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Antonio Ausilio

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Catwoman: città solitaria, recensione: la prova di maturità di Cliff Chiang

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Ecco quella che si dice una sorpresa inaspettata. Che Cliff Chiang fosse un bravissimo disegnatore, lo sapevamo fin dalla sua run di Wonder Woman scritta da Brian Azzarello, o, più di recente, dall’ottimo lavoro fatto nella maxiserie Paper Girls della Image, realizzata in coppia con Brian K. Vaughan. Ma che l’artista possedesse anche notevoli doti da narratore, sin qui tenute nascoste (se si escludono rare storie brevi, di cui pochi conservano memoria), era qualcosa molto difficile da immaginare. Almeno fino all’arrivo in libreria di Catwoman: città solitaria. Anzi, dopo aver letto l’opera in questione, viene persino da chiedersi perché il disegnatore americano non abbia provato a cimentarsi prima con la scrittura per quanto, in questo momento, ci interessi di più capire quando sarà possibile rivedere Chiang nuovamente in azione come autore completo. Sarebbe, infatti, un vero peccato se un simile talento dovesse andare sprecato.

Pubblicata negli USA dalla DC Comics sotto l’etichetta Black Label, Catwoman: città solitaria è una miniserie in quattro parti ambientata in un futuro non troppo lontano in cui Selina Kyle, ormai ultracinquantenne e appena uscita di prigione, torna in una Gotham City decisamente cambiata rispetto al passato. Guidata dal sindaco Harvey Dent, apparentemente libero dalla maledizione di Due Facce (sebbene ancora sfigurato in volto), la metropoli, dove un tempo imperversavano criminali e freak di ogni tipo, è diventata una delle città più sicure d’America, complice soprattutto il drastico giro di vite imposto a seguito della sanguinosa Notte dei Folli di dieci anni prima, risultata fatale non solo per il Joker – la mente dietro il tragico evento – ma anche per Batman, Nightwing e il commissario Gordon. Proprio in punto di morte, il Cavaliere Oscuro aveva chiesto a Catwoman di fare ritorno alla Batcaverna, citando un nome: Orfeo. Selina, però, arrestata subito dopo, non era riuscita a portare a termine l’incarico, con la conseguenza di sentire nascere dentro di lei un forte senso di colpa, acuito dal duro ambiente carcerario. Rimessa in libertà, ma ancora ossessionata da quell’ultima parola pronunciata da Batman, decide di vestire di nuovo i panni del suo alter ego mascherato e di coinvolgere vecchi alleati nella soluzione del mistero di Orfeo.

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Graphic novel dal clima crepuscolare, che omaggia a piene mani Il ritorno del Cavaliere Oscuro (a partire dai cinquantacinque anni dichiarati dalla protagonista, gli stessi di Bruce Wayne nel capolavoro di Frank Miller), Catwoman: città solitaria impiega, tuttavia, poche pagine per dare prova di saper vivere di luce propria. Se infatti il parallelismo tra la Selina Kyle piegata dal tempo trascorso in prigione e da inevitabili limiti fisici dovuti all’età (che le impediscono di apparire come la spericolata antieroina della continuity ufficiale del personaggio) e il disilluso e tormentato Batman di Miller risulta piuttosto evidente, Chiang cerca fin dall’inizio di non far sprofondare la trama nella cupezza e nella paranoia della miniserie culto del 1986. Oltretutto, benché l’artista di origini asiatiche non aggiri in alcun modo la metafora politica (onnipresente ne Il ritorno del Cavaliere Oscuro), il racconto assume progressivamente altre caratteristiche, con toni da commedia sempre più marcati e uno stile che, mixando brillantemente supereroismo e heist drama, si discosta nettamente dalla disperante distopia immaginata dal creatore di Elektra.

