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Alessandro Di Nocera

Alessandro Di Nocera

La Destra ha bisogno di eroi...

  • Pubblicato in Focus

...ma non sa come procurarseli e non gli servono quelli che già ha.

camerata_cortoLa notizia è ormai nota: l’associazione d’ispirazione sociale (e di matrice fascista) CasaPound ha promosso a Roma, il 14 gennaio 2011, un incontro dal titolo “Camerata Corto Maltese”, excursus sulla vita e sulle principali opere di Hugo Pratt che ha visto gli interventi di Maurizio Cabona (redattore de “Il Giornale”) e di Roberto Alfatti Appetiti (giornalista de “Il Secolo d’Italia”), moderati da Domenico Di Tullio (avvocato penalista, autore del libro "Nessun Dolore - il romanzo di CasaPound").

Una “provocazione”, come tendeva a mettere in evidenza il comunicato stampa relativo all’evento, aggiungendo poi una serie di affermazioni: “Artefice del proprio destino, padrone di se stesso, ironico, beffardo, ma fedele al senso dell’onore e al valore dell’amicizia: sono questi gli elementi che fanno di Corto Maltese un ‘camerata’.”
Parlare di provocazione, in questo caso, è un po’ come tirare il sasso e poi nascondere la mano o, fuor di metafora, come sparare una batteria di corbellerie intendendole poi far passare per delle pure goliardate. Perché anche solo pensare che un personaggio come Corto Maltese (e alle sue spalle, ovviamente, il suo creatore Hugo Pratt) possa essere considerato un chiaro veicolo di idee fasciste o – come si vorrebbe far credere oggi – di una “Destra avanzata”, rappresenta davvero una pretesa tanto balzana quanto indimostrabile.

Sgombriamo subito il campo da equivoci: che un'icona della grandezza di Corto Maltese (e che un cartoonist immenso come Pratt) siano considerati anche patrimonio della Destra non può che essere un bene. Che CasaPound possa avergli dedicato un incontro, è altrettanto positivo.
Ma le “provocazioni” possono avere senso, funzionano, se esiste un effettivo terreno di ambiguità su cui giocare. E in questo caso “Camerata Corto Maltese” suona esattamente come “L’ateo Dante Alighieri” o “Il religioso Stalin”: vale a dire una castroneria che, se non supportata da nuovissimi, inoppugnabili documenti può generare solo risa di scherno. E, in questo caso, inutile dirlo, non esistono documenti inoppugnabili, tutt’altro: sono reperibili solo tracce che portano in una direzione del tutto divergente. Non di Sinistra, forse, ma comunque agli antipodi di qualsiasi cosa possa definirsi “pensiero di Destra”.
A questa prima recriminazione ne va poi aggiunta un’altra più sostanziale: fuor di “provocazione” o “goliardata” che dir si voglia, Maurizio Cabona e Roberto Alfatti Appetiti sono DAVVERO convinti che Hugo Pratt sia stato un esponente culturale della Destra e che la sua creazione Corto Maltese avvalori questa teoria.
Cabona (autore del libro “Perdenti di Successo”, Edizioni Il Bargello, 1998) si rifà spesso e volentieri alle memorie di Silvina Pratt, figlia di Hugo, raccolte in una mediocre e discutibilissima biografia (“Con Hugo”, Marsilio, 2008), già all’epoca dell’uscita criticata aspramente da alcuni autorevoli studiosi del fumetto nonché dai conoscitori dell’opera di Pratt e delle interviste da lui rilasciate. Anche Alfatti Appetiti trova nelle parole di Silvina Pratt, prendendole come oro colato, la conferma che Hugo possedeva un’anima destrorsa, e, così come fa Cabona, dimostra – isolando sprazzi di dichiarazioni del maestro di Malamocco, estraendo ad hoc suoi particolari biografici, travisando titoli e contenuti di alcune sue opere – di possedere l’abilità di un giocoliere.
Scorrendo articoli e testi disponibili sul web scritti dai due giornalisti e dai blogger di Destra che a essi fanno riferimento, emergono così assunti deliranti che vanno dalla sovrapposizione facilona tra il personaggio di Corto Maltese e il suo autore alla continua messa in risalto del breve ingresso di un Pratt adolescente nella X MAS; dalla fascinazione provata dal cartoonist per le divise militari alla pretesa che “Le Celtiche” (titolo di un’antologia di racconti di Corto Maltese ambientati nelle isole britanniche) lasci intravvedere una precisa fede fascista (sic!).

