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Luca Tomassini

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Deadpool: Cattivo Sangue, recensione: il ritorno di Rob Liefeld sul Mercenario Chiacchierone

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Come tutti i campi della vita, anche la critica fumettistica non è esente da luoghi comuni. Chi opera in questo campo spesso si dimentica di quel sense of wonder che contraddistingueva alcune letture della giovane età, puntualmente rinnegate, e sfoglia le pagine di un fumetto con la supponenza di una signora ingioiellata che sorseggia un Martini ad un vernissage. In questo senso, uno dei cliché più abusati del settore è la derisione preventiva e sistematica dell’opera di Robert “Rob” Liefeld, idolo delle folle tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 e oggi considerato il paradigma di tutto quello che c’è di sbagliato nell’industria del fumetto a stelle a strisce. Liefeld non è certo un artista raffinato e non lo è mai stato, ma la sua estetica muscolare e steroidea, così come i suoi personaggi ipertrofici e armati fino a ai denti, hanno segnato un’epoca. Peter David, il grande sceneggiatore di Incredible Hulk, lo apostrofò con il non invidiabile titolo di “Ed Wood dei fumetti”. L’accostamento al re del cinema trash, la cui vicenda umana ed artistica venne immortalata in uno splendido film da Tim Burton, non è peregrina.

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Un elemento che avvicina Liefeld a Wood è sicuramente l'entusiasmo fanciullesco e sincero che attraversa le sue opere, che scivolano però facilmente in un grottesco involontario. Un distinguo è comunque necessario, perché Wood non ebbe mai nel cinema il successo di cui Liefeld ha goduto nei primi anni della sua carriera di disegnatore, tra gli inizi in DC e l’esplosione in Marvel con New Mutants. L’artista fu il capofila, insieme a Todd McFarlane e a Jim Lee, del più profondo rinnovamento grafico del fumetto americano dai tempi di Jack Kirby, tra splash-pages e personaggi che schizzavano letteralmente fuori dalla tavola, abbandonando la rigidità della griglia a schema fisso. Senza contare i numeri: cinque milioni di copie per il primo numero di X-Force, cifre per le quali oggi i proprietari delle fumetterie, da anni in debito di ossigeno, firmerebbero col sangue. Inoltre, si deve al buon Rob l’intuizione che portò alla nascita della Image Comics, la casa editrice sinonimo di qualità oggi acclamatissima, creata da Liefeld nel 1992 con gli altri celebri sei transfughi dalla Marvel. A conti fatti non sono pochi i meriti ascrivibili al creatore di Youngblood, non ultimo quello di aver fornito ad Alan Moore la materia prima per scrivere una delle run metatestuali più celebrate di sempre, lo splendido Supreme. Eppure, Rob Liefeld continua ad essere il bersaglio preferito degli haters del web, che lo impallinano puntualmente ad ogni sua nuova uscita. Nel bene o nel male, l’annuncio di un suo nuovo lavoro fa sempre rumore e non ha fatto eccezione quest’ultimo Deadpool: Cattivo Sangue che segna il ritorno dell’artista in Marvel e alla sua creazione di maggior successo.

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Liefeld fece debuttare il “mercenario chiacchierone” su New Mutants 98 del febbraio 1991, mentre la testata dedicata agli studenti più giovani del Professor Xavier, di cui aveva risollevato le vendite, si stava per trasformare nella più aggressiva X-Force. Il personaggio è un incrocio tra l’Uomo Ragno, con cui ha in comune una certa parlantina e un costume simile, e Deathstroke, il villain della DC avversario dei Teen Titans. Deadpool, al secolo Wade Wilson, ruba subito la scena ai titolari dell’albo e diventa un beniamino dei fan, che ne chiedono a gran voce il ritorno. Il grande salto del mercenario da comprimario a protagonista assoluto avviene dopo la partenza del suo ideatore dalla Marvel, grazie ad autori come Fabian Nicieza, Mark Waid e, soprattutto, Joe Kelly. Ma Cattivo Sangue è un revival a tutti gli effetti, e Liefeld riavvia il nastro ai tempi delle prime apparizioni di Deadpool. Tra flashback e apparizioni di altre creazioni celebri di Liefeld come Cable, Domino, la X-Force e Garrison Kane, Wade Wilson dovrà risolvere il mistero dell’identità di un misterioso avversario che lo perseguita da anni, la cui soluzione potrebbe nascondersi nel passato remoto del mercenario.

