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Batman '89, recensione: ritorno nella Gotham City di Tim Burton e Anton Furst

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Il Batman del 1989 diretto da Tim Burton, frutto di una battaglia durata dieci anni combattuta dal produttore Michael Uslan per portare sul grande schermo una versione del Cavaliere Oscuro finalmente dark e coerente con le sue origini, si rivelò a sorpresa un successo straordinario, come ricorderanno le tante persone che all’epoca si misero in fila davanti ai botteghini del cinema per assistere alla proiezione di una pellicola attesa per anni. Primo esempio di cinecomic moderno, se si esclude il pioneristico Superman del ’78 firmato da Richard Donner, e precursore di una sinergia tra cinema e una strutturatissima strategia di marketing che, grazie all’iconico logo di Batman, travolse il mondo generando una “Batmania” di lunga durata.

Le dimensioni del trionfo del film furono tali che un sequel fu inevitabile. Per girarlo Burton, che era ormai un autore riconosciuto ed affermato grazie al successo di critica di un progetto personale come Edward Mani di Forbice, pretese il controllo creativo totale che non aveva avuto per il film del 1989. Batman Returns del 1992 è un film che, rispetto al prototipo, è fatto ad immagine e somiglianza del suo regista. Pellicola cupa e pessimista che riscosse un grande successo di critica ma che sconvolse una buona fetta di pubblico, come alcune associazioni dei genitori, vivaci e pittoresche realtà dello showbiz a stelle e strisce, e gli sponsor come McDonald’s, più interessato a produrre “happy meal” ispirati al film che alla qualità del film stesso. Così le strade tra Batman e Tim Burton si separarono e, con Batman Forever del 1995, le sorti cinematografiche del Crociato Incappucciato vennero affidate a Joel Schumacher.

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La curiosità di sapere come sarebbero andate le cose se il regista di Burbank fosse rimasto alle redini del franchise cinematografico del Pipistrello di Gotham City non ha mai abbandonato i fan delle prime due pellicole. A questo interrogativo risponde Batman ’89, miniserie scritta dallo sceneggiatore della prima pellicola di Burton, Sam Hamm, e illustrata da Joe Quinones, vero promotore dell’iniziativa. Nel 2016 alcune “concept art” realizzate da Quinones per un pitch riguardante un'eventuale serie denominata Batman ’89, scritta da Kate Leth e disegnata da lui, fecero capolino su internet e sui social. L’artista, grande fan della pellicola, sperava che la DC Comics, sull’onda del successo di un’ altra serie nostalgica come Batman ’66, desse il via libera al progetto ma così non fu. O almeno non subito. Lo scorso anno l’editore si è convinto a dare il semaforo verde alla serie sotto forma di mini di sei numeri, che arriva finalmente sugli scaffali delle fumetterie italiane grazie a Panini Comics.

Rispetto al pitch del 2016 il progetto ha acquistato ulteriore spessore, grazie al coinvolgimento di Sam Hamm che sostituisce la Leth ai testi. Non si tratta della prima volta in cui lo sceneggiatore si cimenta col mondo del fumetto: proprio nel 1989, per festeggiare i 600 numeri di Detective Comics, aveva scritto una importante saga in tre parti disegnata da Denys Cowan, Blind Justice, che aveva introdotto il personaggio di Henri Ducard, vecchio mentore di Bruce Wayne.

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Batman ’89 inizia dove Tim Burton ci aveva lasciato. È passato un anno dagli eventi di Batman – Il Ritorno e la città è di nuovo sotto attacco della criminalità. Bande di seguaci del Joker, defunto al termine del primo film, mettono a segno un colpo dopo l’altro tra cui un audace colpo ad un blindato porta valori sventato da Batman, ma non senza danni a cose e a persone. Il procuratore distrettuale Harvey Dent decide di prendere in mano la situazione, aiutato dalla fidanzata Barbara, figlia del Commissario Jim Gordon e poliziotta essa stessa col grado di sergente. Mosso non solo dal desiderio di servire la legge, ma anche da una discreta dose di ambizione personale, Dent si imbarca in una crociata anticrimine e anti-vigilante al tempo stesso, individuando nella figura di Batman un'inaccettabile anomalia di autoproclamato giustiziere. Per il Cavaliere Oscuro si prospetteranno tempi duri, non potendo più contare sul dimissionario Gordon, e dovrà affrontare Dent in una doppia veste: prima in quella di infaticabile servitore della legge e successivamente, come da copione, in quella criminale di Due Facce. Anche in Batman ’89, infatti, il destino del procuratore distrettuale è segnato, e un incidente lo sfigura orribilmente, minandone la salute mentale. Bruce, mai nei guai come in questo momento, potrà contare solo sull’aiuto del fidato Alfred e di Drake Winston, una ragazzo dei bassifondi esperto di motori che ha già iniziato in segreto una carriera di vigilante notturno. Una sentinella della notte che forse, in un altro universo, avremmo potuto chiamare Robin.

