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Pacific Rim: recensione

Pacific-Rim-Poster1Guillermo del Toro è uno strano regista. Ad eccezione dello splendido Il labirinto del fauno e forse La spina del diavolo, nessuno dei suoi film può dirsi completamente riuscito, almeno a detta dell’autore di questo articolo. D’altra parte, nessuna opera da lui diretta può nemmeno dirsi veramente brutta; lavori come Hellboy e Mimic sembrano fondarsi su una sfrenata immaginazione visionaria, che però non riesce mai a sposarsi con uno script all’altezza. La tendenza a trascurare una sceneggiatura compatta e curata in nome della visionarietà è una caratteristica comune a molti registi di cinema fantastico: il primo Tim Burton, i cui film erano sicuramente più interessanti di quelli realizzati nella seconda metà della sua carriera, aveva fatto di questa tendenza quasi un manifesto di stile, ispirato, almeno a parole, ai film di Mario Bava. Burton, tuttavia, era riuscito a compensare le carenze di scrittura dei suoi film “coprendole” con atmosfere delicate e crepuscolari, che più di qualsiasi altra caratteristica avevano contribuito a conferire al regista di Burbank la fama di “malinconico poeta dei freak”. Per del Toro, che nella sua carriera non sembra aver rigorosamente sposato nessuna poetica in particolare, questa operazione non sembrava, fino a questo momento, possibile. Non che del Toro sia stato finora un regista di scarsa importanza: al contrario, molti recenti film horror realizzati in produzioni o co-produzioni spagnole (talvolta sotto la guida dello stesso del Toro, come nel caso del recente La Madre) sono evidentemente influenzati dal suo approccio visivo. Tuttavia, l’influenza di del Toro sul cinema fantastico sembrava finora, appunto, limitata all’estetica, e allo stile particolarissimo con cui i suoi fantasiosi mostri erano realizzati. Del Toro sembrava un regista in cerca di una sua strada, e forse a questa immagine contribuiva anche l’enorme quantità di film da lui opzionati e (fino a questo momento) mai realizzati, da Frankenstein a Pinocchio alla trasposizione lovecraftiana de Le montagne della follia. Pacific Rim, almeno sulla carta, sembrava finalmente l’occasione giusta perché del Toro facesse il salto di qualità: una colossale produzione, potenzialmente di grande successo, fondata su un’idea (robot giganti contro mostri giganti!) a dir poco curiosa. Operazione riuscita?

Seguono SPOILER.

In un futuro prossimo, la Terra è stata sconvolta dalle incursioni dei Kaiju, mostri colossali emergenti da una faglia interdimensionale sul fondo dell’Oceano Pacifico. Per combatterli, l’umanità ha creato un esercito di Jaeger, robot alti come grattacieli, ognuno comandato da una coppia di piloti interconnessi a livello neurale. Uno dei più importanti manovratori di Jaeger, Becket (il Charlie Hunnam di Sons of Anarchy), sembra aver gettato la spugna dopo la morte del proprio co-pilota, e fratello, nel corso di una battaglia contro i Kaiju. Ma quando le offensive dei mostri si cominciano a intensificare e sembra che gli invasori interdimensionali stiano per lanciare un ultimo, fatale attacco, il vecchio superiore di Becket (interpretato, come sempre con grande efficacia, da Idris Elba) lo richiama in servizio. A lui si affiancheranno una aspirante pilota giapponese con un vecchio conto in sospeso coi Kaiju, una coppia di scienziati eccentrici, e uno squadrone di nuovi commilitoni per guidare l’ultima linea difensiva dell’esercito Jaeger.

La prima caratteristica che balza agli occhi di Pacific Rim è, ovviamente, l’enorme nerdismo che sembra caratterizzare tutta l’operazione. Il film è in pratica un sontuosissimo omaggio ai vecchi film di mostri di Godzilla e Gamera (diversi Kaiju hanno un’escrescenza sulla fronte simile a una lama, come il mostro Guiron di King Kong contro Godzilla del 1969) e ai manga incentrati sui “robottoni” in stile Mazinga e Daitarn 3. Se da un lato è insolita e per certi versi ammirevole l’intenzione di riprendere e attualizzare un immaginario così classico (e a dirla tutta, spesso così kitsch), dall’altro rende più difficile un’analisi obiettiva della pellicola. Il nerdismo è un’arma pericolosa e potenzialmente deleteria: una furbesca strizzata d’occhio per corteggiare lo spettatore appassionato del genere può far levitare la valutazione di un film mediocre, così come un omaggio garbato può irritare il fan, o in questo caso l’otaku, più fanatico e oltranzista e indurlo a stroncare una pellicola. La cura riservata alle citazioni e al rispetto nei confronti dei film originali non sono caratteristiche né necessarie né sufficienti per la valutazione positiva di una pellicola, quindi nel caso di questa recensione ci si limiterà a prendere atto che sì, il film si rifà a opere storiche e manga classici; sì, ci sono un sacco di città devastate dalla furia dei mostri; e sì, i robot usano armi improbabili, compresa una spada gigante e un transatlantico usato a mo’ di randello. Se questo è quanto si chiede a Pacific Rim, c’è.

Al di là di queste considerazioni, c’è da dire che purtroppo nemmeno questa volta del Toro è riuscito a creare il capolavoro (come film di fantascienza, o come film di mero intrattenimento) che ci si poteva aspettare; o almeno, tale non risulta adesso, all’indomani della sua uscita. “Capolavoro” è un termine usato quasi sempre a sproposito, e l’importanza di un film nella storia dell’immaginario può essere veramente constatata solo a parecchi anni di distanza dalla sua proiezione nelle sale, un po’ come il pregio di un vino invecchiato. È possibile che tra qualche anno Pacific Rim risulti possedere quella qualità particolare, quell’elemento in più che solo contraddistingue i veri capolavori. Al momento, e cercando di non farsi sviare da quella componente nerdistica di cui si diceva più sopra, questa caratteristica sembra assente.