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Deadpool: Cattivo Sangue, primo graphic novel dedicato al personaggio, è un divertissment gioioso e fracassone, che riporta le lancette dell’orologio a quegli anni ’90 di cui Liefeld ha saputo senza dubbio cogliere lo spirito, più di celebrati colleghi come Jim Lee, con le sue eroine belle ed impossibili, o il sontuoso ma discontinuo Travis Charest. Approcciare il lavoro di Liefeld con gli strumenti tradizionali della critica è un’operazione che lascia il tempo che trova, oltre ad essere priva di senso. Rob Liefeld non sa disegnare i piedi? Probabilmente. Non sa cosa siano gli sfondi? Senza ombra di dubbio. Eppure l’energia e l’entusiasmo contagioso che sprigionano i suoi disegni è innegabile. È un Liefeld in forma, quello che troviamo in queste pagine: avvertendo probabilmente il clima da occasione speciale, limita al massimo le improbabili distorsioni anatomiche che lo hanno reso celebre, producendo comunque tavole godibilissime e ricche d’azione. Il risultato è quello di un b-movie spassoso ed appagante, soprattutto per l’atmosfera da reunion di cui è permeato: la sequenza in cui Liefeld torna a disegnare Cable e la X-Force a distanza di un ventennio farà scattare l’applauso in tutti i fan dell’epoca. Contribuiscono alla festa Chris Sims e Chad Bowers, che hanno il compito di sceneggiare la trama imbastita da Liefeld, collaborazione che si è recentemente rinnovata negli States con il rilancio di Youngblood.

Convinti che presto o tardi tornerà a far parlare di sé, lasciamo il “caso Rob Liefeld” ad altri approfondimenti e ci congediamo con le parole che Robert Kirkman, creatore di The Walking Dead e suo sostenitore da sempre ha speso in suo favore: “Tutto quello che disegna ha un certo grado di energia in sé. E tutto quel che disegna è interessante, che sia accurato o meno. Molta gente guarda ai disegni di Liefeld e pensa: ai miei occhi questo disegno è sbagliato; ecco, direi che questa gente non ha gioia nell’anima”.

Mad Run #1: Il Dr. Strange di Steve Englehart fra follie e tradimenti

  • Pubblicato in Focus

Benvenuti a Mad Run, nuova rubrica del palinsesto di Comicus che vi accompagnerà attraverso le svolte narrative più folli, inaspettate ed irriverenti del comicdom a stelle e strisce. Compiremo insieme un viaggio a ritroso nel passato, in alcuni casi remoto e in altri prossimo, alla riscoperta di run celebrate o dimenticate che, ad un certo punto, hanno compiuto una svolta narrativa strana ed inaspettata. Una full immersion nel bizzarro che non risparmierà anche celebratissimi autori beniamini del pubblico.

La run di cui parleremo oggi mi riporta alla mente i miei primissimi incontri col meraviglioso universo Marvel di quand’ero bambino. Non avendo ancora imparato a leggere, mi limitavo solamente a sfogliare le pagine di quei meravigliosi, ultimi albi della leggendaria era Corno che si avviava malinconicamente alla conclusione. A volte non ricordo neanche cosa ho fatto la settimana precedente ma ricordo perfettamente l’inverno del 1980, quando mia madre tornò a casa con un numero dei Fantastici Quattro comprato per consolarmi, visto che ero a letto con un bel febbrone. Si trattava del numero 250, “Morte Nella Palude”, e non era una storia particolarmente significativa: in quel periodo la Corno mischiava le storie di Fantastic Four con quelle in solitaria della Cosa tratte da Marvel Two-In-One. Questa qui aveva il pregio di essere il prologo alla saga del Progetto Pegaso e di essere disegnata da un disegnatore dotato di uno stile che rubava l’occhio, un certo John Byrne che di lì a poco sarebbe diventato una star, ma nulla più. Di quegli ultimi numeri de I Fantastici Quattro Corno ricordo alcune chicche, come quella storia disegnata da un giovane Frank Miller con la partita a poker tra la Cosa, Nick Fury e amici ma soprattutto la variegata galleria di comprimari: le atmosfere notturne della Donna Ragno disegnata da Carmine Infantino, la fantascienza del Killraven di Don McGregor e Philip Craig Russell, la Ms. Marvel di Chris Claremont, la terribile prima apparizione di Satana, The Devil’s Daughter, in un raccontino breve a firma Roy Thomas e John Romita Sr. che ben poco s'addiceva alle letture di un bambino di pochi anni.