Batman ’89 non si limita a giocare su un ovvio elemento nostalgico. Hamm e Quinones, pur nella cornice fornita dal classico di Tim Burton, realizzano una storia perfettamente autonoma e fruibile anche da chi non ricorda ogni singola battuta del film. Lo scrittore si diverte ad introdurre elementi classici del fumetto (come Barbara Gordon, Robin o il ghetto di Burnside) nel contesto dell’universo della pellicola dell’89, adeguandoli al suo stile e al suo contesto. È un adattamento del materiale originale, secondo un’ottica che già all’epoca guardava più alla possibile resa sullo schermo che alla fedeltà pedissequa al materiale cartaceo, come nel caso dei cambiamenti apportati al personaggio di Robin o la scelta di Billy Dee Williams e Marlon Wayans, due attori afroamericani, per la parte di Harvey Dent e dello stesso Robin. Proprio la presenza di questo personaggio rappresenta forse la curiosità maggiore del volume. Sam Hamm aveva effettivamente previsto la presenza di Robin nel primo lungometraggio ma il personaggio venne tagliato per non appesantire una pellicola già molto lunga (i tempi delle maratone cinematografiche targate MCU erano ancora molto di là da venire).

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Si tentò di inserire Robin anche in Batman Returns, tre anni dopo, ma il personaggio venne nuovamente tagliato per gli stessi motivi, nonostante il giovane Wayans fosse stato già scritturato per il ruolo e avesse firmato un contratto per interpretare l’aiutate di Batman in più film. Cosa che non accadde mai, ma il contratto dell’attore venne onorato facendo si che Wayans ricevette il suo regolare compenso senza aver mai indossato il costume di Robin. Una mancanza a cui Batman ’89 rimedia, rendendo questo Robin alternativo il personaggio più interessante di tutta la miniserie. Hamm porta a conclusione l’arco narrativo dell’Harvey Dent di Billy Dee Williams e la sua trasformazione in Due Facce, sviluppo prevedibile che non aveva fatto in tempo a compiersi sul grande schermo, oltre a riportare in scena un personaggio indimenticabile come la Catwoman di Michelle Pfeiffer, il tutto reso dai disegni plastici di Joe Quinones. Il disegnatore fornisce la prova migliore della sua giovane carriera, dimostrando tutta la passione riversata nel progetto da lui tanto voluto. L’artista riesce a fondere l’iconografia ormai classica delle pellicole di Batman, dalle fattezze degli attori alle indimenticabili scenografie della Gotham cinematografica firmate dal compianto Anton Furst, con uno storytelling adrenalinico e moderno che non potrà fare a meno di avvincere il lettore. Perfettamente complementare ai disegni di Joe Quinones è la palette scelta dal colorista Leonardo Ito, dove domina quel colore viola che, oltre ad essere il colore chiave del film dell’89 e del Joker di Jack Nicholson, era anche la tonalità prevalente della classica movie adaptation colorata da Steve Oliff.

Nonostante siano tanti gli elementi che richiamano gli anni in cui uscirono il film e il suo seguito, come le reali rivolte nei ghetti che allora erano all’ordine del giorno e che vengono ricordate anche dagli autori nel corso della trama, Batman ’89 non è solo la rievocazione nostalgica di un tempo ormai perduto, è - soprattutto - un’ottima storia del Cavaliere Oscuro che merita di essere letta anche da chi non era ancora nato negli anni in cui Tim Burton dirigeva le sue indimenticabili bat-pellicole.

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Superman / Batman: Generazioni, recensione: l'epopea generazionale di John Byrne

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John Byrne è stato un esponente chiave del rinascimento del fumetto americano nel corso dei fatidici anni ’80, uno dei primi autori ad assurgere al ruolo di vera e propria superstar seguita da legioni di fan pronti ad acquistare qualsiasi testata realizzata dall’autore anglo-canadese. Dalla fine agli anni ’70, con il leggendario ciclo di Uncanny X-Men in coppia con Chris Claremont, passando attraverso gli anni ’80 segnati dalla lunghissima run su Fantastic Four e dal rilancio di Superman fino al ritorno in Marvel tra la fine del decennio ed i primi anni ’90 con successi come Avengers West Coast, Sensational She-Hulk e Namor, Byrne inanella una serie infinita di successi di pubblico e critica trasformando in oro tutto ciò che tocca. Poi qualcosa, col cambio di decade, si inceppa. Il feeling col grande pubblico, che non si era praticamente mai interrotto fin quasi dal suo debutto, subisce un ridimensionamento improvviso.

Byrne può contare certamente su uno zoccolo duro di fan che lo segue ovunque, come nell’avventura di Next Men, realizzato fuori della “comfort zone” garantita da Marvel e DC, che esce per la Dark Horse nel 1991. Ma stanno cambiando i tempi e stanno cambiando i gusti. Nel 1992 nasce la Image Comics, fondata dai sette transfughi della Marvel capitanati da Todd McFarlane, Jim Lee e Rob Liefeld che in pochi anni, con collane che segnano record di vendite tutt’ora imbattuti come Spider-Man, X-Men e X-Force, hanno imposto uno stile grafico aggressivo e dirompente, seppur declinato dai tre in modo diverso, che straborda di azione spaccando letteralmente l’organizzazione classica della tavola. La “stile Image” contamina anche la produzione delle due major, oltre a provocare la nascita di etichette dal successo effimero determinate a cavalcare la moda del momento.

