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Valerio Coppola

Valerio Coppola

Rat-Man 81

Dunque è vero: Rat-Man avrà una sua conclusione (che non significa fine). La promessa fatta dall’ottantunesimo albo della serie è chiara e coerente con quanto da tempo ripete il suo autore, Leo Ortolani. E il titolo della storia, “Sia questa, l’ultima battaglia!”, in qualche modo sembra essere programmatico.

L’ultima parte della cosiddetta “Esalogia di New York” non solo conclude la saga pubblicata nell’ultimo anno, ma segna un punto di svolta importante nell’intera biografia del personaggio. Così, se l’incontro a New York con i supereroi era stato un ritorno alle origini, a quel meta-luogo da cui tutto era partito, è proprio questo riflusso a porre le basi per un cambiamento che renderà impossibile qualsiasi altro ritorno. Da qui non si va che avanti, verso un orizzonte che però non può prevedere un’eterna autoriproduzione. Perché viaggiare all’infinito porta a perdersi, a snaturarsi, a diventare mostruose caricature di se stessi. Invece si deve avere la consapevolezza della propria parabola, le precise coordinate del proprio viaggio e soprattutto del proprio punto di arrivo. Sapersi fermare. Poi magari da lì potrà partire un nuovo viaggio, ma questa è un’altra storia.

Ciò che colpisce nella lettura dell’episodio è una constatazione sulla natura dell’intera serie: per apprezzare davvero Rat-Man come narrazione, lo si può leggere solo nella sua interezza come serie. Qualsiasi altro livello è parziale, non rende il senso di quel viaggio. Una sequenza, un singolo numero, una saga, possono essere divertenti o appassionanti. Ma presi a sé non dicono davvero. Si perde il senso del mutare, del compiere nuovi passi. E se le storie precedenti alla “Esalogia di New York” erano sembrate a tratti stanche, ripetitive, ricorsive e senza un’idea della direzione, oggi vediamo che quella non era altro che una precisa fase del viaggio: quella dello smarrimento, del procedere alla cieca senza rendersi conto di aver chiuso un arco. Quella stanchezza (voluta e raccontata) nelle storie era un trauma che si doveva attraversare per arrivare alla svolta di oggi.

Ecco che anche sotto questo profilo torna quella dimensione metafumettistica a cui Rat-Man ci ha abituati. Ancora una volta l’evoluzione della vicenda coincide con quella del personaggio, della serie e dell’autore. L’una racconta l’altra senza ordine causale, permettendo una lettura su più livelli che fornisce la storia di ulteriore prospettiva.
Ma oltre ai molteplici livelli, Ortolani si conferma un gran narratore anche nel sovrapporre registri diversi: umorismo, epica, intimità. Una pluralità di sensazioni che tuttavia fluisce e si amalgama in maniera organica pagina dopo pagina, in tavole realizzate in maniera magistrale, calibrate nei tempi (non solo comici) e sempre inevitabilmente debitrici nei confronti della potenza kirbyana.

Insomma, con il ritorno senza possibilità di ritorno rappresentato da questo numero, Rat-Man compie un nuovo passo significativo in quello che promette di essere un viaggio appassionante, ricco, ma soprattutto compiuto. E che a questo punto, se non dovesse vedere una propria conclusione, rimarrebbe un discorso al vento.

Teenage Mutant Ninja Turtles

Per chi in Italia è cresciuto nel decennio a cavallo tra gli ’80 e i ’90, le Tartarughe Ninja sono quasi un’istituzione. O almeno, è pacifico dire che fanno parte dell’immaginario collettivo e della cultura pop di primo piano di quegli anni, grazie ai film e soprattutto alla serie animata trasmessa in televisione. In un Paese che vive e si vive attraverso il teleschermo, però, molta poca attenzione hanno ricevuto le Tartarughe “originali”, quelle nate dalla fantasia di Peter Laird e Kevin Eastman sulle pagine di una serie a fumetti datata 1984. Finalmente oggi, in corrispondenza del venticinquesimo anniversario dei personaggi, 001 Edizioni ripropone quelle prime storie anche in Italia, tornando alle origini di queste icone pop.

Eastman e Laird proponevano con questa storia un prodotto alquanto strambo, rendendo protagonisti delle figure improbabili e dall’appeal non proprio elevato, come possono essere delle tartarughe. Ma con una storia che parte in quarta, nel pieno dell’azione, con uno stile grafico graffiante e dinamico, e con un mescolarsi di fantascienza e arti marziali (allora molto in voga), non è difficile capire le ragioni del successo di un’idea sulla carta quanto meno incerta. E anche l’alchimia di elementi all’apparenza stridenti, grazie ad una narrazione agile e leggera, riusciva invece ad offrire un’atmosfera peculiare e armonica, nella sua semplicità finale.