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Ma tra tutti questi personaggi, ben pochi avevano catturato la mia attenzione come il Dottor Strange, il Maestro delle Arti Mistiche. Stephen Strange era un personaggio in cui la Corno credeva molto così, dopo averlo proposto in appendice al suo primo mensile, L’Uomo Ragno, lo aveva poi inserito nelle testate de I Difensori e di Hulk & I Difensori, per poi finire la sua corsa, prima della chiusura dell’editore milanese, su I Fantastici Quattro. Furono queste ultime le storie in cui mi imbattei, e una in particolare mi si stampò ben impressa nella mente. Quella in cui la fidanzata e apprendista di Strange, Clea, tradisce il buon Dottore che è impegnato a proteggerla da un mago malvagio… con Beniamino Franklin! Scioccato da un simile comportamento, per anni ho rimosso questa storia, capitolo finale della brillante run di Steve Englehart su Doctor Strange… salva vederla riapparire recentemente nel penultimo volume della notevole Serie Oro da edicola dedicata al personaggio. Una caduta nell’assurdo e nel bizzarro tale da meritare l’onore di aprire la nostra rubrica! Esaurita la narrazione delle “origini segrete” di questo redattore, che peraltro non avevate mai richiesto, parliamo un po’ del nostro autore.

Steve Englehart è un nome fondamentale della Marvel degli anni ’70 e non solo, uno dei primi sceneggiatori a guadagnarsi un numero nutrito di fan accaniti (tra cui un giovane Grant Morrison) grazie ad idee non convenzionali e a trovate fuori dall’ordinario. Prima di trasferirsi in casa DC, dove scriverà con successo Batman e Justice League, segna il decennio della Casa delle Idee con alcune run consegnate alla storia: "L’Impero Segreto" e "Nomad" per Captain America, "La Madonna Celestiale" per Avengers e "Una Realtà Separata" per Doctor Strange. L’ultima serie in particolare, realizzata inizialmente insieme al disegnatore Frank Brunner, sembra essere la sede ideale per la fantasia senza limiti di Englehart, aiutata dall’assunzione regolare di LSD e altre sostanze allucinogene. Entrarono nella leggenda le serate a base di acidi di Englehart e Brunner insieme a Jim Starlin, che in quel momento lavorava a Captain Marvel, come raccontato nel fondamentale volume di Sean Howe Marvel Comics: Una Storia di Eroi e Supereroi che ogni vero true believer deve possedere. Se Starlin riversava le conseguenze dei suoi sballi nelle storie cosmiche di Capitan Marvel, Englehart realizzava le storie di Dottor Strange come un trip psichedelico che incarnava lo spirito dell’epoca. Il suo Doctor Strange stava al fumetto come i dischi dei Pink Floyd e di Emerson Lake e Palmer stavano alla musica. La serie gli forniva la possibilità, inoltre, di parlare apertamente dei suoi interessi maggiori: misticismo, occultismo, cabala ed astrologia.

Così, in Doctor Strange 17 dell’agosto 1976, in piena celebrazione del bicentenario degli Stati Uniti d’America, Englehart pensò bene di far compiere un viaggio a ritroso nel tempo a Strange e alla sua apprendista, fidanzata e futura moglie, Clea, alla scoperta della storia del misticismo in America. I due arrivano in un primo momento nella Londra del 1618 dove, dopo aver tramutato i propri costumi in abiti del tempo, fanno la conoscenza di Francis Bacon, filosofo e autore de La Nuova Atlantide.

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Strange è affascinato dalla figura di Bacon come fondatore del misticismo occidentale. Nel loro incontro, lo scrittore confida al mago di aver ricevuto dal re il compito di dirigere il tentativo di colonizzazione del nuovo mondo, allo scopo di creare una società di uomini liberi, utopia che non era mai stato possibile realizzare in Europa. Poco dopo, il convivio viene attaccato da Stygyro, un mago dalle motivazioni misteriose che sembra voler mettere i bastoni tra le ruote alla nascita della nazione americana. Dopo averlo messo in fuga, Strange e Clea ripartono fermandosi questa volta nel 1775, su una nave in viaggio da Londra alle Americhe (Doctor Strange 18). È qui che fanno la conoscenza di Benjamin Franklin.