È, però, la sceneggiatura nel suo complesso a rendere la miniserie di Chiang un’opera capace di soddisfare anche lettori particolarmente esigenti, con dialoghi di gran classe che, nonostante i frequenti cambi di registro, mutano di gradazione con sorprendente naturalezza, passando dalla solarità e dallo scherno degli intermezzi più scanzonati, all’intimismo e alla malinconia di quelli dove invece prevale la riflessione o il dramma. C’è pure spazio per un po’ di romanticismo old style e addirittura per un citazionismo nostalgico che, lontanissimo dal fan service di maniera, tanto di moda negli ultimi anni, testimonia il sincero rispetto dell’autore verso il glorioso passato dei personaggi. Chiang si dimostra anche abilissimo nel saper bilanciare i tempi scenici, non soltanto alternando di continuo i momenti di tensione con altri più giocosi, ma pure impostando la trama in modo che all’inizio siano l’introspezione e i pensieri dei protagonisti a essere privilegiati, con ampi passaggi dedicati ai rimpianti e ai ricordi dolorosi - che, per quanto prevedibili, diventano gli elementi necessari a inquadrare la vicenda e a comprendere gli eventi successivi - per poi schiacciare il piede sull’acceleratore, in un crescendo di intensità lento, ma costante, fino all’attesa resa dei conti finale. Solo l’ingresso di Etrigan ci è sembrato un po’ pretestuoso e, per certi versi, privo di reale utilità all’economia della storia, sebbene, con ogni probabilità, esso rappresenti un ulteriore richiamo a quella mitologia DC assai cara all’artista americano.

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Sempre riguardo alla sceneggiatura, sarebbe imperdonabile non fare il minimo accenno alla magistrale caratterizzazione dei personaggi. A cominciare naturalmente da Selina, che Chiang immagina come una donna indurita dagli anni e dalle pesanti sconfitte morali subite nel corso della vita, ma ancora orgogliosa e indomabile. Un character con cui è impossibile non empatizzare, destinato a restare a lungo nella memoria dei lettori. Tanto quanto i principali comprimari, tra i quali un Killer Croc in versione totalmente inedita (in grado di regalarci sia i passaggi più divertenti della serie, che quelli più melodrammatici) e una determinatissima Poison Ivy, per nulla resa meno riottosa dai chili di troppo accumulati con l’età. Particolarmente riuscita anche l’idea di dipingere l’Enigmista come un simpatico e affascinante mascalzone, che oltre a contrastare nettamente con il perverso e spietato assassino mostratoci recentemente da Tom King (maggiormente in linea con l’ultima incarnazione cinematografica del personaggio), contribuisce attivamente a mantenere la vicenda su binari meno foschi e tenebrosi.

Scontata, infine, in un contesto del genere, la forte voglia di riscatto di gran parte dei protagonisti che, se per alcuni significa trovare una maniera per indirizzare la propria esistenza verso una nuova direzione - a costo di rinnegare un passato eroico, divenuto persino quasi ingombrante –, per altri vuol dire semplicemente recuperare la dignità perduta pur nella consapevolezza delle estreme conseguenze che questo comporterebbe. Sentimenti e fragilità del tutto umani, che l’autore riesce a mettere spesso in evidenza, senza mai contraddire l’impostazione avventurosa del racconto.

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A ogni modo, benché sia molto appagante parlare del Chiang scrittore, non possiamo di sicuro trascurare il Chiang disegnatore, dato che questa miniserie ne certifica ancora una volta le grandi capacità artistiche (il buon Cliff, tra l’altro, si è occupato in prima persona anche dei colori). Il suo segno inconfondibile, che unisce mirabilmente la ligne claire franco-belga all’iconica essenzialità del DC Animated Universe (limitando, però, al minimo le derive cartoonesche) e che riporta la pop art alle sue radici fumettistiche, sfrutta nella maniera migliore possibile la simbiosi con i testi, costruendo tavole con gabbie a variabilità continua (al punto da impiegare le splash page con notevole parsimonia), lavorando diligentemente sull’abbondanza - o sull’assenza - di dettagli nelle vignette e studiando con cura le inquadrature e i primi piani al fine di legare indissolubilmente la narrazione allo scorrere delle immagini. Inoltre, la linearità e la pulizia del tratto o la geometria regolare e solo parzialmente spigolosa delle sue forme, non penalizzano in alcun modo l’espressività dei personaggi né riducono l’energia della storia che, sebbene non raggiunga l’esplosività delle chiassose saghe Image dei primi anni Novanta, non può certo dirsi priva di dinamismo.

