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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Continua l’esclusivo sodalizio tra Saldapress e Skybound, l’etichetta creata da Robert Kirkman all’interno del consorzio Image Comics. La casa editrice di Reggio Emilia ripropone, stavolta in brossurati da 48 pagine pensati per le edicole, una delle serie più interessanti tra quelle nate dalla factory di Kirkman: Ghosted, a firma di Joshua Williamson e Goran Sudzuka. Come il titolo lascia intuire la serie occupa, nel variegato catalogo Skybound che spazia dall’horror (The Walking Dead, Outcast) al genere supereroistico tout-court (Invincible, Guarding the Globe), la casella della ghost story, pur contaminata da elementi da heist movie.

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La storia si apre in un carcere di massima sicurezza dove il nostro protagonista, Jackson T. Winters, sta scontando una pesante condanna. Non sappiamo cosa lo abbia portato lì: la narrazione in prima persona ci fornisce solo cenni a un colpo andato male e a un fulgido passato di ladro infallibile ormai alle spalle. La vita in cella scorre monotona fino al fatidico scoppio di una rivolta, che si rivela essere presto un piano ben congegnato da una misteriosa donna armata fino ai denti, Anderson Lake, per fare evadere l’uomo. Il perché di tanto disturbo è presto detto: la donna lavora per Markus Shrecken, eccentrico milionario e collezionista che lo vuole ingaggiare per un’impresa alquanto singolare. L’uomo vuole infatti aggiungere alla sua collezione di manufatti sovrannaturali un pezzo davvero particolare, nientemeno che un fantasma, prelevandolo da Villa Trask, dimora abbandonata di una ricca dinastia di maniaci sanguinari dediti all’adescamento e all’omicidio di vittime ignare. Winters tentenna, ma quando il vecchio minaccia di farlo tornare in carcere accetta ponendo delle condizioni, prima tra tutte la scelta dei membri del team che lo accompagneranno nell’impresa, una bizzarra brigata di “esperti” dell’occulto e cialtroni. La squadra si metterà ben presto all’opera, scoprendo che la villa nasconde davvero delle presenze inquietanti.

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Ghosted è una lettura piacevole e scanzonata, che si fa apprezzare grazie ai testi frizzanti di Joshua Williamson, talento  che qui muoveva i primi passi e che oggi è un astro nascente tanto in casa Marvel (Illuminati) quanto DC (il prossimo rilancio di The Flash nell’ambito dell’iniziativa DC Rebirth). La storia proposta da Williamson è un brillante pot-pourri di topoi letterari e di dejà vu cinematografici: il tema della casa stregata, oltre a tanta letteratura gotica, ha ispirato classici del cinema di paura come Gli Invasati di Robert Wise e del suo meno riuscito remake Haunting – Oscure Presenze di Jan De Bont, ma il pensiero corre anche a Sospesi nel tempo di Peter Jackson e, ovviamente, a Ghostbusters di Ivan Reitman. L’elemento soprannaturale è però perfettamente bilanciato da un’autoironia di fondo che invita il lettore a non prendere il tutto troppo sul serio e a godersi la storia per quello che è, un b-movie dalle atmosfere ben calibrate. Condita dal necessario sarcasmo è anche l’abile caratterizzazione che Williamson fornisce dei protagonisti, una banda di improbabili ladri di fantasmi che viene radunata da Jackson Winters sul modello di Ocean’s Eleven di Steven Soderbergh.

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I testi effervescenti di Williamson sono accompagnati dalle matite di Goran Sudzuka: pur proponendo una composizione della tavola classica e non particolarmente originale, l’artista di Hellblazer: Lady Costantine ha buon gioco nel tradurre in immagini le atmosfere da brivido descritte dalla sceneggiatura di Williamson, grazie ad uno stile classico e dettagliato che si spinge verso esiti più caricaturali e cartooneschi quando l’assurdità delle situazioni messe in scena lo richiede. E in Ghosted i momenti assurdi non tarderanno ad arrivare.