Sembra a questo punto quasi inutile affermare che Cabona, Alfatti Appetiti & Camerati assortiti difettano in maniera palese dell’ABC riguardante la conoscenza dell’opera prattiana. Dalle due più note e immediatamente disponibili interviste al cartoonist veneziano – quella contenuta in “Corto come un romanzo” di Gianni Brunoro e quella presentata ne “L’avventurosa storia del fumetto italiano” di Renato Genovese – l’unico elemento che sono stati capaci di estrapolare è una risposta esemplare di Pratt circa l’ostracismo riservatogli dalla Sinistra francese che lo accusava di essere disimpegnato e di non prendere posizione politica in un momento in cui si ricercavano “messaggi” chiari.
Si tratta di un lungo commento, chiaramente ironico e disincantato, che mi piace qui riportare: “La parola avventura fu messa al bando. Non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo. Bisognava rispolverare Marx ed Engels, autori che mi annoiarono immediatamente. Venni subito accusato di infantilismo, di fascismo e di edonismo, ma soprattutto di essere evasivo, inutile come quegli scrittori che mi piacevano e che avrei dovuto dimenticare. Non ci riuscii e mi accorsi che c’erano parecchi altri che leggevano i narratori contestati. Alla fine ci riconoscemmo come una élite desiderosa di essere inutile”.
Ora, a parte il fatto che, come lo stesso Pratt fa rilevare, fu proprio la Sinistra la prima a tacciare il cartoonist di essere fascista (esattamente come in Italia accadeva, per esempio, al cantautore Lucio Battisti, “colpevole” di parlare solo di sentimenti, senza dedicare nulla all’impegno) ciò che più lascia sconcertati è che dallo stesso contesto biografico e di pensiero in cui appaiono queste sue parole emergano altre, inequivocabili considerazioni che illuminano a giorno la questione (venendo trascurate ad arte dagli intellettuali di Destra).
La prima, in risposta a una domanda su quali fossero gli eroi più belli degli ultimi decenni: “Che Guevara. Un personaggio che è stato un romantico e un avventuroso. E con lui dovremmo cercarne altri alla sua altezza, tra quei popoli e quelle minoranze che cercano la propria identificazione storica e si trovano in situazioni politiche strascicate e difficili”.
La seconda – che, ancora di più, non lascia adito a interpretazioni – a proposito della militanza di Corto Maltese nella Guerra di Spagna del 1936: “… Mi sembra giusto farlo finire con la Guerra di Spagna, perché credo che questa guerra, con le Brigate Internazionali, sia stata l'ultima guerra romantica: c'erano uomini che partivano per una guerra fatta di ideali, di giustizia, in una ricerca di libertà forte e appassionante. Mi sembra giusto che il Corto finisca qui la sua storia”.

cortoSe poi ci si addentra nel corpus del Ciclo di Corto Maltese, le “pretese” della Destra crollano del tutto. Confrontando la biografia dell’autore veneziano con quella fittizia del suo personaggio, la sovrapposizione/identità Pratt-Corto Maltese viene immediatamente meno.
Se a diciassette anni Pratt ambiva a entrare nella X MAS (avvenimento che fa brillare gli occhi tanto a Cabona quanto ad Alfatti Appetiti), Corto, alla stessa età, era amico intimo – durante gli ultimi scampoli del conflitto Russo-Giapponese – dello scrittore “socialista” Jack London. Mentre, all’inizio degli anni Venti, il nonno materno di Hugo fondava i Fasci di Combattimento veneziani, Corto, nel racconto “Favola di Venezia”, scappa dalle squadracce per non aver inneggiato al Duce. E così via.

