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Hypericon, recensione: amarsi a Berlino a fine anni '90

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A vedere le numerose e disordinate file di lettori in paziente attesa di una dedica alla scorsa edizione di Lucca Comics and Games o a leggere del successo del tour promozionale che ha accompagnato l’uscita di Hypericon - il suo ultimo libro - la rivolta degli appassionati bonelliani, che avevano mal digerito le copertine con cui Manuele Fior aveva impreziosito la bella, ma effimera serie di Mercurio Loi, pare oggi un evento dimenticato, perso nelle nebbie del tempo. In realtà, il riferimento è a pochi anni fa e l’autore cesenate, a dispetto del plauso della critica e dei buoni risultati commerciali ottenuti con Cinquemila chilometri al secondo (opera che gli era valsa il Gran Guinigi a Lucca nel 2010 e il Fauve d’or al Festival di Angoulême l’anno successivo), solo di recente ha raggiunto una fama tale da garantirgli l’interesse di una platea composta non soltanto da semplici amanti della Nona Arte. Non stiamo parlando di un seguito comparabile a quello di Zerocalcare - un fenomeno unico e, per certi versi, irripetibile (almeno nell’immediato) – ma è innegabile che ogni nuovo volume che porti la firma di Fior, sia diventato un’attrattiva irresistibile per quella generazione di lettori che - cresciuta libera da antiquati cliché culturali - considera finalmente il fumetto solo un mezzo espressivo alternativo a cinema e letteratura.

In Hypericon, dopo la parentesi fantascientifica di Celestia, Fior decide di tornare a una dimensione più quotidiana, riavvicinandosi a quelle tematiche che avevano caratterizzato buona parte dei suoi primi lavori, con un esplicito richiamo nostalgico per un periodo storico che lui stesso - come ha confermato in varie interviste - ha vissuto con il medesimo ardore di Teresa e Ruben, i due personaggi principali del libro. La vicenda, infatti, è ambientata nella Berlino di fine anni Novanta, quando nella capitale tedesca, più che in altre metropoli europee, era realmente possibile assaporare l’energia e l’ottimismo seguiti alla fine della Guerra Fredda, tanto che, diventata il polo di attrazione dei giovani dell’intero continente, ansiosi di condividere con i coetanei locali libertà mai pienamente godute fino a quel momento, la città trasmetteva un’incontenibile voglia di vivere alimentando, al contempo, la speranza di un futuro aperto a ogni opportunità. Tutte sensazioni inseguite anche dal ventitreenne Fior, che ha abitato a Berlino negli stessi anni raccontati nel libro. Facile capire, quindi, perché l’autore romagnolo abbia voluto rivivere con i due protagonisti i sogni e i desideri di allora, caratterizzando entrambi con un intento dichiaratamente autobiografico.

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Ci saremmo aspettati, tuttavia, che fosse Ruben, con la sua esuberanza un po’ anarchica, tipica della post-adolescenza e di tutti coloro che possiedono un’anima artistica, a mostrare le somiglianze maggiori con il giovane Fior “berlinese”. Invece, ci è parsa la razionale Teresa il personaggio in cui l’autore abbia deciso di specchiarsi di più. Un’impressione che deriva non solo dal fatto che la ragazza si trova in Germania per l’allestimento di una mostra dedicata a Tutankhamen (l’archeologia è una nota passione di Fior e una delle occupazioni che hanno preceduto il suo ingresso ufficiale nella letteratura disegnata), ma anche per l’insonnia di cui lei soffre, un disturbo patito spesso dal fumettista, pure nel periodo nel quale ha concepito la trama di Hypericon. Se la nostra ipotesi si rivelasse corretta, la scelta risulterebbe senz’altro singolare, sebbene sia molto probabile che essa dipenda unicamente dalla maggior sintonia verso i character femminili manifestata dall’autore in tutte le sue opere. C’è anche da dire che i due ragazzi potrebbero semplicemente rappresentare il modo in cui egli vede sé stesso in due diversi momenti della vita, con Ruben a impersonare effettivamente la sua giovinezza e Teresa, all’opposto, la sua maturità.