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Come contraltare a questo modo “tamarro” di fare fumetto, basato più sull’apparenza che sulla sostanza, si afferma negli stessi anni presso la DC Comics una produzione più letteraria, i cui alfieri sono i giovani autori inglesi della “British Invasion”, che sfocerà nella creazione della prestigiosa etichetta Vertigo. Ecco che in un “comicdom” che muta pelle nel giro di pochi anni, un autore come Byrne che ha sempre fatto del “back to the basics”, il ritorno alle origini, il suo motto, appare improvvisamente e ingiustamente datato. Mentre un autore coevo suo grande amico come Frank Miller trova un porto sicuro creando la saga noir di Sin City, che lo terrà occupato per tutti gli anni ’90, l’artista anglo-canadese si rifugia nella rivisitazione di un supereroismo di matrice classica, che sembra superato negli anni di maggior successo degli eroi steroidati e violenti targati Image.

In realtà opere come il lungo ciclo su Wonder Woman e Jack Kirby’s Fourth World, che lo tengono occupato negli anni che vanno dal 1995 al 1998, anticipano la tendenza che dominerà i comics di fine anni Novanta, ossia il ritorno in pompa magna del classicismo e la sua celebrazione come reazione alla lunga “sbornia” tamarra dovuta al successo dello stile “Image”. La summa del percorso controcorrente intrapreso da Byrne in questo controverso decennio è rappresentata da Superman/Batman: Generazioni, miniserie del 1999 che ha generato due sequel pubblicati rispettivamente nel 2001 e nel 2003, materiale che ora viene raccolto integralmente da Panini Comics in uno splendido omnibus.

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Per Batman e Superman, come per tutti gli eroi classici, gli anni ’90 sono stati un periodo terribilmente complicato. Saghe come La Morte di Superman o Knightfall, in cui un Cavaliere Oscuro reso invalido da Bane viene sostituito dal vigilante psicotico corazzato Azrael, rispondono al tentativo della DC di tenere al passo con nuovi tempi più oscuri le avventure delle sue due principali icone. Per la saga che ha in mente, Byrne deve avere mano libera rispetto al passato recente dei due personaggi: per questo sceglie di pubblicare Generazioni tra gli Elseworlds, la linea editoriale della DC Comics dedicate alle storie ambientate in mondi alternativi molto popolare all’epoca. La natura immaginaria della storia, dove per immaginaria si intende slegata dalla continuity ufficiale, consente all’autore di operare un "back to the basics" totale dei personaggi, tornando agli anni e all’atmosfera del loro debutto.

Byrne imbastisce una saga ambiziosissima che parte dal 1939, anno di debutto di Batman (Superman aveva esordito un anno prima), per poi svolgersi in tempo reale decennio dopo decennio. I personaggi quindi invecchiano, e l’Uomo d’Acciaio e il Crociato Incappucciato lasceranno progressivamente il campo ai loro eredi, anche se sorprenderanno il lettore con continui ed eterni ritorni di cui non sveliamo nulla per non rovinare il gusto un’eventuale lettura. La miccia di questa saga complessa e dal plot intrecciato si accende con l’incontro tra Superman e Batman a Gotham City alla fine degli anni ’30, dove dovranno superare la reciproca diffidenza e collaborare per debellare la minaccia di Ultra-Humanite. Nascerà un’amicizia che attraverserà i decenni e, nelle due serie successive, anche i secoli.

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Senza perdere tempo in un inutile riassunto di una trama molto articolata e complessa, diremo che la narrazione di Generazioni procede con salti di decade in decade, in modo che ciascun capitolo rappresenti l’omaggio di Byrne ad una particolare epoca della storia dei due personaggi e quindi del fumetto. Così dalla Golden Age di Jerry Siegel & Joe Shuster e Bill Finger & Bob Kane si passa alla Silver Age con le sue atmosfere fantascientifiche per poi arrivare alla Bronze Age con atmosfere nuovamente più cupe dagli anni ’70 in poi, capitolo in cui l’artista omaggia, tra gli altri, il grande Neal Adams, maestro che è stato il più grande punto di riferimento per il Byrne disegnatore. D’obbligo, ovviamente, una parte ambientata negli anni ’80, decennio che ha rappresentato il momento di maggior splendore nella carriera dell’autore, con un nuovo Batman particolarmente tetro che rimanda agli umori fumettistici di quegli anni. Da li in poi Byrne si proietta nel futuro, con l’entrata in scena di nuovi personaggi che vanno ad unirsi a quelli già presentati nei precedenti capitoli, e che vanno a comporre una vera e propria epopea dedicata alle dinastie Kent e Wayne.

Se Generazioni II ha il compito  sostanziale di riempire i buchi di trama lasciati in sospeso dalla prima miniserie, Generazioni III (inedita finora in Italia) è invece la tranche più ambiziosa del lotto, a partire dalle dimensioni. Una maxiserie in 12 episodi che racconta del piano di invasione della Terra, da parte degli accoliti di Darkseid, che si snoda attraverso i secoli. Un piano machiavellico e complesso costruito dal Signore di Apokolips attraverso viaggi nel tempo e quei paradossi temporali che da sempre sono un leitmotiv della produzione di Byrne, vedi alla voce Next Men.