Opera accolta da critiche entusiastiche negli Stati Uniti e valorizzata qui da noi da un’ottima edizione da parte di Panini Comics (un cartonato con sovracoperta-poster, nel consueto formato maggiorato delle nuove produzioni Black Label), Catwoman: città solitaria è un volume che non può mancare nelle librerie di tutti gli appassionati di Batman, ma neppure in quelle di chi si professa un semplice cultore del fumetto di qualità. Perché - credeteci - nella miniserie di Chiang di qualità ce n’è davvero tanta.

Il Pinguino, recensione: Tom King scava nel passato di Oswald Cobblepot

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Terminata la lettura de Il Pinguino (due cartonati confezionati con la consueta cura da Panini Comics, che raccolgono i dodici numeri della maxiserie dedicata all’alter ego di Oswald Cobblepot, pubblicata negli USA tra il 2023 e il 2024) viene spontaneo chiedersi che cosa abbia fatto la DC per meritarsi un autore come Tom King. La domanda non nasce da qualche forma di antipatia verso la casa editrice di Superman e Batman, ma piuttosto dalla semplice constatazione che da parecchi anni le due major del fumetto d’oltreoceano (un discorso identico si potrebbe fare anche per la Marvel) non rappresentano più il punto d’arrivo di tanti sceneggiatori e disegnatori affermati. Forse, l’essere stato incluso nel team creativo che si occuperà del nuovo universo cinematografico DC, capitanato da James Gunn, ha giocato un ruolo determinante nelle scelte professionali dello scrittore americano, ma, paradossalmente - Love Everlasting a parte - la sua firma ha cominciato ad apparire su alcuni progetti creator owned (Animal Pound, Helen of Windhorn) solo dopo aver ricevuto quell’incarico. A nostro avviso, invece, è più probabile che il buon Tom abbia deciso di proseguire la sua esperienza presso l’editore californiano, perché ancora sinceramente entusiasta di poter gestire molti dei suoi storici character.