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Comunque sia, Fior ha raccontato di aver imbastito la vicenda narrata nel libro durante il lockdown parigino seguito ai primi giorni di pandemia, pertanto, note autobiografiche a parte, l’aspetto della storia che emerge con più forza è il comprensibile desiderio di evadere da quella realtà claustrofobica. E non è un caso che – oltre ai bei ricordi passati - sia di nuovo l’antico Egitto a essere utilizzato per questo scopo. Prima di fare la conoscenza di Teresa e Ruben, infatti, veniamo catapultati negli ultimi mesi del 1922, quando nell’area del deserto egiziano nei pressi di Luxor nota come Valle dei Re, l’inglese Howard Carter fece una delle più sensazionali scoperte archeologiche del XX secolo, la tomba ancora intatta del faraone Tutankhamen (il quale diventa, quindi, l’anello di congiunzione tra gli eventi reali di inizio Novecento e le vicende fittizie dei due personaggi principali). Il suggestivo resoconto di quel memorabile avvenimento si ripresenta più volte nel racconto, attraverso periodiche digressioni, dove i dialoghi sono sostituiti da brevi didascalie contenenti alcuni estratti del diario di Carter, nelle cui ammalianti pagine vediamo perdersi la stessa Teresa, nel vano tentativo di combattere l’insonnia, ma anche allo scopo di prepararsi al meglio per il suo incarico nella capitale tedesca. Fior non nasconde la propria fascinazione per quei passaggi, che rappresentano forse i momenti di maggiore immedesimazione con la giovane protagonista, la cui difficoltà a prendere sonno fa assumere agli intermezzi nel passato pure una chiara valenza onirica. D’altra parte, sognare o fantasticare, sono i due modi più immediati per separare la mente dalla frustrazione derivante da qualsiasi tipo di malessere. Le atmosfere sognanti, tuttavia, sono anche uno degli elementi che compaiono con maggior frequenza nelle opere di Fior, tanto quanto le riflessioni sullo scorrere del tempo, al quale è inevitabile associare la rielaborazione dei suoi anni berlinesi compiuta con Teresa e Ruben, ma pure l’evento traumatico che interrompe il senso di spensieratezza che permeava fino a quell’istante la vicenda principale.  Un brusco risveglio, da cui ci si allontana nelle pagine finali tornando ancora una volta all’antico Egitto, quando l’autore – sempre aiutato dal testo di Carter - si concede una piccola licenza poetica, per unire romanticamente la trama dei due giovani immigrati italiani al malinconico gesto di addio di una regina per il suo sposo defunto.

Per quanto riguarda la narrazione in senso stretto, Fior, come di consueto, lascia che siano la naturalezza e la leggerezza a farla da padrone. I dialoghi sono semplici e sinceri, così come i comportamenti dei due protagonisti, persino nelle scene di sesso, sorprendentemente esplicite, eppure delicate e per nulla artificiose. Di conseguenza, difficile per i lettori più giovani non immaginarsi nelle vesti di Teresa e Ruben o, per i più anziani, non rammentare quelle sensazioni perdute.

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Inutile sottolineare, inoltre, quanto l’apporto dei disegni risulti fondamentale in questo percorso emozionale. Tolto, infatti, qualche omaggio all’architettura berlinese, il tratto sfumato di Fior non permette a chi decide di avventurarsi nelle pagine del volume di concentrare l’attenzione su qualcosa che non siano i due scenari del racconto, già a partire dalle morbide pennellate iniziali che introducono il lettore al deserto egiziano. I colori, poi, sono quasi sempre luminosi e tendono ad affievolirsi leggermente o a ingrigirsi parzialmente solo nella rappresentazione delle gelide giornate della città tedesca. Pure nelle scene notturne e nell’oscurità delle tombe egizie, i dettagli e i volti dei personaggi sono costantemente rischiarati da calde tonalità pastello. E benché le figure dei protagonisti a volte sembrino rarefarsi, mischiandosi con l’ambiente circostante, i loro occhi non perdono mai in espressività.

Un nuovo lavoro di altissimo livello per Fior, a cui la Coconino ha contribuito con una bellissima edizione del libro. Uno splendido cartonato di grande formato, realizzato con carta di ottima qualità, in grado di assicurare la massima resa possibile alle evocative tavole dell’artista romagnolo.

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Survilo, la ragazza di Leningrado, recensione: una storia di resistenza nella Russia del '900

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Se le nostre vite hanno un senso è quello di tramandare il nostro vissuto ai posteri, la nostra storia rappresenta la nostra vera eredità, a maggior ragione se la propria vicenda personale apre una finestra su una triste pagina collettiva dimenticata e nascosta. La storia narrata da Olga Lavrenteva è drammatica e reale e, purtroppo, non eccezionale in quanto comune a decine di migliaia di persone. Di origine russa, Lavrenteva è una delle artiste più interessanti dell'est Europa e la vicenda che ha scelto di illustrare è quella di sua nonna Valja Survilio e della sua resistenza a Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale.

La vita di Valja trascorreva come quella di tutte le altre bambine dell'epoca, insieme ai genitori e alla sorella, finché un giorno non accadde la “disgrazia”, così come denominata dalla stessa protagonista. È il novembre del 1937 quando Vikentij Survilo, padre della ragazza e caposquadra in un cantiere navale di Leningrado, viene arrestato sul lavoro con l'accusa di essere una spia e un sabotatore. Un'accusa che si rivelerà, solo decenni dopo, come del tutto infondata. L'uomo sparisce nel nulla e da quel momento la vita della famiglia di Valja, marchiata come “nemica del popolo”, diventa un inferno sempre maggiore.