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Superman/Batman: Generazioni non è stilisticamente uniforme, e corrisponde ad almeno due fasi diverse della carriera di John Byrne come disegnatore. Le prime due parti vedono all’opera il suo tipico stile di anni ’90, lontano dalla pulizia che le chine di collaboratori storici come Terry Austin conferivano al suo tratto negli anni ’80. È un segno più grezzo, meno attento agli sfondi ma più concentrato sulle figure che restano potenti e capaci di rubare l’occhio come ai vecchi tempi. Generazioni III vede Byrne alle prese con una sintesi del suo stile ancora più marcata. Il tratto è più grossolano, ma le tavole restano comunque di grande impatto e capaci di trasmettere tutta l’emozione che un fumetto di supereroi dovrebbe saper trasmettere. Sono pagine, quelle di questo splendido omnibus, che riporteranno il lettore della generazione cresciuta con Byrne alle origini della propria fascinazione per i comics. La ragione sta nella capacità dell’autore di cogliere l’essenza del genere, cioè il gusto per l’avventura di stampo classico che ha saputo declinare lungo il corso della sua straordinaria carriera. Avventura accompagnata come sempre da matite eleganti e potenti, che lo hanno reso un beniamino per generazioni di fan. Aggiungiamo però che, per apprezzare appieno Generazioni, è necessario recuperare la fascinazione per la meraviglia che ci caratterizzava come lettori da ragazzi. Essere disposti a farci avvolgere e cullare da un sense of wonder ormai perduto e di cui queste pagine sono piene.

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Speciale Batman - Il Ritorno: La favola dark di Tim Burton

  • Pubblicato in Focus

L’11 settembre del 1992 usciva nei cinema italiani, a distanza di circa tre mesi dal debutto statunitense, Batman – il Ritorno ovvero Batman Returns, secondo capitolo del dittico dedicato da Tim Burton al Cavaliere Oscuro e al suo mondo. Un sequel messo in cantiere all’indomani del grandissimo successo del Batman del 1989, straordinario ed insperato. La scommessa del produttore Michael Uslan, quella di produrre una versione cinematografica dark del personaggio riportandolo alle sue origini, affidando la regia a un giovane visionario al primo grande incarico della sua carriera, aveva pagato. E aveva pagato in modo clamoroso: il trionfo al botteghino del film e una campagna di marketing e merchandising mai vista prima generò una “Bat-Mania” che travolse il globo. Il logo di Batman era ovunque, e le canzoni scritte da Prince per la pellicola si ascoltavano dappertutto. Ci si trovava davanti ad uno dei primi, veri, fenomeni mass-mediali della storia della comunicazione moderna.

Abbiamo già raccontato in un lungo speciale in quattro capitoli la lunga strada e tortuosa strada percorsa da Uslan per realizzare un film che nessuno voleva fare, almeno non in quel modo. La storia del suo sequel, Batman Returns, comincia invece in maniera opposta: tutti volevano il sequel di Batman. Lo volevano i produttori: Michael Uslan e i suoi soci Benjamin Melkiner, Jon Peters e Peter Guber, lo voleva la Warner Bros., che col primo film aveva realizzato il maggior incasso della sua storia. L’unico a volerlo un po’ di meno era Tim Burton che, ancora scottato dall’esperienza non facile sul set del primo film, segnata da ingerenze di ogni tipo, si era rifugiato in un progetto personale come Edward Mani di Forbice. Il filmaker faticava ancora a digerire le continue intromissioni di Jon Peters e della produzione sul set di Batman, che avevano prodotto continue riscritture della sceneggiatura che furono evidenti guardando il prodotto finito. La trama procedeva infatti per accumulo, una serie di scene che spesso non legavano una con l’altra. Il film fu comunque salvato dall’estro visivo di Burton e dal grande lavoro svolto in particolare da due suoi collaboratori: l’autore della colonna sonora Danny Elfman e lo scenografo Anton Furst, che creò una indimenticabile Gotham City. Per convincerlo a tornare, la Warner gli promise che stavolta avrebbe potuto infondere alla pellicola il suo tocco peculiare, senza alcuna interferenza esterna. E, come vedremo, Batman – Il Ritorno è uno dei film più “burtoniani” dell’intero curriculum del regista.

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Sam Hamm, sceneggiatore del primo capitolo, si mise subito all’opera e preparò uno script che però il regista giudicò non all’altezza, imperniato su una caccia al tesoro tra i protagonisti che sembrava mutuata da un classico come Il Mistero del Falco. Deciso a non accettare i compromessi che a suo dire avevano minato la lavorazione di Batman, pellicola di cui a tutt’oggi si ritiene non soddisfatto, Burton scartò la sceneggiatura di Hamm rivolgendosi a Daniel Waters, che la riscrisse con la collaborazione di Wesley Strick. Waters era noto per aver scritto Schegge di Follia, una commedia dark prodotta dall’abituale collaboratrice del regista, Denise Di Novi. E Burton trovò il giusto compendio alla sua visione del mondo e del cinema proprio nei toni oscuri e grotteschi del nuovo script.
Il regista che si siede alla cabina di regia di Batman – Il Ritorno non è più il ragazzo di belle speranze che aveva diretto il primo capitolo tre anni prima, e che aveva accusato la pressione di dover condurre in porto una delle più grandi produzioni che storia del cinema ricordasse fino a quel momento. Il successo di Batman ne aveva cementato la reputazione e l’affidabilità presso gli studios, ma è soprattutto il successivo Edward Mani di Forbice, che esprime compiutamente per la prima volta tutti gli elementi caratteristici della “poetica burtoniana”, a consolidare la percezione di Tim Burton come “autore” da parte di pubblico e critica. La consapevolezza di essere diverso, un escluso che non ha reali possibilità di inserimento nella società, una comunità di ipocriti da cui è considerato un freak: questo è il calvario vissuto da Edward, uno schema tipico delle successive opere del regista che verrà riproposto, seppur in modalità diverse, proprio a partire da Batman – il Ritorno. Che non sarebbe esagerato definire un cupo festival di freak.