Capitan America: Bianco

All’inizio degli anni 2000 il tandem composto da Bill Jemas (Presidente) e Joe Quesada (Editor in Chief), prende in mano la Marvel, deciso a risollevarne le sorti dopo un decennio, quello precedente, in cui la storica casa editrice ha toccato con mano il rischio del fallimento, tra crolli delle vendite e speculazioni di carattere finanziario. Quesada è il disegnatore più in auge del momento, grazie ad un clamoroso ciclo di Daredevil realizzato in coppia col regista Kevin Smith, che riporta il Diavolo di Hell’s Kitchen  ai fasti dei tempi di Frank Miller. Aver riportato ai vertici delle classifiche delle vendite un personaggio fino a quel momento moribondo è un risultato che non sfugge ai vertici della casa editrice, che chiedono a Quesada di infondere il suo tocco all’intera linea editoriale, promuovendolo Redattore Capo. Il nuovo Boss della Marvel comincia a quel punto un’aggressiva campagna acquisti, capace di attrarre sulle principali testate i maggiori talenti del settore, alcuni dei quali non avevano mai lavorato sui personaggi della casa editrice: sono gli anni dello Spider-Man di J. Micheal Straczynski e dell’iconoclasta New X-Men di Grant Morrison.

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Nella pletora di progetti, annunci e talenti messi al lavoro da Quesada e Jemas figurano anche Jeph Loeb e Tim Sale, sceneggiatore e disegnatore associati fino a quel momento alla DC Comics, per la quale hanno realizzato alcune opere fondamentali tanto per il mito di Batman (The Long Halloween e Dark Victory) che per quello di Superman (Superman For All Seasons). La carriera di Loeb in particolare simboleggia la tipica ambivalenza del fumetto statunitense mainstream, a cavallo tra successo commerciale e aspirazioni d’autore: cominciata la sua carriera nel cinema con le sceneggiature per film come Teen Wolf e Commando e proseguita nel fumetto con successi stratosferici di vendite come Superman/Batman in coppia con Ed McGuinness e Batman: Hush con Jim Lee, è nel sodalizio con l’amico Tim Sale che Loeb trova la sua voce autoriale più autentica. I monologhi interiori tipici dello scrittore trovano nelle tavole evocative di Sale il naturale completamento, amplificandone la carica iconografica.

Arrivati in Marvel nel 2001, la coppia d’oro inaugura con Daredevil: Yellow una tetralogia di miniserie dedicate a quattro icone della casa editrice, che proseguirà con Spider-Man: Blue, Hulk: Gray e Captain America: White. Il filo che unisce queste quattro opere è il sentimento della malinconia e della nostalgia per il tempo perduto: l’eroe, attraverso l’elaborazione del lutto di una persona cara del suo passato, rivisita le proprie origini e motivazioni, e il lettore con lui. Le primi tre miniserie “dei colori” vengono pubblicate in rapida successione fino al 2008, anno in cui esce il numero 0 di Capitan America: Bianco, dopodiché qualcosa si inceppa, a seguito dei sempre più pressanti impegni professionali della coppia. Sale comincia a lavorare come illustratore per la serie televisiva Heroes; Loeb viene nominato vice presidente esecutivo di Marvel Television, la divisione dei Marvel Studios preposta allo sviluppo di progetti per il piccolo schermo. I numeri successivi di Capitan America: Bianco vengono dunque messi in stand-by, e gli anni passano senza che ne venga annunciata l’uscita. Il progetto viene ormai universalmente considerato abbandonato dai due autori quando nel 2015, a sorpresa, i cinque numeri rimanenti vengono pubblicati in rapida successione concludendo l’opera.  E leggendola, ora che Panini Comics l’ha resa disponibile per i lettori italiani, possiamo dire che è valsa la pena aspettare.