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Con sua madre e sua sorella sarà costretta a fuggire dalla sua città, a cercare di ricostruire una vita, andare avanti nonostante tutto fra la fame e la miseria sempre sotto il marchio di un'infamia mai commessa. Nonostante tutto, Valja riesce a studiare e a ottenere un posto come assistente infermiere in un ospedale carcerario vicino Leningrado. Ma nel frattempo, la Russia entra in guerra costretta a scacciare l'invasore tedesco. Saranno anni per Valja caratterizzati da una resistenza durissima, l’ospedale diventa quasi una prigione da cui è impossibile uscire, in cui i morti si accatastano l'uno sull'altro, le bombe cadono costantemente dal cielo e il cibo è composto più da aria e acqua che da altro. Poi, la fine della guerra, la certezza che il peggio è ormai le spalle, ma che c'è ancora da lottare per andare avanti.

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Survilo, la ragazza di Leningrado è un'opera potente e matura. Non c'è solo da parte dall'autrice la voglia di raccontare, insieme a un lungo lavoro di ricerca e documentazione, la triste vicenda vissuta dalla nonna, costellata di drammi e lutti, ma la storia sepolta di un'intera nazione, di tante donne e uomini che hanno subito ingiustizie, vessazioni, che hanno patito la fame e gli orrori della guerra. Una vita che gli ha tolto la gioventù e i cui segni resteranno indelebili per il resto dei suoi giorni. L'opera ha la potenza di un romanzo popolare, caratterizzata da una narrativa semplice e coinvolgente, precisa nello scandire gli eventi e che non lesina durezze ma che non indugia in esse. Uno stile, dunque, diretto, che non cede né a sentimentalismi né al vittimismo, così come non eccede nel dramma risultando equilibrato per tutto il tempo.

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Un nero asfissiante compone le tavole del graphic novel, quasi come se volesse avvolgere la protagonista fino a farla scomparire. Il bianco, così, sembra tagliare quest'oscurità, scandendo le vignette cupe e angoscianti. Il segno di Lavrenteva è ruvido, duro, così come i volti scavati dei suoi protagonisti. Le tavole sono evocative, bastano pochi tratti all'autrice per delineare quel mondo che oggi sembra così distante, ma che gli orrori della guerra e dei regimi rendono ancor attuali. Le pagine, dunque, contengono elementi spesso sfumati, ma l'attenzione è sempre rivolta ai volti, ai corpi, a volte anche agli sfondi, quando tutto ciò non viene annerito e inglobato dall'oscurità. La costruzione delle tavole è sempre ricca, a volte lineare altre irregolare, mai ingabbiata in uno schema preciso.

Coconino Press porta in Italia Survilo, la ragazza di Leningrado di Olga Lavrenteva in un volume massiccio e ottimamente curato. È raro che un fumetto russo arrivi in Italia e, considerando il periodo storico e l'oggetto stesso del racconto, rappresenta una lettura caldamente consigliata.

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Arriva Brick, la nuova collana Coconino Press curata da Ratigher

  • Pubblicato in News
Coconino Press ha presentato la sua nuova collana, che si chiama Brick, curata da Ratigher. Ecco come l'editore l'ha presentata:

"Arriva BRICK, la nostra nuova collana che racchiuderà tutti quei volumi fuori da qualsiasi schema o formato, non solo editoriale ma anche sinaptico.
Questa nostra prossima avventura sarà interamente curata da Ratigher, che così la descrive:
"Brick, mattone, il parallelepipedo semplice che nelle pagine della striscia di Krazy Kat, da cui Coconino ha tratto anche il suo nome, viene scagliato dal topo Ignatz contro la nuca del povero gatto procurandogli ogni volta l’effetto di pazzo innamoramento. Come una freccia di cupido ma più pesante e irrazionale. Brick ospiterà opere estreme, semplicissime o difficilissime, senza mediazioni o filtri che le rendano più accessibili, come occasioni inattese o carte “imprevisto” del Monopoli.
Libri unici nell’accezione adelphiana, oggetti contundenti lanciati contro i più curiosi dei lettori, storie pronte a farsi amare incondizionatamente come un uovo o una collisione di pianeti. Ogni mattone della collana Brick non andrà a costruire una casa comune, ma a creare una collezione di edifici in potenza, da cui vi suggerisco di farvi cogliere alle spalle e cadere al tappeto in dolce languore. Se “Brick” fosse un’onomatopea, sarebbe il rumore di un lettore stupefatto.""

Di seguito il logo di Brick è stato realizzato da Leonardo Guardigli.
 