I blogger di Destra non ne azzeccano una nemmeno quando non si parla di Corto Maltese, ma di altre creature prattiane. Clamoroso il caso dell’utente di CaffèNero, blog de Il Cannocchiale, quando, per esempio, afferma, sempre allo scopo di dimostrare che Pratt era di Destra: “… È arcinoto che l'editore di Tex, Sergio Bonelli, allineato a Sinistra, seguendo la corrente gli chiedesse nei ‘favolosi '70’ un albo per la serie ‘Un uomo un avventura’ che fosse ‘anti-imperialista’. Il massimo che Pratt riuscì a fare, dopo molte tergiversazioni fu un albo dedicato ai cangaçeiro, sorta di guerriglieri legittimisti legati all'ultimo Imperatore del Brasile, Dom Pedro de Bragança, esautorato da un colpo di stato messo in atto dalla borghesia brasiliana, ampiamente anticlericale e massonica. I cangaçeiro furono per certi versi simili ai briganti filoborbonici ‘legittimisti’ o ai ‘sanfedisti’”.
E il tutto viene esposto con nonchalance, omettendo di ricordare che il presunto “sinistrorso” Sergio Bonelli aveva a sua volta reso i cangaçeiro protagonisti di una delle primissime avventure del suo Mister No.

In conclusione, in una società come quella italiana che sbanda pericolosamente verso lidi reazionari, la questione che nasce dal tentativo di appropriazione da parte della Destra di un autore e di un personaggio che non lo sono affatto diventa di cruciale importanza, in quanto specchio di una vera e propria azione sotterranea di colonizzazione dell’immaginario italiano.
Lasciar passare impunemente l’idea che un personaggio come Corto Maltese sia di Destra significa consentire ai picconatori della Storia di sferrare un ulteriore colpo a un edificio sempre più in bilico.
La Destra italiana è a caccia di eroi e di icone spendibili per l’affermazione del proprio potere, nel tentativo di assumere una definitiva egemonia culturale sul Paese. Ma, accorgendosi di non possederne, tenta di dimostrare che invece gli eroi “conservatori” sono sempre esistiti senza che nessuno se ne fosse mai accorto.
Non è così.
La Destra nostrana potrebbe fregiarsi di eroi riconoscibili (il James Bond di Ian Fleming, quasi tutti i personaggi di Frank Miller, giusto per fare un paio di esempi): solo che non gli fanno comodo, non sono spendibili, non sono italiani. E si è stancata di sbandierare il solito Tex, aprendo la “compravendita” di personaggi più ecumenici e – nella mente della sua intellighenzia – culturalmente elevati.
Bisogna stare attenti. E molto, pure. Perché quello che sembra un giochetto da niente nasconde intenti ben più astuti e belligeranti.

Planetary vol. 4: Archeologia spaziotemporale

Ci sono voluti ben dieci anni per vedere alfine completato l’ambizioso affresco di "Planetary".
Era infatti il 1999 quando vedeva la luce – per la purtroppo scomparsa etichetta Wildstorm di Jim Lee – il primo numero di questa collana tesa, attraverso la narrazione avventurosa, a operare una profonda riflessione sulle fondamenta dell'immaginario letterario popolare. E sul modo in cui esso confluisce nell'universo mediatico del nuovo millennio.
Ogni episodio di “Planetary” corrisponde pertanto a un assunto critico che, al di là dell’intreccio specifico della saga, proietta il lettore in un originale percorso di conoscenza rivolto a mostrargli le progressive sedimentazioni pop che alimentano le fantasie e le varie visioni del mondo della civiltà "di massa".

Non è un caso, quindi, che il ciclo di Planetary si apra mettendo in scena una loggia composta dai principali eroi dell’epoca pulp (i corrispettivi di The Shadow, Doc Savage, Tarzan, ecc.), mostrandoci progressivamente come lo sviluppo del XX secolo li abbia relegati nel limbo della memoria. E questo mentre le redini dello sviluppo del pianeta Terra venivano prese in mano, sempre in maniera occulta, dal gruppo dei Quattro (macabra parodia dei Fantastici Quattro di Stan Lee e Jack Kirby).
L'allegoria a questo punto diventa chiara: i Quattro – che simboleggiano l'immaginario della Guerra Fredda e la spinta dell'aggressivo sviluppo economico tardo-capitalista – iniziano a collezionare innumerevoli, avanzatissime scoperte tecnologiche e scientifiche che, però, non hanno nessuna intenzione di condividere col resto del genere umano. Ed è contro di loro che si schierano gli straordinari componenti di Planetary (Elijah Snow, Jackita Wagner, the Drummer e Ambrose Chase), archeologi dell'impossibile che cercano di tracciare la storia segreta del mondo.