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La storia è ambientata poco tempo dopo il risveglio di Capitan America dalla sua ibernazione nei ghiacci del Polo Nord, dove era caduto al termine della sua ultima avventura durante la seconda guerra mondiale, impresa che era costata la vita alla sua giovane spalla, Bucky Barnes. Steve Rogers si trova ad aggirarsi in un mondo profondamente diverso da quello che conosceva, e la sensazione di solitudine e spaesamento è amplificata dall’assenza del suo giovane partner caduto in battaglia. Il Capitano visita il memoriale dedicato ai due eroi della seconda guerra mondiale, e davanti alla tomba del suo amico si perde nel viale dei ricordi. La memoria torna indietro ad una missione in particolare, svoltasi nella Francia occupata, per dare supporto ai partigiani francesi con la collaborazione di Nick Fury e dei suoi Howling Commandos. Capitan America e Bucky, con l’aiuto dei loro alleati, riusciranno a sventare i piani del Teschio Rosso e a salvare la città di Parigi dalla furia distruttrice nazista.

Il primo aggettivo che viene in mente approcciando Capitan America: Bianco è “classico”.  Ma è proprio questo sapore classico a rendere così speciale questo nuovo lavoro della premiata ditta Loeb/Sale. In un’epoca di reboot e retcon, di stravolgimenti narrativi e di cambiamenti mirati a uniformare personaggi iconici alle loro controparti cinematografiche nella speranza (spesso vana) di attrarre nuovi lettori, Jeph Loeb si propone come portatore della fiaccola della tradizione. Il suo Cap è lo stesso uomo fuori dal tempo, onesto e compassionevole, che abbiamo amato fin dalle storie anni ‘60 di Lee, Kirby e Romita Sr.
Ispirato purtroppo da un drammatico vissuto personale (la scomparsa del figlio Sam a soli 17 anni a causa di un male incurabile), Loeb permea l’opera di un forte sentimento di malinconia e di assenza, rimpianto e ineluttabilità dello scorrere del tempo. Lo scrittore fa imboccare al lettore il viale dei ricordi insieme a Steve Rogers, facendogli ritrovare tutti gli elementi che hanno fatto di Capitan America il più nobile degli eroi e che non lo faranno mai passare di moda: l’intrinseca bontà, nonostante gli costi lo sberleffo di commilitoni più prosaici come Nick Fury, il candore a cui fa riferimento il “bianco” del titolo, e la capacità di incarnare le più nobili aspirazioni dell’essere umano.

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Loeb si conferma un maestro della macchina da scrivere: i suoi testi sono all'insegna di una umanità e sincerità disarmante, i suoi monologhi, intrisi di dolorosa consapevolezza, sono un colpo al cuore. Ad accompagnarci per mano in questo commuovente tuffo nel passato sono le straordinarie tavole di Tim Sale, uno dei pochi artisti, insieme ad Alex Ross, capace di catturare l’essenza iconica di personaggi storici come il Capitano. Le illustrazioni di Sale, degno erede di celebri esponenti del Realismo Americano come Edward Hopper, danno il giusto sapore retrò alla malinconica sceneggiatura di Loeb, non dimenticando di omaggiare allo stesso tempo i disegnatori storici del Capitano, catturato in iconiche pose alla Jack Kirby e alla Jim Steranko. Raramente testi e disegni si sono fusi con tanta efficacia e bellezza come nel caso del duo Loeb/Sale, creando un sodalizio e una continuità artistica che attraversa tutta la “tetralogia” dei colori, e che non viene compromessa neanche dalla sostituzione dei vivaci acquarelli di Matt Holligsworth, compagno di viaggio dei due autori fin da Daredevil: Yellow, con la pur efficace paletta cromatica di Dave Stewart.

Capitan America: Bianco viene proposto in Italia da Panini Comics in un bel volume cartonato formato “Marvel Now”, che si segnala per un eccellente rapporto qualità - prezzo.
Una lettura necessaria per ogni Marvel Fan che si rispetti, capace di catturare lo spirito di un’epoca lontana come un film di Frank Capra o un disco di Glenn Miller.