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Sono stati, poi, annunciati i primi titoli con Eldorado di Tobias Tycho Shalken in uscita domani. Ecco gli altri volumi con le prime immagini diffuse.
- Eldorado - Tobias Tycho Shalken
- 2120 - George Wylesol
- Culto - Nicolò Pellizzon
- Scollatura profonda - Conor Stechschulte
- Jungle Justice - Lise e Talami
- Aaron - Ben Gijsemans

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Nessun altro, recensione: il ritorno al fumetto di R. Kikuo Johnson

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Spesso e volentieri si sente dire che per un artista la realizzazione di una seconda opera, soprattutto alla luce di un grande successo ottenuto al debutto sulle scene, sia una delle sfide più difficili. La paura del flop o del non essere all'altezza con il lavoro del proprio esordio, portano spesso al cosiddetto one-hit wonder.
Uno che di sicuro ha dovuto lottare con questa problematica è R. Kikuo Johnson. 15 sono difatti gli anni che separano il primo lavoro del fumettista da Nessun Altro, volume appena portato in Italia da Coconino Press, se si esclude infatti l'opera per bambini The Shark King.

Dopo il clamoroso successo di critica di Night Fisher - osannato da artisti del calibro di Craig Thompson (Blankets) - l'autore ha meditato a lungo sul suo nuovo graphic novel, scartando puntualmente tutte le idee. Si è quindi buttato letteralmente a capofitto nel mondo dell'illustrazione dove ha ottenuto sempre maggior riconoscimento, grazie soprattutto alle sue copertine per il New Yorker. Ma tanta attesa, ad ogni modo, non ha portato ad una storia epica - narrativamente parlando -, ad un setting super ricercato o ad un lavoro di ricerca storica estremamente dettagliato. Ma a un racconto intimo, piccolo e familiare.

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Al centro di Nessun Altro troviamo una famiglia disfunzionale che, dopo la morte del padre anziano, deve ritrovare il proprio equilibrio. L'uomo, malato da tempo, era accudito dalla figlia Charlene, a sua volta madre del piccolo Brandon. A loro si aggiunge Robbie, fratello della donna, musicista di ritorno dall'Australia, ignaro della morte del proprio genitore. Dopo la morte del padre, infatti, la donna si licenzia e inizia a studiare per i test di medicina in maniera ossessiva, chiudendosi al punto tale da trascurare completamente il figlio e da non avvertire nemmeno suo fratello.
L'uomo, tornato a casa, cerca a suo modo di raccogliere i pezzi della famiglia, provando a fare da guida al nipote e spronando la sorella, dovendo - contemporaneamente - trovare un punto di incontro tra il suo passato e il presente.

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Il tragico evento da cui parte il racconto di Johnson sembra sfiorare solo in superficie le persone coinvolte, ma in realtà rappresenta per loro una svolta importante. Quel padre diventato ormai quasi vestigiale nella sua esistenza, rappresentava in realtà un inaspettato collante per le vite dei suoi due figli.
Pur con i contrasti e le contraddizioni, l'uomo era per loro un punto fermo e, senza di lui, pienamente liberi, rischiano ora di andare alla deriva. Giunge dunque il momento di assumersi le proprie responsabilità e Johnson mette in scena questo piccolo dramma familiare caratterizzato da una costruzione lenta, con un intreccio lineare ma efficace nel definire il carattere dei personaggi.

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Nessun Altro è pubblicato da Coconino nel formato originale dell'opera, un cartonato orizzontale formato 22 x 17 cm in cui le tavole sono tendenzialmente costituite da 2 strisce generalmente regolari nella loro suddivisione e che concedono poche variazioni sul tema.
La carriera da illustratore, oltre a garantire a Johnson introiti maggiori rispetto a quella da fumettista, gli ha consentito di lavorare sul suo stile, non solo per catturare l'iconicità di un singolo momento ma per modellare la sua matita in una sintesi sempre più efficace. Basti guardare le tavole di Night Fisher e compararle a quelle di Nessun Altro: il tratto spesso e greve della china, le linee irregolari, i chiaro scuri molto netti, lasciano ora il posto a una tratto pulito, sottile e maggiormente regolare, a vignette rigide nella loro suddivisione e a un chiaroscuro più luminoso e delicato. Per intenderci, se prima potevamo avvicinare graficamente Johnson al sopracitato Thompson, ora siamo più dalle parti del collega illustratore Adrian Tomine.
Anche la scelta cromatica è interessante: la bicromia bianco/nero è sostituita dalla più fredda bianco/blu, come a sottolineare un distacco emotivo maggiore grazie a un colore freddo. Ci pensa, tuttavia, l'incursione dell’arancione a creare quella variazione emotiva necessaria.

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