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Non che la cosa ci dispiaccia, comunque, vista l’altissima qualità con cui King continua a impreziosire le sue opere. Una qualità che, neanche a dirlo, ritroviamo nella serie del Pinguino, la quale non solo assolve al compito di riportare nel mondo di Batman (dopo essere stato messo provvisoriamente fuori gioco da Chip Zdarsky nei primi episodi del suo ciclo, sull’omonima testata del personaggio) uno dei suoi iconici nemici, ma prosegue l’egregia azione di approfondimento - e per certi versi di rinnovamento - delle personalità di questi ultimi, che l’autore statunitense ha iniziato con l’Enigmista, nell’ottimo one shot che ha inaugurato la collana Batman: una brutta giornata (ristampata di recente da Panini in edizione cartonata) e continuato con il Joker, in alcuni numeri della nuova incarnazione di The Brave and the Bold, di pochi mesi fa. In ognuno di questi lavori, King scava nel passato dei personaggi, mostrandoci risvolti parzialmente o totalmente inediti, cercando una spiegazione della loro deriva criminale, evitando tuttavia di commettere l’errore di portare i lettori a empatizzare con essi. Con le dovute differenze e sfumature – che dimostrano come lo scrittore abbia ormai una conoscenza così profonda delle nemesi più importanti del Cavaliere Oscuro, da potersi permettere il lusso di introdurre in loro qualche cambiamento, senza che questi ne modifichino in alcun modo l’essenza -  i tre villain vengono rappresentati come irrimediabilmente malvagi e spietati, benché per il Pinguino non sia trascurato il suo forte desiderio di rivalsa verso una società che, a causa dei suoi difetti fisici, lo ha sempre tenuto ai margini. Non è un caso che Stevan Subic, l’artista chiamato a illustrare i due capitoli della saga ambientati nel passato – che ricostruiscono, in una lunga digressione dalla vicenda principale, l’ascesa di Cobblepot da semplice barista dell’Iceberg Lounge a capo della malavita di Gotham City – ritragga l’antagonista di Batman in maniera grottesca, estremizzandone l’aspetto “freak”. Al contrario di Rafael De Latorre, il disegnatore titolare della serie, che, invece, pur non smorzando la figura sgraziata del personaggio, ne limita la deformità, lasciando spazio solo alla sua bassa statura e alla sua obesità. In questo modo, diventa più credibile la trama elaborata da King che vede il Pinguino ricattato dall’agente federale Nuri Espinoza per costringerlo ad abbandonare Metropolis – dove, dopo essere stato “esiliato” dai figli Aiden e Addison, si era rifatto una vita da normale cittadino – e tornare a Gotham City, al fine di reimpossessarsi del suo impero criminale. Primo passo per portare il Crociato Incappucciato davanti alla giustizia, nel piano perverso che la cinica (per usare un eufemismo!) Amanda Waller, superiore diretto dell’agente Espinoza, ha ordito contro tutti i superumani (un anticipo del crossover Absolute Power, che presto vedremo anche in Italia).

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Tolta questa premessa – ennesima stoccata dello scrittore verso l’opacità delle agenzie governative americane, che nasce dai suoi trascorsi alla CIA (un’esperienza di cui, evidentemente, non ha ancora smaltito le tossine) – la serie procede inizialmente attraverso l’ingresso di nuovi comprimari a ogni episodio, tutti necessari al Pinguino per restaurare il suo potere a Gotham City. I personaggi coinvolti sono o recenti creazioni dello stesso King (oltre a Nuri Espinoza abbiamo pure il killer “elegante” noto come l’Aiuto) o figure secondarie del sottobosco DC come Lisa St. Claire, la Force of July e Black Spider, che lo sceneggiatore americano, al solito, reinterpreta alla sua maniera. Lisa St. Claire, per esempio, è stata fino agli anni Settanta una delle protagoniste di diversi fumetti rosa, ma nelle mani di King diventa addirittura la ex signora Cobblepot (o meglio, una delle ex, dato che tra mogli decedute, fidanzate e flirt vari, il nostro Ozzy ha sempre avuto una vita amorosa alquanto invidiabile!), affascinante e machiavellica proprietaria di un casinò di Las Vegas, per nulla restia a invischiarsi in affari poco puliti. Oltre a questo, per rendere ancora più palese su quale attore della vicenda puntare i riflettori, la narrazione in terza persona cambia “voce” di continuo, soprattutto nei numeri finali, quando il succedersi degli eventi diventa vorticoso e incalzante, garantendo all’autore statunitense, attraverso poche didascalie, la possibilità di inquadrare tutti i personaggi e di approfondirne le intenzioni. Lo stesso vale per Batman, che, viste le dinamiche in gioco, rimane, però, spesso sullo sfondo. Persino il suo proverbiale fiuto investigativo viene messo in discussione, in particolare nei due episodi ambientati nel passato, accennati sopra, dove un Cavaliere Oscuro ancora alle prime armi, si lascia trarre in inganno da un giovane Oswald già abile doppiogiochista.

