo emerge la figura di Tsugi, antagonista legato al mercato nero, che tratta gli stregoni come beni di scambio. È il primo assaggio di una lotta che non sarà solo contro mostri o maledizioni, ma anche contro l’avidità e le nuove regole del potere.

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Con tavole dense di atmosfera e un ritmo serrato, Mojuro segna l’inizio di un racconto inedito: non più soltanto il Giappone delle maledizioni, ma un mondo sospeso tra magia e fantascienza, in cui la sopravvivenza degli eredi dei grandi stregoni si intreccia al destino di un’intera razza extraterrestre. Lo stile di disegno, molto dinamico come il suo prequel, strizza anche un po' l'occhio alle prime tavole di Bleach, di cui Akutami è un grande fan.

Una nuova era si apre, e il futuro degli Okkotsu promette di riscrivere ancora una volta le leggi della stregoneria.

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