Come già successo nel primo capitolo, anche stavolta la luce dei riflettori viene spostata dall’eroe del titolo ai suoi avversari, per una precisa scelta di Burton. E non potendo più contare sul Joker di Jack Nicholson, defunto al termine del primo film, la scelta si spostò su altri due villain iconici della galleria di nemici del Cavaliere Oscuro: il Pinguino e Catwoman, ovviamente rielaborati secondo il gusto del regista.
Nei fumetti il Pinguino è un gangster in frac e cappello a cilindro, cicciottello, di bassa statura e col naso pronunciato, proprietario di un nightclub, l’Iceberg Lounge, che è in realtà una copertura per le sue attività criminali. Porta sempre con se un ombrello che nasconde un gadget mortale. Tim Burton optò per un approccio meno convenzionale al personaggio.
Nelle mani del regista, Oswald Cobblepot diventa uno degli esempi più riusciti della vasta galleria di freak della propria filmografia. Nel film il Pinguino è un emarginato deforme (un mutante, avremmo detto se ci trovassimo in un altro universo a fumetti), respinto dalla famiglia per la propria diversità e costretto a vivere nelle fogne, dove viene accolto da una gang di circensi criminali di cui diventa il leader. Cova risentimento nei confronti della società e della popolazione di Gotham City, di cui spia la vita dai tombini sparsi per la città. L’occasione di vendicarsi gli viene offerta da Max Shreck, l’unico membro della triade di antagonisti proposti ad essere stato creato appositamente per il film. Shreck, il cui nome rimanda all’attore protagonista del Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau in un omaggio a quel cinema espressionista tedesco la cui influenza sulla pellicola è notevole, è l’uomo più ricco della città, un personaggio senza scrupoli nascosto dietro una facciata da benefattore. Vorrebbe costruire una centrale elettrica per fornire più energia alla città, mentre il suo vero scopo è sottrargliela. Un lupo travestito da agnello, insomma, che serve a Burton per fare satira sociale e rimarcare quanto l’interesse privato non possa mai coincidere con quello pubblico. Per realizzare il suo piano, il milionario si serve della smania di rivalsa di Cobblepot e lo candida a sindaco per poterlo manovrare una volta eletto, sfruttando la pietà che la cittadinanza prova per lui. Sentimento che si trasformerà nuovamente in repulsione e rigetto quando la natura criminale del Pinguino sarà di dominio pubblico.

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Burton, dopo Edward Mani di Forbice, dipinge nuovamente la parabola di un freak che riesce ad uscire per un breve momento dalla sua emarginazione per poi ripiombarvi in maniera definitiva. Ma il Pinguino sembra essere una versione oscura e distorta del mite Edward. Quella che rimane immutata è la sfiducia di Burton nei confronti della società, dipinta sempre come una massa di individui superficiali ed isterici. La simpatia del regista, come si evince dalla pellicola, è tutta per i “mostri”.
Originariamente Burton aveva pensato a Dustin Hoffman come ad un perfetto Pinguino, ma l’attore rifiutò. Jack Nicholson, in ottimi rapporti con la produzione dopo il grande successo del primo capitolo, suggerì di ingaggiare il suo grande amico Danny DeVito. Conosciuto prevalentemente per i suoi ruoli comici, DeVito fornì un’interpretazione eccellente, nonostante fosse reso quasi irriconoscibile dal pesante trucco, la cui sessioni superavano le quattro ore, e dalle protesi realizzate dallo specialista Stan Winston.

La vicenda del Pinguino costituisce l’architrave del film, ma Batman – Il Ritorno venne segnato da un’altra memorabile interpretazione, che contribuì in modo determinante alla riuscita della pellicola. Michelle Pfeiffer fornì una prova magistrale nei panni di Selina Kyle/Catwoman, dando forma alla particolare visione del personaggio contenuta nello script di Daniel Waters. Annette Bening era stata scelta per il ruolo ma, poco prima dell’inizio delle riprese, scoprì di essere incinta. Sean Young, che aveva perso la parte di Vicky Vale nel primo film a causa di un incidente, fece fuoco e fiamme per farsi assegnare quella di Catwoman, compreso piombare travestita da Donna Gatta negli uffici della Warner e in alcuni popolari talk show. Tim Burton, infastidito dalla vicenda, non ebbe dubbi nel scegliere la Pfeiffer. Lontana parente della ladra dei fumetti, Selina Kyle è qui la dimessa segretaria di Max Shreck, che per caso scopre i piani criminali del suo principale, il quale non ci pensa due volte ad ucciderla spingendola giù dalla finestra del suo ufficio. Salvata da una colonia felina, che le dona le nove vite di un gatto (licenza poetica di Waters rispetto alla versione dei comics), Selina rinasce nei panni di Catwoman, fasciata da capo a piedi da un avvolgente costume in latex nero.