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Figura fondamentale della Rivoluzione Americana, politico, scienziato, inventore, diplomatico, giornalista, rappresentante eccellente dello spirito dell’Illuminismo, Franklin passò alla storia anche per alcune invenzioni di uso comune, come la stufa, il parafulmine e le lenti bifocali. In più, secondo numerose testimonianze dell’epoca, aveva la fama di essere un accanito donnaiolo, nonostante la sua scarsa avvenenza. Ma Strange è interessato alla figura di Franklin soprattutto come Gran Maestro della stessa Società di filosofi e mistici di cui aveva fatto parte Bacon. I due hanno appena cominciato a confrontarsi quando vengono attaccati da Stygyro. Strange pensa bene di chiudere Franklin e Clea nella stessa cabina e di sigillarla misticamente per la loro sicurezza.

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Non si rende conto di cosa ha fatto! Colpito dalla bellezza di Clea, Franklin si mette subito all’opera per sedurla con parole suadenti. Il tipo ci sa fare! Si vanta pure di non essere un puritano. C’è da dire che negli episodi precedenti, Strange aveva trattato piuttosto male Clea. Messo a dura prova dopo gli scontri con Eternità e Dracula, il Mago Supremo aveva respinto con modi bruschi le attenzioni della sua fidanzata, dicendole di non avere tempo per lei. Certo non avrebbe mai immaginato questi sviluppi, illustrati dalle matite ombrose di Gene "Il Decano" Colan , subentrato a metà run a Brunner. Colan suggerisce con eleganza quello che, per la morale dell’epoca, non può essere mostrato. La cabina si trasforma abbastanza chiaramente in un’alcova. Terminato lo scontro con Stygyro, Strange torna dai due e si rende conto ben presto che sono diventati piuttosto intimi!

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Englehart lascia la serie con questo numero per dissapori creativi. Dal numero successivo subentra al timone dei testi Marv Wolfman, editor della testata e sceneggiatore di Tomb of Dracula. La prima preoccupazione di Wolfman sarà quella di cancellare gli elementi più bizzarri conferiti da Englehart alla serie, togliendole però gran parte del fascino. Anche il tradimento di Clea viene cancellato con un colpo di spugna: viene rivelato che Ben Franklin era in realtà Stygyro camuffato e che tutta la vicenda era un incubo indotto per far vacillare le certezze di Strange. Ma nonostante questo “intervento dall’alto” noi ti abbiamo visto, cara Clea, ti abbiamo beccato!

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È tutto per questa puntata di Mad Run e ricordate: non trascurate mai le vostre fidanzate e, soprattutto, non lasciatele mai sole con affascinanti uomini politici grassottelli dagli appetiti sessuali voraci!
Scrivete pure a Comicus o lasciate un commento sulla nostra pagina Facebook se desiderate un approfondimento sulla vostra mad run preferita.

E fino ad allora, che l’occhio di Agamotto vegli su di voi e vi protegga!
HEY, HO, LET’S GO!

Il kolossal dell'anticipation: gli intrighi che muovono il mondo, la recensione di Ghost Money

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“Le persone come voi fanno parte di quella che chiamiamo la comunità della realtà. Voi credete che le soluzioni emergano dallo studio giudizioso delle realtà percettibile. MA NON È PIÙ COSÌ CHE VA IL MONDO. ORA NOI SIAMO UN IMPERO, E QUANDO AGIAMO CREIAMO LA NOSTRA REALTÀ. E mentre voi questa realtà la studiate – giudiziosamente, certo – noi continuiamo ad agire, creando altre realtà che potrete ricominciare a studiare, ed è così ormai che vengono distribuiti i ruoli. NOI SIAMO GLI ATTORI DELLA STORIA, E A VOI, TUTTI QUANTI VOI, NON RESTA ALTRO CHE STUDIARE QUELLO CHE NOI FACCIAMO”.

Karl Rove, consigliere di George W. Bush, in un’affermazione rivolta al giornalista Ron Suskind del New York Times, estate 2002.