Robocop: L'ultima difesa

Alla fine degli anni ’80 Frank Miller è la punta di diamante del movimento fumettistico americano e il decennio che si sta chiudendo è stato segnato dal successo dei suoi Daredevil, Elektra: Assassin, Batman: The Dark Knight Returns. Cresciuto a pane e cinema americano classico, polizieschi e noir soprattutto, Miller sogna di sbarcare ad Hollywood in veste di sceneggiatore: d’altronde l’influenza cinematografica nella composizione delle sue tavole è evidente già dai suoi primissimi lavori. L’occasione gli si prospetta quando la Orion Pictures, piccola ma agguerrita casa di produzione, gli offre la chance di scrivere la sceneggiatura di Robocop 2, sequel del film di culto diretto da Paul Verhoeven nel 1987. Verhoeven, di nazionalità olandese, aveva portato con Robocop una sensibilità tipicamente europea nel cinema di fantascienza mainstream a stelle e strisce, immaginando un futuro distopico dove il liberismo sfrenato, che proprio in quegli anni toccava l'apice grazie alle politiche economiche di Reagan e Thatcher, aveva contribuito ad instaurare un regime morbido basato sul controllo sistematico dei mezzi di informazione e la vittoria dell’interesse privato su quello pubblico. Temi che in quegli anni non erano estranei alle opere di Miller, soprattutto nel Dark Knight. Il cartoonist del Vermont si mise al lavoro con entusiasmo sul secondo capitolo delle avventure del cyberpoliziotto di Detroit, diretto dal veterano Irvin Kershner, ma il risultato finale si discostò di molto dallo script originale di Miller. La Orion giudicò il lavoro di Miller troppo violento e la satira politica eccessiva per un film che nelle intenzioni dei produttori avrebbe dovuto raggiungere il più vasto pubblico possibile. Robocop 2, uscito nel 1990, fu un fiasco colossale, un ibrido mal riuscito tra le intenzioni iniziali di Miller e i rimaneggiamenti imposti dalla produzione. Ciò non impedì alla Orion di chiedere la collaborazione di Miller anche per il terzo capitolo, Robocop 3 del 1993, stavolta nella doppia veste di regista/sceneggiatore: ma anche questa volta le cose andarono male, col buon Frank sostituito alla regia dal mestierante Fred Dekker e il suo script nuovamente rimaneggiato ed edulcorato. Furioso, Miller giurò che non avrebbe più messo piede ad Hollywood, e avremmo rivisto il suo nome su un manifesto di un film solo nel 2004, per l’uscita dell’adattamento cinematografico del suo Sin City.

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Salvo il cross-over del 1992 Robocop Vs Terminator (di cui abbiamo già parlato), scritto da Miller per i disegni di Walter Simonson, il nome dell’autore di 300 e quello di Robocop non sono stati più associati fino al 2003 quando la Avatar Press, casa editrice indie, lo contattò per conoscere la sua disponibilità circa un eventuale adattamento delle sue sceneggiature originali in serie a fumetti. Miller, entusiasta del poter finalmente presentare quelle storie così come le aveva concepite, accettò, pur limitando il suo ruolo a quello di supervisore dell’intero progetto e copertinista a causa dei troppi impegni.