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La Catwoman di Michelle Pfeiffer è senza dubbio il personaggio più complesso mai apparso nell’adattamento cinematografico di un fumetto, ed è il prototipo della donna dark che tornerà spesso nella filmografia del regista. La disamina psicologica del character farebbe la felicità di uno psicanalista. Nell’economia della trama del film Catwoman è una mina vagante che persegue un’agenda di vendetta e ossessioni completamente personale. La donna felina è una donna sessualmente liberata che deve perdonare a se stessa l’esistenza della sciatta e repressa Selina Kyle, ma deve anche chiudere i conti con Max Shreck, che l’ha uccisa. Nei confronti di Shreck c’è anche una rivalsa di carattere sociale, da impiegata che occupa uno degli scalini più bassi della società dominata da capitalisti come lui. Tanta carne al fuoco per un personaggio a cui la Pfeiffer da vita in modo superbo, truccata con ampie pennellate di fondotinta nero come una diva del muto.

Christopher Walken, nei panni di Max Shreck, chiude la galleria dei villains, regalando agli spettatori un’ottima performance. Tornerà a collaborare con Tim Burton in un altro dei suoi titoli classici, Sleepy Hollow. E Batman?
Michael Keaton ritornò al ruolo che lo aveva consacrato dopo tanti anni di gavetta, forte di un cachet record di 10 milioni di dollari, e lo fece portando avanti ed estremizzando il suo approccio nei confronti del personaggio, fatto di recitazione volutamente in sottrazione. Se nel primo film aveva lasciato il campo allo straripante Joker di Jack Nicholson, in questo secondo capitolo Batman è poco più di uno spettatore che accoglie sul cupo palcoscenico di Gotham City dei nuovi attori. Un Gargoyle silente guardiano della città. Se nel film c’è poco Batman, c’è ancora meno Bruce Wayne. Il manifesto della concezione che Keaton e Burton hanno del personaggio e della sua doppia personalità viene messo in scena con la sua prima apparizione, quando la luce del Bat-segnale illumina il salotto di una Wayne Manor desolata, con Bruce seduto e assorto nel buio. Quando la luce del segnale lo investe, scatta in piedi, come se da morto fosse improvvisamente tornato in vita. Burton sembra dirci che Bruce Wayne non esiste più, sepolto dal dolore del suo lutto, ed è solo un guscio vuoto che Batman deve interpretare di tanto in tanto in società. Ecco che ritorna la dicotomia inconciliabile tra il freak solitario e le convenzioni sociali, da cui ci si può liberare solo indossando una maschera. Un destino che accomuna Bruce e Selina e che è alla base della loro irresistibile attrazione.

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La lavorazione del film non fu priva di difficoltà. Per 3 anni la Warner aveva speso una considerevole cifra per tenere in piedi il set del primo film negli studi di Pinewood a Londra, per il quale Anton Furst aveva vinto un Oscar, ma nel 1991 non esistevano più le agevolazioni fiscali che giustificassero le riprese in Inghilterra. Si decise quindi di girare negli studi della Warner a Burbank, in California che vennero occupati per oltre la metà della loro capienza dal set del film. Particolare impegno richiese la costruzione della base del Pinguino, realizzata con una vasca di enormi dimensioni che poteva contenere fino ad un milione e mezzo di litri d’acqua. Per la scena dell’assalto finale dei pinguini, venne usato un mix di veri pinguini, attori in costume, animatronics realizzati dal già citato Stan Winston e pinguini generati al computer, con un uso allora avveniristico della tecnologia digitale.

L’indimenticabile Anton Furst, al cui straordinario lavoro era dovuta una parte non trascurabile del successo del Batman del 1989, non poté purtroppo tornare per il secondo capitolo. Per quanto il suo ritorno fosse nei desideri di Burton e della produzione, lo scenografo si era nel frattempo legato contrattualmente alla Columbia Pictures. Il 24 novembre del 1991, a seguito di una grave depressione dovuta a problemi personali e all’uso di droghe, Furst si suicidò gettandosi dall’ottavo piano di un parcheggio, privando il mondo del cinema e dell’arte di un geniale creativo senza pari.
Per sostituire Furst la scelta cadde su Bo Welch, che aveva già lavorato con Tim Burton in Beetlejuice. Welch partì dal lavoro di Furst, semplificando quel geniale ed eterogeneo mash-up conflittuale di stili che aveva caratterizzato la Gotham del primo film. La metropoli di Welch è una tipica città americana che si sviluppa in verticale, attraversata da elementi dell’architettura fascista del Terzo Reich con richiami ai pittori Precisionisti americani degli anni ’20. Il Precisionismo era una combinazione di realismo e cubismo, che affrontava il tema dell’industrializzazione e della modernizzazione del panorama americano, tramite l’uso di forme geometriche precise e definite. Queste due forti influenze combinate, quella americana e quella tedesca, aiutarono Welch a definire la visione della sua Gotham.

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Il set fu blindatissimo, e accessibile solo a chi fosse munito di apposito badge. A tal proposito gli aneddoti si sprecano, e il più celebre riguarda Kevin Costner, una delle maggiori star dell’epoca, a cui fu impedito di visitare il set. Ma nonostante i protocolli di sicurezza, cominciarono a circolare foto che ritraevano Danny DeVito nei panni del Pinguino. Chi scrive ricorda di averle viste in una nota rivista di settore dell’epoca, e di esserne rimasto scioccato.