Nel corso degli anni il ciclo di Planetary (raccolto dalla Magic Press in quattro paperback e destinato a essere completato anche nella grande e preziosa versione Absolute) ha omaggiato tutti i generi narrativi possibili e immaginabili: dalla fantascienza degli anni Cinquanta ai Kaiju Eiga nipponici; dall'avventura pulp alle acrobazie hard boiled dell'heroic bloodshed; dallo space-fantasy della Golden e della Silver Age alle pellicole wuxiapian; dalle comic-strip di Buck Rogers e Flash Gordon ai fumetti della linea Vertigo. Ma il progressivo prolungarsi dei tempi di realizzazione della serie, causato dai problemi personali incontrati da Warren Ellis, ha fatto perdere di vista ai lettori l'obiettivo ultimo della collana: il necessario recupero e l'esaltazione della "biodiversità" dei generi narrativi, troppo spesso schiacciati e sovvertiti dalla logica delle mode imperanti o della cultura dominante.

Non per niente i perversi Quattro, in Planetary, fanno di tutto per distruggere le tracce di un universo art déco che sembra fuoriuscito dalle illustrazioni di Winsor McCay o di Alex Raymond, oppure si impegnano a massacrare, in un altro racconto agghiacciante, delle creature le cui origini riportano alla memoria quelle di Superman, Lanterna Verde e Wonder Woman. Se solo si pensa, giusto per agganciarci a quest'ultimo esempio, al modo in cui la DC Comics, a partire dai primi anni Duemila, ha operato per riesumare e vivificare i fondamenti basilari e semidimenticati del proprio grottesco e surreale universo narrativo, proteso invece per circa tre lustri a inseguire affannosamente le tendenze realistiche dettate dalla continuity targata Marvel Comics, si può solo dedurne che il progetto di Ellis e John Cassaday era assolutamente premonitore.
Per lo sceneggiatore scozzese e l’illustratore texano, infatti, la sfida "immaginativa" del nuovo secolo dovrebbe essere quella di riconquistare l'intero patrimonio narrativo "di genere" del passato (considerando qualsiasi forma grazie alla quale esso si è accresciuto), per rivisitarlo alla luce della contemporaneità scientifica, sociale e culturale. E per far questo bisogna abbattere gli ostacoli generati dalle strutture mentali ed emotive che hanno formato il XX secolo.

Ma veniamo allo specifico del volume "Archeologia spaziotemporale" che raccoglie appunto gli albi dal 19 al 27 (il capitolo conclusivo) di Planetary.
Si apre con una superba, immaginifica sequenza spaziale dove Ellis e Cassaday visualizzano un mondo contenuto in una gigantesca astronave. Qui, in un ecosistema perfettamente equilibrato, giace il cadavere di una creatura che potrebbe corrispondere al Galactus della Marvel Comics (una vera e propria fissa dello scrittore britannico, che già una volta, nell'iconoclasta Ruins, aveva concepito un divoratore di mondi ormai cadavere. Tra suggestive teorie scientifiche e affascinanti creature aliene, l'arte di Cassaday deflagra letteralmente in tavole ariose e immagini mozzafiato.

Segue "Telemetria da macchina di morte", un racconto che punta a correggere il tiro su un assunto precedente della serie: quello cioè che non esiste un aldilà e che tutto si esaurisce con la fine della vita materiale. E si tratta di un bel cambiamento di rotta, considerando che questa prima visione filosofica ha trovato modo di riversarsi in parecchia narrativa britannica fino a pervadere addirittura, in maniera inedita, un serial TV di grande successo come "Torchwood", prodotto dalla BBC.
Ellis rivede quindi, con un abile escamotage, la sua idea primigenia – che effettivamente, azzerando il "mistero ultimo" dell'oltretomba, rendeva incoerente le finalità interne della saga – e individua nell'universo subatomico il luogo in cui l'energia collegata agli esseri viventi trasmigra. Il che fornisce l'occasione a Cassaday di prodursi in rappresentazioni lisergiche e ipnotiche di ciò che si cela oltre la morte.