Era indispensabile iniziare questa recensione citando la dichiarazione di Karl Rove, esponente di spicco della controversa amministrazione Bush, riportata in apertura dello straordinario thriller fantapolitico Ghost Money, di Thierry Smolderen e Dominique Bertail, per calarci fin da subito nelle zone d’ombra di questa avvincente bande dessinée, dove nulla è ciò che sembra. Intrighi politici, speculazioni finanziarie, dramma ed avventura per un vero e proprio kolossal a fumetti che, pur ispirandosi a political dramas come le serie tv House of Cards e Homeland, ai best-sellers di Robert Ludlum ed in particolare alla serie dedicata a Jason Bourne, si inserisce invece nel filone del genere anticipation. Gli autori riescono infatti a delineare un possibile futuro prossimo del mondo partendo però dall’attualità del nostro presente, rendendo così plausibili gli sviluppi politici, sociali, economici e tecnologici inseriti nell’opera.

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Ghost Money è stato concepito durante gli anni bui dell’amministrazione Bush e il primo volume, di cinque, uscì nel 2008, all’alba dell’era Obama. Leggendo il bel volume, edito in Francia dallo storico editore Dargaud e proposto in Italia in una veste splendida da Mondadori, non si può fare a meno di restare stupefatti di fronte alla lucida intuizione di Smolderen che già 10 anni fa, mentre il mondo festeggiava il primo presidente colored della storia americana, aveva previsto la difficile gestione del bubbone mediorientale a seguito della scellerata politica estera di Bush, Dick Cheney e Donald Rumsfeld e il conseguente ritorno dei repubblicani, da li ad un paio di lustri, alla Casa Bianca.

In quest’opera ambiziosa, gli autori ci portano un futuro ormai molto prossimo, il 2020. La storia si svolge su due binari, destinati presto a convergere. A Londra Lindsey, una giovane attivista, viene coinvolta in un attentato durante una manifestazione di protesta a seguito dell’elezione del nuovo Presidente degli U.S.A., il repubblicano Burton. L’intervento provvidenziale di un’altra giovane, Chamza, le evita di venire travolta dalla folla terrorizzata. Lindsey viene ben presto colpita dallo charme della giovane, facoltosa studentessa d’economia dalle notevoli possibilità economiche, e se ne innamora. La sua nuova amica la trascinerà nel suo mondo fatto di agi e lusso: tutto grazie ad una misteriosa eredità, lasciatale dalla madre, scomparsa quando la ragazza era bambina. Parallelamente seguiamo le vicende della Caesar’s Hand, una squadra di mercenari senza scrupoli al soldo del governo americano, attivi fin dai tempi dell’attacco in Iraq in seguito alla tragedia dell’11 settembre. Guidati dal risoluto Kendricks, questa milizia viene impiegata per svolgere missioni segrete, di cui l’opinione pubblica non deve essere a conoscenza, compresa la destabilizzazione di Stati ritenuti “strategici” dall’amministrazione americana. Dal giorno successivo all’attentato più tristemente noto della storia moderna, il gruppo di mercenari è sulle tracce del cosiddetto “tesoro dell’11 settembre”, cioè di quegli immensi fondi finanziari scomparsi dalle borse mondiali alla vigilia della tragedia. Chi ha speculato sul quel triste evento? Da dove viene la ricchezza di Chamza? Perché la Caesar’s Hand è sulle sue tracce? E che ruolo potrebbe giocare il misterioso “Emiro delle luci”, leader arabo illuminato che gli U.S.A. hanno interesse a mettere in cattiva luce per poter perseguire i propri interessi?