Il Pinguino, dal canto suo, oltre che reale motore della serie, è anche il collante che mantiene agganciate le storie personali dei vari comprimari alla vicenda principale. Il risultato è un fumetto scritto benissimo, che spazia brillantemente dal thriller all’action drama, con sprazzi di black comedy e un pizzico di supereroismo (quel tanto che basta a non farci dimenticare che siamo sempre e comunque all’interno del DC Universe). In più, per quanto Oswald Cobblepot abbia smesso da tempo i ridicoli panni del gangster da operetta appassionato di volatili, con cui è stato ritratto per molti anni, King porta a compimento il restyling del personaggio, trasformandolo definitivamente in una sorta di Wilson Fisk in versione DC, di cui, pur non condividendone affatto l’aspetto fisico, ne riprende la scaltrezza e la perspicacia. Così come, inevitabilmente, la brutalità e l’assenza di scrupoli.

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Sul versante grafico, il brasiliano De Latorre asseconda le intenzioni dello scrittore come meglio non si potrebbe. Con il suo tratto essenziale - benché sempre incisivo ed estremamente  rispettoso delle anatomie - e aiutato dalle tonalità volutamente spente del colorista Marcelo Maiolo (che diventano ancora più buie nelle parti disegnate da Subic, per esaltare il carattere parzialmente gotico di quegli intermezzi), l’artista sudamericano gioca efficacemente con le espressioni facciali, scegliendo le inquadrature in modo tale che il lettore possa percepire chiaramente lo stato d’animo dei vari personaggi, quasi come se non ci trovassimo di fronte a figure di carta, ma ad attori in carne e ossa. De Latorre, inoltre, è bravo a limitare gli sfondi o a “eccedere” con essi quando anche i dettagli si rivelano elementi fondamentali del racconto, dimostrando pure di non avere alcuna difficoltà a gestire la gabbia a nove vignette, tanto amata dallo sceneggiatore statunitense, alternandola con sorprendente fluidità a tavole costruite in maniera totalmente differente (fino ad arrivare ad autentiche splash page, all’occorrenza), concorrendo attivamente a imprimere il ritmo narrativo cercato da King e a far sì che il fumetto del Pinguino possa essere considerato l’ennesimo colpo messo a segno dall'autore di Washington DC. Con un unico rammarico: che la testata abbia chiuso dopo soli dodici numeri. È vero che l’attuale scrittore di Wonder Woman dà il meglio di sé su story arc brevi e ben definiti. Non provare, però, a sfruttare il potenziale richiamo derivante dal recente arrivo sul piccolo schermo del serial dedicato al personaggio (reperibile in Italia sulle reti Sky) lascia comunque un po’ stupiti. Pubblico diverso, certo. Mai come in questo caso, tuttavia, tale verità è apparsa così evidente.

Goldrake, recensione: l'UFO Robot d'oltralpe

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Chissà se è stata veramente la decisione della RAI di trasmettere, a partire dal prossimo gennaio, la nuova serie animata di Goldrake (Grendizer U in originale, un remake dello storico anime degli anni Settanta) a spingere le Edizioni BD/J-Pop a pubblicare in Italia il volume Goldorak (il nome dato in Francia al mitico robot gigante di Gō Nagai)?
Uscito oltralpe nel 2021 sotto le insegne della Kana (la filiale dedicata ai manga del colosso editoriale Dargaud) e accolto in patria da un notevole successo, il libro era ancora inedito da noi, nonostante una popolarità del personaggio rimasta sempre altissima nel Bel Paese, soprattutto tra gli over quaranta.
Forse si temeva una sorta di rifiuto a priori di un’opera che non veniva dal suo creatore, benché, in realtà, sia stato lo stesso Nagai a dare il via libera al progetto (la lettera con cui Xavier Dorison – autore dei testi assieme a Denis Bajram - ha chiesto al maestro giapponese di poter realizzare la nuova avventura di Goldrake compare nei contenuti extra in fondo al volume). Cosa non del tutto scontata, considerando che, invece di limitarsi a un semplice omaggio al mondo di Actarus e soci, i cartoonist francesi hanno dato vita a un vero e proprio seguito della serie animata.