Il quarto capitolo, "La tortura di William Leather", omaggia Lone Ranger e Tonto, i personaggi western creati da George W. Trendle e Fran Striker per un popolarissimo show radiofonico statunitense datato 1933. Ellis coglie così l'occasione per ideare una linea di contiguità tra il cowboy mascherato, The Shadow (altro grande protagonista dei programmi radiofonici pretelevisivi) e uno dei malvagi Quattro (il corrispettivo della Torcia Umana, per la precisione).
"Percussione", il quinto episodio del volume, mette in scena le origini di The Drummer, membro dell'organizzazione Planetary il cui potere consiste nell'asorbimento e nella trasmissione fisica di dati informatici. Il sesto, invece, apre il confronto finale di Elijah Snow & compagni contro i componenti più pericolosi dei Quattro. E la risoluzione del conflitto avviene, non a caso, con una trovata narrativa apparentemente semplicistica, ma che in realtà rende un commosso omaggio alle conclusioni a sorpresa che caratterizzavano molti racconti di genere fantastico della Golden Age.

Il volume si chiude, poi, con l'epico tentativo operato dal gruppo Planetary di riportare indietro Ambrose Chase dalla dimensione in cui si era perduto. Ellis getta così nuova luce su Fiction World, un universo concreto – traente origine, però, dalla materializzazione di concept narrativi – la cui scoperta teorica, seguita dal relativo tentativo di penetrazione in esso, era stata al centro di uno dei momenti culminanti della saga. Ellis e Cassaday si scatenano a esporre azzardatissime teorie quantistiche e a visualizzare paradossi spaziotemporali. Il risultato dà vita a una sequenza concettualmente ardita che si ricollega in maniera esemplare alle nuove tendenze della fantascienza, quelle che, per intenderci, ambiscono a coniugare la New Wave di Michael Moorcock e Harlan Ellison al cyberpunk di William Gibson, Bruce Sterling e Rudy Rucker. Planetary finisce, così, per trovare un degno posto accanto a favolose epopee letterarie come quella racchiusa nel dittico "Ilium" e "Olympos" di Dan Simmons o in "Anathem" di Neal Stephenson.

Malinky Robot

Futuro prossimo venturo, bassifondi di Tokio: nel quartiere di San'ya, luogo dove convergono i reietti della capitale giapponese, si aggirano due ragazzini di strada, Atari e Oliver, sempre in cerca di un modo per sbarcare il lunario o per far trascorrere un tempo altrimenti immobile.
Nel microuniverso di San'ya l'avvenire, con tutte le sue meraviglie (specie mutanti, robot di servizio, videogame e mezzi di comunicazione d’ultimissima generazione), è ormai memoria in via di disfacimento, come dopo una Grande Depressione. Ciò fa sì che Atari e Oliver – pur assomigliando nelle fattezze ai personaggi di mangaka come Hayao Miyazaki o Katsuhiro Otomo – riportino in realtà alla mente i piccoli protagonisti delle comiche anni Venti-Trenta di Hal Roach (le famose "simpatiche canaglie"), pervasi, però, da un'aura profondamente elegiaca.

San'ya e i piccoli "scugnizzi" che ne attraversano in lungo e in largo le vie popolose e incasinate, sono i protagonisti di Malinky Robot, graphic novel diviso in quattro atti che, pubblicato per la prima volta in Francia dalle Editions Paquet e ora in Italia dalla casertana Lavieri, ha vinto il premio per il miglior fumetto all'importante Utopiales SF Festival di Nantes.
L'autore, il malese Sonny Liew, ha studiato dapprima in Inghilterra, a Cambridge, e poi negli Stati Uniti, alla Rhode Island School of Design, sotto la guida di David Mazzucchelli. Il suo stile guarda, oltre alle firme più note del manga nipponico, tanto a un maestro delle comic-strip come Bill Watterson (Calvin & Hobbes), quanto a geni dell'illustrazione come Dave McKean o Geoff Darrow. E colpisce per il tratto morbido e delicato, nonché per una ricerca cromatica che punta a tonalità calde e malinconiche.