Il compito di curare i testi, direttamente dallo screenplay originale di Miller, toccò a Steven Grant, vecchio leone della Marvel degli anni ’70 e ’80, celebre per la prima storia del Punisher dell’era moderna, Circle of Blood. La Avatar fece in tempo a pubblicare solo il primo adattamento delle storie di Miller, relativo a Robocop 2; in seguito i diritti del personaggio passarono a Dynamite Entertainment e alla fine ai BOOM! Studios, che hanno dato alle stampe l’adattamento a fumetti della sceneggiatura originale realizzata da Miller per il terzo capitolo della serie cinematografica, ribattezzandolo Robocop -  L’Ultima Difesa, di cui Magic Press cura ora l’edizione italiana.
La sincerità impone di confessare che ci siamo avvicinati a quest’opera con un po' di diffidenza, sicuri che il nome di Frank Miller ben evidenziato fosse poco più di uno specchietto per le allodole per vendere qualche copia in più, considerato il mero ruolo di supervisore del celebre cartoonist: ci siamo trovati invece davanti ad un buon prodotto di intrattenimento, piacevole come un action movie degli anni ’80 ma non privo di molteplici chiavi di lettura.

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La storia ci mostra il confronto finale tra Robocop e la OCP, la multinazionale decisa a impadronirsi della città di Detroit prima e del resto degli Stati Uniti poi. La politica di conquista della OCP non si realizza tramite l’uso delle armi, ma privatizzando i servizi essenziali per il cittadino, come la polizia ormai asservita ai meri interessi della multinazionale. Essenziale per poter mettere definitivamente le mani su Detroit è la costruzione di un quartiere di lusso, al posto di uno slum degradato di nome Cadillac Heights, abitato da povera gente ai margini della società che la polizia cerca di allontanare dalle proprie case con ogni mezzo, anche non lecito. Robocop, ormai ribellatosi ai suoi ex creatori della OCP, interverrà in difesa della popolazione, contando sull’aiuto di un gruppo di cittadini coraggiosi e di una esperta di computer, Marie, che forse prova per lui qualcosa in più della semplice ammirazione.

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Lettura sorprendentemente interessante che si presta a numerosi spunti di riflessione, Robocop – L’Ultima Difesa porta a compimento il discorso iniziato da Paul Verhoeven nel film del 1987, la denuncia di un mondo dove l’interesse privato e il predominio della finanza sulla politica stanno portando l’umanità verso un cupio dissolvi basato sull’arricchimento di pochi e l’annullamento dei diritti basilari dei cittadini. Il predominio delle multinazionali sugli stati sovrani poteva essere materia da fantascienza distopica nel 1987, ma nel 2016 stiamo parlando purtroppo di strettissima attualità. La storia di Miller si inserisce brillantemente nel solco tracciato da Verhoeven, suggerendo, come in The Dark Knight Returns, che il popolo ha il potere e che un regime corrotto va rovesciato. Probabilmente un maggior coinvolgimento di Miller nell’adattamento di questa sua sceneggiatura perduta avrebbe potuto portare Robocop – L’Ultima Difesa verso altre vette di eccellenza, ma il risultato finale è comunque degno di attenzione. Steven Grant compie un ottimo lavoro nell’adattare lo script di un nume tutelare come Miller, conferendo alla storia un ritmo frenetico con testi al fulmicotone, e si fanno notare i disegni sporchi e funzionalmente underground di Korkut Öztekin, quanto mai adatti ad illustrare ghetti urbani degradati e squallori futuristici. Un tuffo in atmosfere anni ’80 e ’90 ma corredate da spunti di riflessione che sono tutti del nostro tempo.

Luci e ombre degli eroi DC in Batman V Superman

  • Pubblicato in Focus

Annunciato al San Diego Comic-Con del 2013 e atteso spasmodicamente per 3 anni da legioni di fan, Batman V Superman: Dawn of Justice è finalmente arrivato nelle sale di tutto il mondo. Premiato dall’incasso record di 170 milioni di dollari nella prima settimana di programmazione, il film ha fin dal primo momento spaccato in due il fandom, che si è diviso tra entusiasti sostenitori e feroci detrattori della visione estrema del regista Zack Snyder. I siti specializzati e le pagine dei social network si sono riempite di post pro o contro Snyder, in un crescendo di polemiche di cui non si aveva memoria in campo cinematografico o fumettistico. Questa non vuole essere una recensione del film, di cui Comicus si è già occupato, ma una riflessione a più ampio spettro su alcune domande che la visione di Batman V Superman fa inevitabilmente sorgere ai lettori di vecchia data dei fumetti DC, storditi dalla spregiudicata traduzione in immagini operata da Zack Snyder.