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La storia raccontata nel libro prende il via dieci anni dopo la sconfitta dell’esercito di Vega e il ritorno di Actarus e Maria su Fleed (i nomi dei personaggi nell’edizione BD sono naturalmente quelli utilizzati in Italia), il loro pianeta natale. La guerra contro gli invasori spaziali sembra ormai dimenticata e le strade dei vari protagonisti si sono separate: Venusia è una specializzanda in chirurgia, mentre Alcor ha fondato un’azienda di successo che lo ha reso milionario. Inaspettatamente, però, dopo alcuni misteriosi segnali dalla Luna, un mostro di Vega compare nei cieli di Tokyo, seminando morte e distruzione. Si tratta della terribile arma degli ultimi superstiti del popolo extraterrestre, che, in cambio della pace, chiedono che l’intero Giappone diventi la loro nuova casa.

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Autentico atto d’amore nei confronti di un personaggio che ha segnato indelebilmente l’immaginario di tanti bambini italiani e francesi (Italia e Francia sono le due nazioni  dove - paese nipponico a parte - Goldrake ebbe sicuramente l’impatto maggiore) alla fine degli anni Settanta, quando l’anime sbarcò in Europa e dette origine a una rivoluzione culturale che ha avuto pochi eguali nella storia dell’entertainment, il fumetto transalpino riesce nella difficile impresa di trasportare l’opera di Nagai nel nuovo secolo, mantenendone intatte le suggestioni e molti dei suoi tratti distintivi, a dispetto di un linguaggio che risponde necessariamente a una sensibilità più contemporanea.
I due sceneggiatori scelgono, in particolare, di abbandonare la visione manichea che contraddistingueva in maniera inequivocabile parecchi lavori dell’autore del Sol Levante: la netta separazione tra buoni e cattivi, che in pochi avrebbero messo in discussione all’epoca della diffusione dei primi anime di genere mecha, più di cinquant’anni fa, risulterebbe assolutamente anacronistica al giorno d’oggi, per cui Actarus viene ritratto non come l’eroe tutto d’un pezzo che conoscevamo ma come un uomo tormentato che, dopo anni di battaglie, comincia a dubitare delle proprie azioni e si interroga su quanto l’odio cieco verso il nemico possa spingere a una lotta incessante, che non preveda altre soluzioni se non il totale annientamento dell’avversario. In questo modo Dorison e Bajram inducono il lettore a riflettere sull’insensatezza del ricorso alle armi come metodo per risolvere ogni disputa, attraverso passaggi di trama che suonano addirittura profetici, pensando al caos geopolitico a cui stiamo assistendo negli ultimi tempi.
Stesso discorso per la caratterizzazione degli altri personaggi, molto più sfaccettata rispetto all’originale. Le divertenti, ma ingenue, scaramucce amorose tra i protagonisti della serie storica, per esempio, per quanto significativamente rimaneggiate (tanto che non saremmo sorpresi se qualche fan hardcore delle opere nagaiane storcesse il naso) vengono messe da parte a favore di sentimenti maturi e maggiormente articolati, e persino un comprimario come Rigel, nato per stemperare i frequenti momenti drammatici della storia con siparietti comici di ogni tipo, diventa un dispensatore di saggezza e un esempio morale da seguire. In aggiunta a tutto ciò, senza arrivare a un ribaltamento dei ruoli, che non avrebbe avuto alcuna giustificazione logica, il lavoro di “revisione” realmente importante viene fatto con gli invasori di Vega, le cui azioni, pur spietate, vengono inquadrate più verosimilmente all’interno degli orrori che ogni conflitto bellico porta con sé.
Tuttavia, è opportuno sottolineare che questo approccio autoriale alla saga di Goldrake a volte si scontra con il comprensibile desiderio dei fumettisti francesi di non voler snaturare troppo i personaggi e gli elementi che contrassegnavano la serie originale, con l’inevitabile risultato, però, di avere alcuni snodi narrativi che si risolvono in maniera un po’ scontata e banale.