Danny Elfman tornò componendo una nuova colonna sonora, sereno perché non doveva più dimostrare niente a nessuno, soprattutto a Jon Peters che aveva dubitato di lui prima di ascoltare l’iconica fanfara composta per il primo film. Il compositore fu entusiasta della volontà di Burton di realizzare un film completamente diverso dal primo e di non seguire strade già battute. Elfman paragonò la composizione della colonna sonora alla combinazione di "una solita musica da film d'azione, mixata con un frastuono operistico, con aggiunta di musica da film muto", citando così la sua esperienza come la più difficile nella sua carriera. Inoltre, comparò le sequenze d'azione a quelle di "composizione di un cartone negli anni '40". Elfman fu molto soddisfatto del risultato finale, scrivendo anche temi appositi per il Pinguino e Catwoman e riuscendo, con l’aiuto di Burton, ad imporre ben 95 minuti di musica, contro il volere dello studio, che avrebbe voluto limitare la parte operistica per inserire delle canzoni come quelle di Prince nel primo film. Alla fine l’unica canzone inserita nel film, per preciso volere del regista, sarà Face to face dei Siouxsie and the Banshees.

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Batman – Il Ritorno uscì negli Stati Uniti il 19 giugno 1992 e sorpassò il record di apertura del film precedente, incassando ben 47,7 milioni di dollari in tre giorni. L’incasso finale fu di 266 milioni di dollari in tutto il mondo, ben 150 milioni in meno dell’originale. E questo scarto ci dice anche qualcosa sulla difficile accoglienza ricevuta dal film. Il pubblico, che attendeva spasmodicamente un seguito da tre anni, si ritrovò davanti una favola nera, cupa e senza speranza, che esplicitava senza troppi fronzoli la visione pessimistica che Tim Burton nutriva per la società dell’epoca. Una comunità superficiale e dedita al consumismo, nuovo feticcio che aveva soppiantato le ideologie morte con la recente fine dell’Unione Sovietica. Il fatto che il film si svolgesse durante le festività natalizie, trionfo del consumismo oltre che momento dell’anno più amato dagli americani, rendeva la critica sociale più sferzante. Inoltre, la pellicola usava un’atmosfera tradizionale e rassicurante come quella natalizia per proiettare lo spettatore in un incubo, in cui Burton inserisce anche i clown e il circo, sua ossessione personale mutuata dall’amato Federico Fellini. Il film suscitò le ire delle associazioni dei genitori, che lo ritenevano troppo dark e non adatto ai bambini. La Warner Bros., che aveva firmato contratti miliardari per merchandising di vario tipo, compresi gli Happy Meal di McDonald, non faceva i salti di gioia. Certo, il film fu un grandissimo successo di pubblico e critica, che lodò quasi all’unanimità il lavoro di Burton, che propose allo studio di realizzare insieme un terzo capitolo. Ma già dai primi meeting, emerse la volontà della Warner di non proseguire il sodalizio con il regista e di immettere il franchise su un percorso prettamente pop, più adatto alle esigenze di marketing. Il risultato fu Batman Forever del 1995, in cui Burton rivestì il ruolo di produttore, scegliendo Joel Schumacher come suo successore. Il film si discostava nettamente per tono e atmosfere dai due precedenti, rivolgendosi alla generazione MTV.

Dopo aver abbandonato definitivamente Gotham City, Tim Burton si dedicò al suo progetto successivo, un piccolo gioiello d’autore in bianco e nero ispirato alla storia di un regista incompreso, Ed Wood. Una gemma che cementò la sua reputazione come autore.
Batman – Il ritorno ha superato egregiamente la prova del tempo. Un cinecomic d’autore denso di spunti, stratificato a più livelli, che ancora oggi suscita dibattiti e riflessioni. Una fiaba gotica, nera come la notte, che affronta temi complessi come la scissione dell’identità, il dualismo bene/male, l’esclusione sociale, con un cinismo lontano da qualsiasi rassicurante compromesso, un approccio che non avremmo mai più rivisto in una produzione del genere. La storia di Tim Burton e dei suoi Batman è la storia di un autore che si appropria di un personaggio e del suo mondo e vi inserisce la sua forte personalità, in un modo che oggi, con dozzine di cinecomic privi di spessore annunciati dai palchi delle convention come piani quinquennali, sembra sempre più difficile da realizzare.

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Batman: Il Batmanga di Jiro Kuwata, recensione: la perla pop giapponese nascosta

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Dal 1966 al 1968, per tre stagioni, sulla ABC andò in onda il serial The Batman interpretato da Adam West. La serie, volutamente camp, ovvero stravagante ed esagerata, ottenne un grandissimo successo sia in patria che all'estero nonostante rispecchiasse poco i fumetti dell'eroe che, specie poi negli anni immediatamente successivi, stavano lentamente riacquisendo sfumature più serie e realistiche dopo anni di maggiore ingenuità e leggerezza.
Un ritorno alla maturità segno dei tempi che cambiano oltre che dall'arrivo dell'agguerrita concorrenza Marvel che, con i suoi supereroi con super-problemi, spopolava e dominava le classifiche di vendita.