Non che Pacific Rim sia brutto: è un buon film, con qualche punta ottima, e sicuramente migliore della media dei film di intrattenimento americani degli ultimi anni. Alcune sequenze sono molto divertenti, in particolare le colossali battaglie: tutte ottimamente coreografate e non prive di ironia, ma spesso talmente convulse che molta della cura dedicata alla creazione dei Kaiju e degli Jaeger finisce per andare sprecata. Inoltre - come purtroppo era lecito temere, visti i precedenti del regista - se da un lato c’è un’attenzione enorme dedicata agli scontri, dall’altro alcuni dei spunti potenzialmente più originali vengono sì accennati, ma poi lasciati cadere. Sarebbe stato interessante, ad esempio, analizzare con maggior cura l’evoluzione di una civiltà umana in seguito agli scontri con i Kaiju: la sequenza nel “Ghetto delle ossa” con protagonista l’attore feticcio di del Toro, Ron Perlman (che prevedibilmente si ritaglia il personaggio più riuscito di tutto il film), è piena di affascinanti echi ballardiani che però non sono mai davvero approfonditi nel resto della pellicola. Anche l’”alienità” dei Kaiju e del loro mondo, pieno di tecnologie “membranose”, è solo suggerita (o rimandata a un sequel che però allo stato attuale degli incassi non sembra molto probabile); e tutto sommato anche l’elemento cyberpunk sotteso al funzionamento degli Jaeger, che pure nella pellicola ha un peso importante, è trattato in maniera abbastanza convenzionale.

pacific-rim-poster-imageCosì come sono convenzionali anche le dinamiche secondo le quali si muovono molti dei personaggi. Ci sono un po’ tutti i cliché dei film di fantascienza dell’ultimo decennio, dallo scienziato picchiatello che funziona come comic relief, al protagonista tormentato che deve superare le proprie paure, e che - involontariamente? - sembra avere qualche debito con Top Gun. Va detto, comunque, che neppure uno dei personaggi è odioso e, anche se quasi nessuno di loro è davvero approfondito, sono tutti discretamente caratterizzati (anche se, come al solito, gli eroi secondari risultano quasi tutti più interessanti dei protagonisti). La sceneggiatura, comunque, è solo funzionale allo svolgimento della storia, senza essere particolarmente articolata o ricca; e non è priva di forzature.

A margine, va notata una curiosa caratteristica, molto probabilmente involontaria ma che è difficile non notare: il patriottismo. Anche se nel film si sottolinea a più riprese che nel mondo di Pacific Rim le nazioni hanno superato le proprie differenze per creare una specie di governo mondiale, praticamente tutti i ruoli decisivi sono svolti da americani. I piloti russi e cinesi sono personaggi insignificanti, massacrati dai Kaiju in quattro e quattr’otto. Tutti o quasi gli eroi positivi sono statunitensi, mentre i ruoli più “ruvidi” sono riservati a comprimari provenienti da paesi anglofoni ma non americani (il matematico nevrotico Gottlieb, che è inglese pur avendo un nome tedesco, e l’antipatico pilota australiano Hansen). L’unica eccezione è la giapponese Mori, che però - oltre a essere la figlia adottiva del personaggio di Elba, che nel film sembra essere americano nonostante la nazionalità inglese dell’attore - sembrava quasi una presenza obbligata vista la radice “nipponica” del film. Non c’è il nazionalismo becero dei Transformers, ma certo questo squilibrio pare curioso, visti i presupposti di trama.

Tutto sommato, Pacific Rim sembrerebbe un episodio, godibile e divertente pur senza essere eclatante, nella storia del cinema fantastico. Ma c’è un ultimo elemento che va preso in considerazione, un fattore che allo stato attuale delle cose non è facile quantificare ma che potenzialmente potrebbe, in futuro, elevare il film a uno status più alto di quello che i suoi reali meriti cinematografici imporrebbero. Gli ultimi grandi capolavori del cinema fantastico d’intrattenimento sono stati quasi tutti realizzati negli anni ’80: film come I predatori dell’arca perduta, Ritorno al futuro, o Labyrinth, si distinguono e si elevano nei confronti di opere analoghe realizzate nei decenni successivi, in nome dell’evidente amore che i loro realizzatori riservavano al materiale su cui lavoravano. Quando Joe Dante realizzò Gremlins, lo fece con un piglio quasi artigianale, come se stesse intagliando un balocco per un bambino; e questo rispetto, che è quasi impossibile rilevare in modo razionale ma non si può non avvertire, è una delle caratteristiche vincenti del primo film della bilogia sui mostriciattoli, quella che lo pone parecchie spanne al di sopra di un Pirati dei Caraibi qualsiasi. Film Pixar come Up e Ratatouille hanno questa forza; e, con tutti i suoi difetti, ce l’ha anche Pacific Rim. Del Toro sembra uno dei pochi registi in circolazione ancora disposti a credere nella potenza immaginativa del cinema fantastico, e l’abbandono quasi infantile, assolutamente onesto, con il quale è ancora disposto ad assecondare le proprie visioni (una caratteristica che invece Tim Burton sembra avere perso ripiegando su una ripetitiva “maniera”, almeno nei suoi film a budget più alto) fa guadagnare a Pacific Rim un punto in più. Ed è lecito rinnovare la fiducia in del Toro per la prossima fase della sua carriera.

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