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Riguardo ai disegni (opera dello stesso Bajram, in collaborazione con Brice Cossu e Alexis Sentenac) ci preme condividere la scelta degli autori di mantenere, per quanto possibile, l’estetica che il regista Tomoharu Katsumata decise per il Goldrake televisivo degli anni Settanta, smussando le derive cartoonesche (che nell’anime vennero riservate esclusivamente ai personaggi caricaturali, come appunto Rigel) e grottesche tipiche dello stile di Nagai. In questo modo si è ottenuta una certa continuità con la serie per il piccolo schermo - l’unica davvero nel cuore degli appassionati - e non con il manga, che ormai viene preso in considerazione solo per ragioni filologiche.
Da evidenziare che - come precisato in fondo al volume - le tavole del fumetto non sono il frutto di una divisione dei compiti tra Bajram, Cossu e Sentenac, ma del lavoro contemporaneo dei tre disegnatori, ognuno dei quali, dopo lo storyboard iniziale, è intervenuto più volte con suggerimenti e correzioni fino a raggiungere l’esito artistico desiderato.
L’unico appunto per il comparto grafico riguarda, a nostro avviso, i colori di Yoann Guillo che, sebbene tecnicamente ineccepibili, risultano in alcune sequenze un po’ troppo freddi.

Prima di congedarci, oltre a ringraziare la BD per averci permesso di rivivere i magici momenti della nostra infanzia, segnaliamo che la casa editrice milanese ha affiancato al volume in versione regular (già di per sé un ottimo cartonato, confezionato in maniera impeccabile) anche una collector’s edition a tiratura limitata, valorizzata da un formato maggiorato e ulteriori pagine di contenuti extra.

Avengers: Il crepuscolo, recensione: i Vendicatori del futuro sotto l'ombra milleriana

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(Recensione di Avengers #9/171-11/173-13/175-15/177)

Quando Frank Miller nel 1986 decise di mostrarci un Batman anziano e disilluso, nel suo capolavoro Il ritorno del Cavaliere Oscuro, probabilmente non pensava di aver dato vita a un’opera seminale del fumetto americano (soprattutto considerando le accuse di fascismo ricevute da qualche collega e da alcuni operatori del settore, dopo la pubblicazione della miniserie). Da quel momento in poi, infatti, parecchi autori hanno scelto di misurarsi con tematiche simili, pur con inevitabili differenze dettate dalla diversità dei protagonisti o dallo stile dei cartoonist coinvolti.
Tra gli esempi più recenti e più riusciti di questo particolare sottogenere dobbiamo ricordare Catwoman: città solitaria di Cliff Chiang, benché l’ultima arrivata, in ordine di tempo, sia la miniserie in sei capitoli Avengers: Il crepuscolo (Avengers: Twilight in originale), da poco conclusasi in Italia sulla testata dedicata agli Eroi più Potenti della Terra.

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La trama vede gli Stati Uniti di un futuro prossimo trasformati in uno stato di polizia, in cui i cittadini hanno preferito rinunciare progressivamente alla propria libertà, in cambio di una maggiore sicurezza, dopo che in quello che è stato definito H-Day, gran parte dei supereroi è caduta per mano di criminali potenziati da Ultron, il quale, soggiogato Hulk, si è anche reso responsabile della distruzione di Boston.
Considerati alla stregua di pericolosi vigilanti in costume, Steve Rogers, Luke Cage e i pochi altri sopravvissuti vengono costretti a ritirarsi, lasciando spazio a una nuova formazione di Avengers, che, al soldo del governo americano, ha brutalmente imposto la pace al resto del mondo. In tale scenario si è inserito James Stark, figlio di Tony Stark e Janet Van Dyne (apparentemente scomparsi nel H-Day), che grazie all’enorme potere economico-finanziario acquisito dalle industrie di famiglia, è diventato di fatto il vero leader del paese. Il giovane James, tuttavia, è solo un burattino nelle mani di Kyle Jarvis, sedicente fratello minore del più noto Edwin (il maggiordomo degli Avengers), sotto le cui spoglie si nasconde, in realtà, uno storico villain del Marvel Universe.