L’atmosfera plumbea ed apocalittica di cui è permeata la pellicola non sorprenderà lo spettatore che avrà modo di ritrovare lo stesso mood di Man of Steel, il film del 2013 con cui Snyder aveva rilanciato il mito di Superman, proponendo il personaggio di Siegel & Schuster ad una nuova generazione. La versione di Superman fornitaci dal regista di 300 è una forza della natura il cui rivelarsi al mondo porta a degli esiti distruttivi, visione  lontana anni luce dalla classica caratterizzazione di un personaggio dotato di un potere pressoché illimitato, che trova però un freno nel senso di responsabilità instillatogli dai suoi genitori umani. Nella lunga sequenza finale di Man of Steel la città di Metropolis diventa il campo di battaglia per la resa dei conti tra Superman, a cui presta le fattezze Henry Cavill, e il Generale Zod, interpretato da Micheal Shannon, uno scontro tra titani che semina morte e distruzione. L’entità della devastazione causata dalla battaglia non sembra preoccupare più di tanto il figlio di Krypton, che per porre fine alla minaccia rappresentata dal suo avversario decide di ucciderlo, spezzandogli il collo. La scena suscitò un polverone tra i fan dell’Uomo d’Acciaio e fu al centro di una contestazione da parte di una nutrita schiera di addetti ai lavori: sceneggiatori celebri come Dan Slott, Kurt Busiek e Mark Waid accusarono Snyder di aver snaturato il personaggio di Superman, che non avrebbe mai messo fine deliberatamente alla vita di un nemico. Kurt Busiek in particolare criticò la cupezza del film e la mancanza di gioia di cui è intriso sia il film sia il personaggio principale. Kal-El, nella visione offertaci da Snyder è un eroe suo malgrado, incerto dei propri poteri e del proprio ruolo, diviso tra la naturale propensione ad aiutare il prossimo e il timore di contravvenire al dettame paterno di non rivelarsi al mondo. Le polemiche su Man of Steel non si erano ancora sopite quando Batman V Superman: Dawn of Justice ha debuttato nello scorso mese di marzo, sconcertando i fan, se possibile, in misura ancora maggiore rispetto al precedente film. La pellicola, che riunisce le tre principali icone del DC Universe (assistiamo anche al debutto di Wonder Woman), ha lo scopo di gettare i semi del futuro Universo Cinematografico DC, sulla falsariga di quanto fatto dalla Marvel.

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L’incontro tra i due più grandi super eroi del mondo, che si frequentano su carta già dagli anni ‘40 sulla testata comune World’s Finest, doveva essere il sogno di ogni fan che si rispetti. Invece il tono apocalittico conferito da Snyder a BvS rasenta i contorni dell’incubo. I lettori cresciuti a pane e DC Universe troveranno ben poche somiglianze tra i classici custoditi nei propri ricordi e le immagini desaturate dell’opera di Snyder. È paradossale, per tornare al confronto con l’Universo Cinematografico Marvel, come il tono scelto da Kevin Feige e il gruppo di lavoro della Marvel Entertainment sia spesso leggero e scanzonato, a fronte di un materiale di provenienza a volte piuttosto dark, mentre per trasportare in immagini il DC Universe sia stato scelto un tono tanto plumbeo e claustrofobico, a fronte di un corrispettivo cartaceo certamente più allegro e spensierato di quello marvelliano. Mentre nell’universo Marvel gli eroi sono guardati con sospetto e in alcuni casi apertamente osteggiati se non perseguitati (basti pensare a Spider-Man e ai mutanti X-Men), nell’universo DC classico, con forse la sola eccezione di Batman, la gente applaude i propri eroi, a cui dedica addirittura musei come nel caso di Flash. La diversità sostanziale tra il cosmo Marvel, più oscuro, e quello DC, più lighthearted, era alla base del celebre cross-over tra le due compagnie, quel JLA/AVENGERS di Kurt Busiek e George Pérez che è un utile compendio di somiglianze e differenze tra i due universi fumettistici rivali. All’inizio della storia la Justice League of America, alla ricerca di artefatti mistici, si aggira sbigottita tra le devastazioni dell’Universo Marvel, dalle rovine della nazione mutante di Genosha, distrutta poco prima da un micidiale attentato, fino alle azioni del vigilante Punitore, che non esita a regolare i conti con una gang di trafficanti con una raffica di mitra, sotto gli occhi di un incredulo Batman. Nello stesso momento gli Avengers, che stanno visitando il DC Universe, si aggirano meravigliati nelle splendenti città della Silver Age come Central City, la città natale di Flash. Certo avrebbero avuto poco da essere meravigliati, se avessero visitato il DC Universe fumante di rovine immaginato da Zack Snyder.