Liew, che per il suo lavoro grafico è stato candidato all'Eisner Award (con Wonderland, scritto da Tommy Kovac), ha collaborato con alcune tra le principali major del comicdom USA (la Disney, la DC Comics) arrivando ad adattare per la Marvel Comics il romanzo "Ragione e Sentimento" di Jane Austen. Ma Malinky Robot resta, al momento, la sua opera più intima e personale, un gioiello minimalista, tutto giocato su ricercati anticlimax, capace di rievocare le migliori pagine illustrate della letteratura per l'infanzia, rivestite però di vibrazioni adulte e inquiete.

In Malinky Robot, Liew si azzarda addirittura a giocare come non mai con la storia e i linguaggi dei comics, inventandosi intere sequenze narrative dove gli eventi vengono strutturati come tante parti di una vecchia, classica pagina a fumetti di un quotidiano americano. Oppure come un comic-book supereroistico. Il risultato è uno straordinario esercizio metatestuale che omaggia, in ordine sparso, Richard F. Outcault, Gary Larson (The Far Side), Chester Gould, Charles Schulz, Mort Walker (Beetle Bailey) e – paradossale ma vero – le fragorose storie del gruppo Image.

Un piccolo omicidio

Alla fine degli anni Ottanta Alan Moore – letteralmente travolto dal successo riscosso da V for Vendetta, Watchmen e Batman: The Killing Joke, ma già in rotta di collisione con le major del fumetto statunitensi – decide di operare un distacco netto dai personaggi in maschera e dal genere supereroistico. Con una mossa coraggiosa (o da folli, dipende dai punti di vista), in un momento cruciale per la sua carriera di sceneggiatore, lo scrittore di Northampton si allontana pertanto dalle certezze del mainstream e va ad imbarcarsi in una serie di operazioni narrative ardite e sperimentali.

È in questo periodo che vedono la luce i prodromi della saga pornografica Lost Girls (completata solo molti anni più tardi) e – attraverso un movimento consequenziale – l’idea di base per La Lega degli Straordinari Gentlemen. Ma, soprattutto, è in questo periodo che Moore cerca di sganciarsi dai vincoli del fantastico per addentrarsi nelle pieghe del reale, deformato e reinterpretato attraverso le coscienze di una selva di personaggi disturbanti nel loro minimalismo intriso di devastanti sommovimenti psicologici.
Prendono, così, il via l’imponente e torbida epopea di From Hell – snodo cruciale per comprendere le significative trasformazioni dell’immaginario di Moore nel corso degli anni Novanta – ma, prima ancora, l’incompiuto affresco di Big Numbers (nel quale si riversano echi di Thomas Pynchon e J.G. Ballard) e l’immaginifico romanzo di formazione e redenzione Un piccolo omicidio.

Sviluppatosi attorno a una serie di suggestioni concettuali e visive espresse a Moore dall’artista argentino Oscar Zarate, Un piccolo omicidio rappresenta un chiaro spartiacque nello stile narrativo dello scrittore britannico. Viene infatti meno, per la prima volta, la predominanza assoluta di una sua sceneggiatura, a favore degli interventi determinanti dell’illustratore. Zarate, cioè, amplia i confini testuali della storia introducendo eventi non previsti da Moore (e accettati solo dopo articolate discussioni) e sbizzarrendosi in soluzioni grafiche che amplificano la forza evocativa della vicenda.
Il risultato è un’opera in quattro capitoli che – in maniera più o meno conscia – tenta di trasporre nel medium fumettistico quelle tematiche postmoderne che, nella seconda metà degli anni Ottanta, avevano pervaso la letteratura anglosassone e occidentale grazie a scrittori come Ian McEwan (Bambini nel tempo), Martin Amis (Money e La freccia del tempo), Jay McInerney (Le mille luci di New York) e Bret Easton Ellis (Meno di zero). Timothy Hole, il protagonista della storia, è un rampante pubblicitario alle soglie della quarantina in procinto di giungere al culmine della sua carriera, ma tormentato dai fantasmi della memoria e del passato. Un passato che gli si materializza davanti agli occhi assumendo l’aspetto allegorico di un bambino carico di risentimento. Inizia così per Timothy un’odissea personale che lo costringe a viaggiare a ritroso negli anni per affrontare le conseguenze delle sue azioni e delle sue scelte, quasi tutte dettate dalle regole dell’egoismo, della convenienza, della superficialità, del materialismo, del conformismo sociale.