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Un clima oppressivo, reso ancora più disperante dall’efficace sceneggiatura di Chip Zdarsky, nella quale risuona forte l’eco dell’opera di Miller. Difficile, in effetti, non vedere nella metafora fantapolitica dell’autore canadese una critica evidente agli Stati Uniti dei giorni nostri. La manipolazione dei media (frutto di un utilizzo indiscriminato delle fake news), l’abulico disinteresse della popolazione verso lo stato di diritto, l’abuso della forza militare, lo strapotere delle multinazionali, rappresentano per Zdarsky i nuovi temi da portare allo scoperto, come furono per il creatore di Elektra, quasi quarant’anni fa, la deriva guerrafondaia dell’amministrazione reaganiana e la perdita di valori della società americana.
Cionondimeno, basare la vicenda su un intrigo cospirazionista quando si ha a che fare con gli Avengers, lasciando l’azione in secondo piano, diventa – per quanto affascinante – difficile da gestire, anche per uno scrittore già insignito di diversi premi Eisner come il nostro Chip. Pertanto, dopo le pagine iniziali (sicuramente le migliori dell’intera miniserie) dove facciamo la conoscenza dei vari protagonisti e l’ansia di vivere in uno stato totalitario - che omaggia inevitabilmente V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd - si fa via via più asfissiante, la trama assume presto i contorni di una classica storia di supereroi. È unicamente l’abilità di Zdarsky a impedire che il tutto si riduca a una semplice scazzottata tra tizi in calzamaglia, attraverso l’utilizzo di personaggi ben caratterizzati, dialoghi incisivi e un invidiabile ritmo narrativo, favorito, oltretutto, da cliffhanger dosati alla perfezione.

Solo nel finale si percepisce una parziale sensazione di déjà-vu, principalmente perché gli eventi procedono in maniera un po’ affrettata e più prevedibile che nel resto della miniserie (a soffrirne sono in particolare alcuni nuovi character, di cui non si riesce a cogliere pienamente lo spessore), benché la lettura - pur con qualche concessione al melodramma e alla tipica ironia dell’autore - rimanga appassionante anche nei passaggi conclusivi.
Forse, per una migliore riuscita dell’opera, sarebbe stato preferibile concentrarsi sul solo Capitan America. Probabilmente, però, Zdarsky deve aver pensato che, in questo modo, le similitudini con il Batman di Miller sarebbero state fin troppe, al limite del plagio, a dispetto di una differenza morale piuttosto netta tra Steve Rogers e Bruce Wayne.

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Il comparto grafico è tutto appannaggio di un artista di valore come Daniel Acuña, che, nelle tavole realizzate per questa miniserie, esibisce tonalità psichedeliche, quasi ipnotiche. Un’evoluzione stilistica che lo avvicina ancora di più al suo mentore dichiarato Richard Corben, da cui aveva già ereditato l’uso di colori saturi e strabordanti. Le figure umane non presentano gli eccessi ipertrofici e grotteschi dell’autore di Den, sebbene ad anatomie regolari e ben proporzionate facciano da contraltare espressioni facciali, che, a volte, appaiono innaturali o cartoonesche. La cupezza dilagante di molte vignette e la sovrabbondanza di “effetti cinetici” potrebbero disorientare qualche lettore. Tuttavia, il risultato finale è decisamente ammaliante e sicuramente in sintonia con i testi di Zdarsky.

Avengers: Il crepuscolo è un fumetto qualitativamente oltre la media, che intrattiene in maniera intelligente e che spicca - insieme a pochi altri - nel desolante panorama offerto dalla Marvel negli ultimi anni. Ma che, allo stesso tempo, per i limiti che abbiamo descritto, non può essere considerato quel classico contemporaneo con cui, sulla scorta dell’entusiasmo suscitato dai primi numeri, è stato pubblicizzato.

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