A pochi giorni dall’uscita del film, il regista e sceneggiatore di fumetti Kevin Smith ha voluto dire la sua, salvo essere subissato da una scarica di insulti sui social media dagli indefessi sostenitori di Snyder, che in maniera becera e senza molto stile gli hanno ricordato i numerosi flop della sua carriera (sulla presunta democrazia del web si potrebbe scrivere molto), respingendo le osservazioni puntuali del cineasta. Smith ha messo alla berlina, senza peli sulla lingua, il problema principale di BvS, ovvero la mancanza di spessore emotivo. Pur sottolineando l’innegabile bravura di Snyder nel comporre immagini di grande effetto, il regista di Clerks sottolinea giustamente come questa qualità non basti a realizzare un film, soprattutto quando mancano una sceneggiatura degna di questo nome e caratterizzazioni all’altezza della storia dei personaggi. Non manca lo spettacolo, in BvS, ma è uno spettacolo senza cuore, con personaggi che non suscitano l’empatia dello spettatore ed è grave considerando che parliamo dei più grandi eroi del comicdom. È un film totalmente privo di umorismo, qualità completamente sconosciuta a Snyder: anche nella nerissima Trilogia del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan non mancano i momenti di humour nero, affidati perlopiù alle sagaci battute di Alfred/Micheal Caine. Forse proprio il successo dei film di Nolan dedicati a Batman ha causato l’equivoco di fondo, cioè quello di conferire un’impronta dark ad un universo, quello DC, che non ha nell’essere oscuro la sua caratteristica precipua. È vero che lo stesso Universo DC dei fumetti ha subito un pesante restyling nel reboot del 2011, l’iniziativa New 52 che ha cercato di aggiornare i classici personaggi della casa editrice al gusto contemporaneo; ma è altrettanto vero che New 52 non ha raggiunto del tutto il risultato sperato, scontentando oltretutto i vecchi lettori che rimpiangono l’Universo DC classico. Non è un caso che la dirigenza DC si appresti a correre ai ripari col prossimo evento DC Rebirth, che riporterà nel nuovo universo elementi della continuity classica.