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Thriller al fulmicotone, condito da un susseguirsi di colpi di scena che lasciano senza fiato, Ghost Money offre un punto di vista “europeo” sulla crisi del Medio Oriente che, fin dall’attacco dell’amministrazione Bush a seguito dell’11 settembre, non conosce sosta né soluzione. L’opera ha il merito di affrontare un argomento così scottante senza incorrere nell’emotività retorica, nazionalistica e patriottica tipica di tanta fiction a stelle e strisce. Lascia senza parole la naturalezza con cui Smolderen tratta questioni politiche e finanziarie e il modo in cui le padroneggia, riuscendo allo stesso tempo a proporre un racconto avventuroso assolutamente godibile e comprensibile anche al lettore non avvezzo al genere. Geopolitica, oscuri movimenti finanziari: è un mondo di zone grigie, quello descritto dall’autore, dove la storia segreta del mondo si fa in ristretti circoli, dove ci si arroga il diritto di decidere del destino del mondo e delle vite degli innocenti in nome di un presunto “interesse nazionale” che in realtà non porta beneficio a nessun popolo se non a piccoli gruppi di lobbisti e politici corrotti. Corrosive e puntuali le stoccate nei confronti delle amministrazioni americane che hanno destabilizzato intere aree geografiche per i loro interessi con effetti nefasti che la storia del mondo deve ancora inquadrare e decifrare.

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Alla sceneggiatura densa di temi, trame e sottotrame, corrispondono le tavole altrettanto dense e ricche di dettagli di Dominique Bertail, che fa esplodere davanti agli occhi del lettore pagine di inconsueta bellezza. Splendida la resa visiva di una tecnologia del domani che è già nel nostro presente, dalle vetture ai vari gadget in possesso dei personaggi, l’ideazione di edifici che sembrano usciti dallo studio di un architetto di grido, lo storytelling adrenalinico che non ha nulla da invidiare ad un lungometraggio di Bond o Bourne. L’artista si è recato personalmente a Shangai, Dubai e in altre capitali dove la storia è ambientata allo scopo di ricreare con assoluta precisione queste città su carta, sintomo di un’etica del lavoro non comune. Notevole è anche la versione italiana dell’opera, curata da Mondadori per la sua neonata collana Oscar Ink: un cartonato di grande formato, con un rapporto qualità/prezzo assolutamente convincente. Ghost Money si impone come una delle più belle sorprese a fumetti di questo 2017, una lettura avvincente ed estremamente attuale e profetica visto l’esito delle recenti elezioni presidenziali americane, già vaticinato da Smolderen nel lontano 2008.

La recensione di Spider-Man: Homecoming

  • Pubblicato in Screen

“Cazzo! Hanno messo un costume anche a lui? Non ci posso credere” esclamava Riggan Thomson, alter-ego di Micheal Keaton nel superbo Birdman di Alejandro Gonzalez – Inarritu, nel prendere atto che attori del calibro di Robert Downey Jr. e Jeremy Renner sono da tempo tra i volti più rappresentativi dei cinecomic. L’origine della fama dello stesso Keaton si deve, d’altronde, alla sua interpretazione del Cavaliere Oscuro di Gotham City in quel Batman di Tim Burton, datato 1989, che può essere considerato il primo, grande successo di massa dell’era moderna per un adattamento cinematografico di un personaggio dei fumetti. Se la grande prova dell’attore di Beetlejuice nel film di Inarritu era stata letta da tutti come il tentativo di prendere le distanze dal genere che gli aveva dato il successo, la sua presenza in Spider-Man: Homecoming, terza versione cinematografica delle avventure del Tessiragnatele di casa Marvel in 15 anni, ha destato un certo scalpore fin dal suo annuncio. D’altra parte, la consapevolezza di poter contare sulle qualità di un veterano come Keaton per la parte del villain, donava certezze ad un progetto sulla cui bontà sono state nutrite fin dall’inizio dubbi e perplessità, visto che esce a soli tre anni di distanza dall’ultimo capitolo del fallimentare dittico a firma Marc Webb – Andrew Garfield.

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Le vicende che hanno portato alla nascita di questa terza iterazione della saga di Peter Parker, dopo quelle di Sam Raimi e di Webb, sono note: la necessità da parte della Sony di continuare a girare film con protagonista l’Uomo Ragno per non perderne i diritti di sfruttamento cinematografico e la presa d’atto, dopo l’esito non soddisfacente degli ultimi due film, di dover chiedere l’aiuto di chi il Ragno lo conosce bene. Da qui l’accordo, siglato dalla dirigente Amy Pascal con Kevin Feige per la cessione dell’aspetto creativo ai suoi Marvel Studios, mentre la produzione e la distribuzione sarebbero rimasti saldamente in mano alla Sony. In sostanza, a Feige e soci spettava la scelta del “tono” della pellicola, degli interpreti, nonché del regista, un condottiero capace di condurre la nave in porto. Ora che arriva finalmente sugli schermi, com’è questo Spider-Man: Homecoming? Ci sono cose che ci hanno convinto ed altre meno.