Ci sono voluti quasi vent’anni – a causa di vari ostacoli legati ai percorsi lavorativi di Zarate – perché Un piccolo omicidio ricevesse anche in Italia una degna edizione in volume (dopo essere stato serializzato, a cavallo tra il 1991 e il ‘92 sulla storica rivista "Corto Maltese") con tanto di introduzione di Carlos Sampayo e un'ampia appendice-intervista a Moore e Zarate curata da Jaime Rodriguez. Eppure è proprio grazie all’operazione editoriale condotta dalla Magic Press (la quale, per l’occasione, ha commissionato a Zarate una copertina inedita per il libro) che è possibile oggi apprezzare il valore consistente e inalterato di un’opera che, al suo esordio, aveva invece raccolto tiepidi consensi.
Ambientato in un’epoca dove in Occidente imperavano il tatcherismo e il reaganismo, volani politici di una visione del mondo fondata sul dominio del mercato e sui valori dell’apparenza (il mondo degli yuppie e dell’esaltazione delle griffe), Un piccolo omicidio appare quanto mai attuale nella sua critica feroce a una società alienata, incapace di rifondarsi su nuove forme di rapporto umano.

Ė quasi impressionante constatare come il personaggio di Timothy Hole sia invischiato in una solitudine esistenziale che non dovrebbe, invece, trovare posto in uno spazio vitale come il suo, incentrato su un mestiere creativo basato sulla comunicazione e sui messaggi. E in questo, Un piccolo omicidio è incredibilmente vicino allo spirito contemporaneo di un magnifico serial televisivo come "Mad Man" (guarda caso, ambientato nel mondo della pubblicità, con un protagonista che fugge da se stesso e da un'infanzia desolata) o di un film come "Revolutionary Road" (che mette in scena il disfacimento di un sogno polverizzato dalla quotidianità, dalle esigenze di guadagno, dalle prospettive di carriera).
Il lavoro di Moore e Zarate si impone ancora oggi con forza all’attenzione del lettore anche grazie a un sapiente, ricercatissimo uso delle parole e dei registri linguistici (vertiginosi flussi di coscienza, cut-up di dialoghi che emergono all’interno di scene di massa, parti colloquiali dove il botta & risposta spesso si perde nel rumore dell’informazione) e a un’arte fluida, dinamica, capace di miscelare in modo inconsueto varie tendenze pittoriche del XX secolo.

Nelle sue tavole ariose, sature di cromatismi freddi e/o contrastanti - Transavanguardia e movimento Fauves, insieme - Zarate sovrappone i soggetti distorti di George Grosz ai design glaciali del Gruppo Valvoline; applica le alterazioni prospettiche dei quadri naif a paesaggi suburbani o di campagna che sembrano mutuati dalle opere di Edward Hopper; trasforma il convulso movimento di una serata metropolitana – ma anche la scia di un treno lanciato a tutta velocità in una galleria o la corsa di un automobile su un’autostrada deserta –  in una tensione di figure e linee che guarda al Futurismo di Umberto Boccioni; salta da Amedeo Modigliani alla Pop Art senza soluzione di continuità.

Un piccolo omicidio rappresenta, insomma, un laboratorio disperso e ora, per fortuna, ritrovato di esperienze artistiche in movimento, al servizio di un racconto tanto immaginifico quanto solido e chiaro nel suo percorso “in flashback”. Un’opera dove anche l’apparente lieto fine si carica di tenebrosi riverberi difficili da rimuovere a lettura ultimata.

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