Stravolgere la caratterizzazione di un personaggio profondamente radicato nell’immaginario collettivo è sempre pericoloso, ma l’atteggiamento di Snyder nei confronti di Batman e Superman è addirittura spregiudicato. La sua versione del Cavaliere Oscuro era attesa al varco, soprattutto dopo il controverso casting di Ben Affleck nel ruolo. A conti fatti, Affleck è una delle cose migliori del film. Il suo è un Batman muscolare, segnato da anni di lotte, imponente ed atletico allo stesso tempo: è come se il Batman illustrato da Jim Lee fosse uscito dalla pagina. L’unica perplessità riguarda l’uso disinvolto delle armi da fuoco, quando è ben noto che il Cavaliere Oscuro non farebbe mai uso di una pistola. La pistola è l’arma della feccia che gli ha portato via i genitori, l’arma dei codardi, ed il suo rifiuto ad usarla è ormai canone. Quello che lascia più perplessi, come si diceva in apertura, è il trattamento che Snyder riserva a Superman, un personaggio che non comprende o che forse semplicemente non apprezza.  Il regista è bravissimo a mettere in scena i poteri del Kryptoniano: il volo, arricchito di sonic booms, la vista calorifica, la superforza…. trascurando completamente il potere più grande dell’Uomo d’Acciaio: il potere di rappresentare la parte migliore degli esseri umani e di ispirarli. Fin dalla sua creazione nel 1938 ad opera di due giovani ebrei, Superman ha attraversato i momenti più bui dell’umanità invitando gli uomini alla riscossa. È stato così alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, quando è nato, ed è stato così alla fine di un altro periodo nero della storia americana, quegli anni ’70 che avevano visto la tragedia del Vietnam e la vergogna del Watergate: era il 1978 quando il Superman di Christopher Reeve fece irruzione nei cinema di tutto il mondo, facendoci credere che un uomo potesse volare e ispirando più di una generazione. Il Superman di Snyder è un essere dolente, completamente ignaro del suo ruolo, che si aggira tra la desolazione di un mondo devastato, saltellando di livello in livello nell’apocalittico videogioco messo in scena dall’ex regista di videoclip.

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Atroce è poi il trattamento riservato ai comprimari storici dell’Uomo d’Acciaio. Già in Man of Steel il buon Zack si sbarazzava in quattro e quattr’otto del Professor Emil Hamilton, un comprimario storico della serie, facendolo perire brutalmente nell’esplosione di una nave kryptoniana. Ma quella era una fine di lusso, se confrontata col trattamento riservato al buon Jimmy Olsen, il fotografo amico di Superman, giustiziato con un colpo alla testa da un mercenario, giusto due minuti dopo aver fatto il suo debutto in scena. Agghiacciante il commento di Snyder: "Abbiamo ragionato sulla direzione che volevamo prendessero questi film e non avevamo spazio per Jimmy Olsen nel nostro grande pantheon di personaggi. Però potevamo divertirci ugualmente con lui, no?". Quindi l’idea di divertimento del regista è ficcare una pallottola in testa ad un personaggio molto amato. Dichiarazione come queste non vengono prese strumentalmente per il gusto di attaccare Zack Snyder, ma per marcare tutta la differenza che esiste tra il suo stile e un universo, quello DC, che è l’opposto della deprimente desolazione morale che ci sta proponendo nei suoi film. Un universo di grandi eroi portatori di luce e speranza come Barry Allen, interpretato alla perfezione da Grant Gustin nel serial Flash, che non a caso non riscuote le simpatie di Snyder. Un universo caratterizzato dal concetto di legacy, di eredità eroiche che passano di generazione in generazione, di grandi amicizie. Snyder è l’uomo giusto per far conoscere al pubblico di tutto il mondo la ricchezza di un tale affresco? Una domanda che è lecito porsi.

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Ci sono cose buone, in BvS, a partire dal Batman di Ben Affleck, che avrà presto un film standalone da lui diretto e interpretato. Affleck ha dimostrato di essere un ottimo autore, fin dai tempi di Gone Baby Gone, e con lui il Crociato Incappucciato è in ottime mani. Stesso discorso per la rivelazione del film, la Wonder Woman di Gal Gadot di cui uscirà l’anno prossimo il film in solitaria diretto da Patty Jenkins.
Zack Snyder è un buon regista (il suo Watchmen è un film da rivalutare), ma al secondo tentativo mostra chiaramente di non comprendere appieno le icone che la DC gli ha messo a disposizione. Viviamo nuovamente in tempi cupi, e abbiamo bisogno che questi personaggi amatissimi tornino ad ispirarci. Forse con un altro condottiero potranno farlo.

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