Diciamo subito che a livello stilistico si tratta di un tipico “prodotto Marvel Studios”, rispettoso del materiale di provenienza ma capace di non prendersi troppo sul serio. Il marchio del Marvel Cinematic Universe è ben impresso dalla solita, carismatica presenza di Robert Downey Jr./Tony Stark, qui nel ruolo del mentore del giovane Peter Parker. La storia, inoltre, prende le mosse dalle vicende del primo film degli Avengers, datato ormai 2012, di cui è una diretta conseguenza. L’approccio scelto dagli sceneggiatori John Francis Daley e Jonathan M. Goldstein è quello del teen movie alla John Hughes, il regista specializzato in commedie adolescenziali peraltro evocato in una scena del film, quando Spider-Man, durante un inseguimento, ruzzola nel giardino di una villetta dove viene proiettato Una pazza giornata di vacanza, film dell’ 86 con Matthew Broderick diretto proprio da Hughes. E come in un film del regista di Breakfast Club, il setting ideale è quello del liceo: è qui che ritroviamo Peter Parker, ragazzo del Queens, che vive le sue giornate tra la scuola, dove non è certamente tra in ragazzi più popolari, e la vita con sua Zia May, con la quale divide un appartamento in uno squallido condominio di periferia. Quello che la zia non sa è che Peter è segretamente Spider-Man, l’amichevole Tessiragnatele di quartiere che ha già vissuto un’ avventura con gli Avengers in Captain America: Civil War e che dovrà tornare in azione quando la città verrà minacciata dai loschi traffici di Adrian Toomes, contrabbandiere di tecnologia aliena lasciata incustodita durante la battaglia di New York del film del 2012 e di cui si è servito per trasformarsi nel temibile Avvoltoio.

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Se ci sono cose, in Homecoming, che finiranno per conquistare anche gli spettatori più scettici, una di queste è sicuramente la prova di Tom Holland, viso acqua e sapone e modi da bravo ragazzo. Il giovane attore riesce a trovare una propria via per portare sullo schermo un personaggio iconico e amato come Peter Parker, evitando di esasperarne sia una goffaggine che nell’interpretazione di Tobey Maguire era spesso scivolata nel grottesco, sia di indugiare nell’autocompiacimento emo tipico della versione di Andrew Garfield. Questo Parker è un ragazzo di periferia come tanti, che prova un incontenibile sense of wonder di fronte alle meraviglie di cui è costellata la sua nuova vita: un eroe springsteeniano della classe operaia, come lo definisce Tony Stark con una battuta fulminante e azzeccata che ha fatto scoppiare l'applauso in sala. E vederlo volteggiare al ritmo di Blitzkrieg Bop dei Ramones è francamente irresistibile. Michael Keaton dona spessore ad ogni scena che lo vede protagonista, dando vita ad un villain carismatico e rapace, come l’animale a cui si ispira. L’Avvoltoio, nelle storie classiche di Stan Lee e Steve Ditko, era il secondo criminale affrontato dall’Uomo Ragno e la scelta del regista Jon Watts e dei suoi collaboratori non avrebbe potuto essere filologicamente più corretta. Un applauso al dipartimento degli effetti speciali e alla costume designer Louise Frogley per la resa del personaggio, un riuscitissimo mix tra la versione classica, richiamata dalla pelliccia intorno al collo, e un moderno look da aviatore che coglie l’essenza predatoria del villain. Spettacolare, d’altronde, è anche la resa del costume del Tessiragnatele, mai così vicino alla sua controparte cartacea, in particolare alla versione classica di John Romita Sr., di cui riprende alcune espressioni iconiche grazie all’idea, semplice ma geniale, di far muovere le lenti della maschera dell’eroe come se facessero parte dell’obiettivo di una macchina fotografica.