La serie della ABC, tuttavia, segnò profondamente la cultura popolare dell'epoca e fissò un'immagine precisa di Batman presso il grande pubblico che solo Tim Burton una ventina di anni dopo riuscì, con non poche difficoltà, a scalzare grazie alla sua pellicola con Michael Keaton protagonista.

Dicevamo che il successo dello show di Adam West si diffuse un po' ovunque, arrivando addirittura nella terra del Sol Levante. In Giappone la serie divenne così popolare al punto che nacque l'idea di proporre al pubblico anche i fumetti di Batman, un'operazione fattibile considerando che pochi anni prima già Superman arrivò nelle case dei lettori nipponici. Il progetto venne affidato al mangaka Jiro Kuwata, già autore di diverse opere fra cui l'adattamento a fumetto di Gekkō Kamen (Moon Mask Rider), capostipite dei supereroi giapponese.
Scartata l'idea di tradurre i comics originali americani così come l'optare per uno stile di disegno occidentale, sia per questioni pratiche che per motivi di tempo, Kuwata si orientò per un adattamento puro di storie già realizzate, calando l'eroe in una produzione al 100% giapponese per stile e segno.

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L'autore tuttavia sceglie di non seguire lo stile della serie tv ma di avvicinarsi a quello delle serie a fumetti americane Batman e Detective Comics trasponendo in chiave nipponica alcuni albi già esistenti. Ad esempio, "Death Men", ovvero la prima avventura da lui realizzata, è una trasposizione di Batman #180 "Death Knocks Three Times!" di Robert Kanigher e Sheldon Moldoff del 1966, ovvero lo stesso anno in cui parte il manga.
L'intera serie è una raccolta di trasposizioni di albi americani e di seguito potete vedere alcune differenze fra la storia originale e quella realizzata da Kuwata.

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La serie, pubblicata su Shonen King e Shonen Gaho dal 1966 al 1967 dura solo un anno e presenta 18 avventure complessive, ognuna della quali suddivisa in tre o quattro capitoli per un totale di 60/80 pagine circa cad. La grossa singolarità è che Kuwata sceglie di non servirsi della classica galleria dei nemici di Batman, ma nel selezionare storie da adattare, opta per avventure con villain non noti e, tendenzialmente, apparsi in quell'unica occasione. Una scelta singolare dovuta probabilmente alla volontà di avere una maggior libertà creativa per modellare storie e personaggi alla sua sensibilità e a quella giapponese.

Approcciarsi a queste storie, così lontane nel tempo e così differenti da quelle classiche di Batman, potrebbe scoraggiare il lettore nell'acquisto o anche solo nell'interessarsene, temendo un prodotto marginale, strambo e indirizzato solo ai cultori.
Ma così non è: considerando che parliamo di un fumetto di circa 60 anni fa, e che quindi presenta classiche ingenuità dell'epoca, la lettura è sorprendentemente appagante e divertente e risulta molto più fresca e attuale delle avventure che venivano presentate contemporaneamente in America. Le storie scorrono con grande fluidità, risultando avvincenti e ottimamente scritte. Il diverso background culturale dell'autore dona un’atmosfera strana e inedita per il personaggio, dando loro un fascino inedito.
Certo, Batman e Robin risultano qui personaggi bidimensionali, riconoscibili giusto per i loro costumi e per i loro "gadget", ma il reale motivo di interesse sta proprio nella narrazione e nei nemici che, in mano a Kuwata, amplificano la loro follia e personalità risultando sempre caratteristici.

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Il segno di Kuwata risulta classico ma al tempo stesso molto lineare e pulito, capace di resistere allo scorrere dei decenni ed essere godibile ancora oggi. La matrice nipponica del suo stile è palese, ma si denota la volontà di agganciarsi in qualche modo alla tradizione americana non solo limitando al massimo ogni tipo di stilizzazione o deformazione tipica del fumetto giapponese, ma anche in scelte compositive e di regia delle tavole che hanno una costruzione varia ed efficace, mostrando sempre grande dinamismo. L'artista tende al realismo, seppur semplificandolo, ma non disdegna eccessi stilistici quando entrano in scena nemici pittoreschi o veri e propri mostri. Vista l'alta qualità del suo lavoro, possiamo tranquillamente definire Kuwata un autore di prim'ordine, meritevole di essere riscoperto e di stare accanto a colleghi ben più celebri in occidente.

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Panini Comics propone, per la prima volta in maniera integrale in Italia, l'intera saga del Bat-Manga di Jiro Kuwata in tre volumi da libreria (con tanto di cofanetto). Una riproposta per questo materiale che nasce sulla spinta di un autore come Chip Kidd che l'ha riportato in auge circa una quindicina di anni fa, e a seguito della ristampa completa fatta dalla DC Comics circa 6 anni fa.
Purtroppo, si è scelto di utilizzare le anonime grafiche di copertina realizzate dalla casa editrice americana, che sminuiscono il valore pop dell'opera: avremmo preferito di gran lunga le cover originali realizzate da Kuwata, sicuramente di maggior impatto. Ad ogni modo, la cura editoriale resta impeccabile e la qualità dell'edizione è decisamente ottima. Interessanti, inoltre, i pochi (purtroppo) editoriali presenti: non sarebbe stato male avere ulteriori approfondimenti.
Lettura caldamente consigliata.

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