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Buona prova anche quella del cast di supporto, a partire dai giovani compagni di scuola di Peter Parker tra tutti spicca Jacob Batalon nella parte di Ned Leeds, simpatica spalla di Peter, che nulla ha però a che fare col classico personaggio di Lee e Ditko ma sembra essere derivato piuttosto dal Kong creato da Brian Micheal Bendis e Mark Bagley in Ultimate Spider-Man, il remake delle avventure del Ragno aggiornato agli anni 2000 firmato dalla coppia di autori ormai 17 anni fa. Lo spirito dell'opera di Bendis e Bagley aleggia fortemente sulla pellicola, di cui sembra essere stata l'ispirazione principale. La classe di Peter è formata da un melting pot razziale del tutto coerente con la composizione sociale di un quartiere popolare come il Queens. Tra gli altri, citiamo Tony Revolori, già visto in Grand Budapest Hotel, nella parte di Flash Thompson, e Zendaya nella parte di Michelle, protagonista di un rumor finora non confermato che continuerà, c'è da scommetterci, a suscitare grandi polemiche tra i lettori storici del fumetto. Piacevole ma ininfluente ai fini della trama la presenza di Marisa Tomei nella parte di Zia May, personaggio storico opportunamente ringiovanito vista la giovane età di Peter nella pellicola.

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La sceneggiatura di Daley e Goldstein, a cui ha contribuito, tra gli altri, lo stesso Jon Watts, scivola via gradevolmente tra momenti spettacolari e divertenti, spingendo decisamente sul pedale della commedia. Per volontà dei produttori le origini di Spider-Man non vengono mostrate nuovamente: se la scelta è da comprendere, perché una terza versione delle origini in 15 anni sarebbe stata irricevibile, finisce comunque per togliere spessore alla pellicola. Ricordiamo che la storia di Peter Parker è una storia di potere e responsabilità, di errori e di conseguenze: tutti nodi che dovranno essere affrontati nei prossimi capitoli della serie, per non allontanarsi troppo dallo spirito del personaggio. La trama, non dovendo soffermarsi su elementi già visti in precedenza, è funzionale al collocamento del personaggio nell'affresco del Marvel Cinematic Universe. in questo senso, la nuova pellicola ragnesca si differenzia nettamente da quelle che l'hanno preceduta diventando a tutti gli effetti un nuovo capitolo del grande serial cinematografico Marvel.

Nonostante i dubbi derivanti dal suo scarso curriculum, che conteneva solamente i poco visti Clown e Cop Car, la prova di Jon Watts può considerarsi più che buona. L’insidia, per ogni regista che presta la propria opera ad un film targato Marvel, è sempre quella di venire assorbito da un processo produttivo più grande di lui che uccide sul nascere ogni vocazione autoriale, vedi il caso Edgar Wright/Ant-Man, finendo per essere risucchiati nel flusso narrativo di un universo cinematografico che rischia di livellare ogni talento. Ci sono almeno due momenti di grande cinema nel film, che segnalano il talento di Watts. Il primo è la scena del salvataggio al monumento di George Washington. Il secondo, che rivela la provenienza del regista dal thriller, è quello in cui Keaton e Holland sono in macchina insieme, in borghese, e il villain è attraversato dal dubbio circa la vera identità del ragazzo. Il volto dell’uomo è illuminato dalla luce rossa del semaforo, che si fa verde quando Toomes non ha più dubbi. Una piccola sequenza d’autore estratta da un blockbuster estivo che fa ben capire che, pur contenti del “ritorno a casa” del Ragno, il rinnovato franchise di Spider-Man potrà avere un futuro solo se lasciato libero di trovare la propria voce, per quanto all’interno del Marvel Cinematic Universe.

Nato dalla collaborazione di Sony Pictures e Marvel Studios, Spider-Man: Homecoming sarà diretto da Jon Watts ed è previsto per il 6 luglio 2017. Alla sceneggiatura troviamo John Francis Daley e Jonathan M. Goldstein (Vacation) mentre il protagonista della pellicola sarà Tom Holland. Nel cast anche Marisa Tomei (Zia May), Zendaya (Michelle), Laura Harrier (Liz Allen), Tony Revolori (Flash Thompson), Jacob Batalon (Ned Leeds), Robert Downey Jr. (Tony Stark/Iron Man), Michael Keaton (Avvoltoio), Kenneth Choi, Michael Barbieri, Donald Glover, Logan Marshall-Green, Martin Starr, Isabella Amara, Jorge Lendeborg Jr., Hannibal Buress, Abraham Attah, Angourie Rice, Martha Kelly e J.J. Totah. Il film sarà inserito nel MCU.

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