In queste prime storie viene già introdotta la maggior parte degli elementi storici delle TMNT, dalle origini dei protagonisti, alla vicenda di Splinter e Shredder, dalla comparsa dei mouser all’esordio di April O’Neil, e via dicendo. Alcuni elementi, è vero, presentano un certo livello di ingenuità, o si basano su presupposti deboli; ma nell’economia generale della narrazione anche questo “candore” finisce per essere una cifra tipica della serie, e si innesta bene sulla sensazione di leggerezza trasmessa dalla lettura. D’altra parte, un tono giocoso da tener presente nelle intenzioni degli autori è ravvisabile in modo chiaro anche nell’abbondante quantità di citazioni (soprattutto di supereroi Marvel) all’interno del racconto: dai richiami più espliciti come quello alle prime storie di Daredevil e dei Fantastici Quattro, fino a quelli meno chiari ma più di sostanza, come l’ispirazione fornita dagli X-Men per delineare le Tartarughe e il loro maestro.

Ma il tutto non si risolve certo in un mero esercizio di collage di situazioni, stili e mode: la storia si dispiega lungo una trama ben chiara e definita, che inizia presto a mostrare di essere concepita con uno sguardo al medio termine, e di non vivere di sola improvvisazione. L’organicità del progetto si risolve dunque in una continuity che prende avvio da subito, piazzando più di una base per sviluppi successivi. Anche nel delineare i vari personaggi e nel dotarli di precise caratterizzazioni, gli autori seguono un metodo fatto di semplicità ed efficacia: ognuno delle quattro tartarughe viene così dotato di un proprio carattere peculiare, con una particolare attenzione, almeno in queste prime storie, al personaggio di Raffaello (protagonista anche di un piccolo one-shot a lui dedicato).

Sul fronte grafico, come già accennato, impera l’energia: figure ruvide e in continuo movimento, tavole che aprono e chiudono gli spazi a seconda delle necessità, figure che non si preoccupano di debordare dalle vignette. Il tutto accompagnato da chine grossolane, ma curate, che traspirano “underground” da ogni linea (e le TMNT nascono esplicitamente underground). Tutte sensazioni che il colore avrebbe con ogni probabilità smorzato.

Ciò di cui in questo volumetto si sente la mancanza è forse qualche approfondimento redazionale di tipo storico, che non avrebbe guastato anche in considerazione del giro di boa (un quarto di secolo) appena oltrepassato, e della pubblicazione (per certi versi storica anch’essa) di queste storie in Italia.
Alla 001 va comunque riconosciuto il merito di aver riproposto le Tartarughe nella loro prima versione e di averlo fatto in un formato editoriale soddisfacente, permettendo a tanti lettori la riscoperta di questo piacevole scorcio di passato.

Spider-Man Collection 41

Altra pietra miliare ristampata in Spider-Man Collection, la collana Panini che ripropone in maniera cronologica le storie dell'Uomo Ragno dagli albori in poi. Il numero 41 della serie porta il protagonista in Canada, dove, sulle tracce di un misterioso uomo che sembra custodire un importante segreto per i Parker, se la dovrà vedere anche con l'incredibile Hulk. Ma, al ritorno negli States, la tragedia attende l'Arrampicamuri. Vengono infatti ristampati gli storici numeri 121 e 122 di Amazing Spider-Man, contenenti la storia che nel 1973 pose fine all'innocenza dei comics: "La Notte in cui Morì Gwen Stacy".

Intorno a questa storia si sono spesi fiumi di inchiostro e parole, e ormai anche dire questo risulta superfluo. Si è disquisito sui motivi dell'indubbia importanza della storia, sui suoi effetti, sui responsabili della sua ideazione, sui suoi retroscena. C'è ormai una critica affermata in materia, e risulta quindi inutile e ridondante parlare oltremodo di questi aspetti. Eppure, nonostante le molteplici riedizioni e nonostante la conoscenza di questa storia faccia parte del retaggio di quasi tutti gli amanti di comics, la sua lettura continua a regalare emozioni. Non è solo una questione legata alla drammaticità della storia in sé e dell'evento narrato. Non è solo l'accostarsi di disegni dallo stile così classico e "rassicurante" a contenuti così terribili. Quello che colpisce duro è che la morte è un evento della vita, e che le peggiori paure si possono davvero realizzare.

Sono questi gli stessi motivi che portano a definire la morte di Gwen Stacy come l'evento periodizzante per individuare la fine della Silver Age e dell'innocenza dei supereroi; ma di questo, appunto, si è detto abbastanza. La lettura di Spider-Man Collection però è rivelatrice di un altro meccanismo alla base di questa importanza. Leggere questa storia a sé, o leggerla piuttosto nello scorrere della serie, non è una differenza da poco. La cadenza mensile con cui il lettore entra a contatto con queste storie è un ingrediente fondamentale per l'effetto finale: farsi accompagnare mese per mese da questi personaggi, dalle loro vicende, dalle loro emozioni e paure, fa sì che essi risultino più concreti, che diventino "compagni di viaggio". E quando uno di questi viene meno, rendendo così concrete tutte le paure che per anni (anche esse) sono state sempre presenti, il lettore si trova coinvolto nel flusso. Perché, come i protagonisti, anche il lettore è arrivato a quel punto, entrando con costanza e continuità in un mondo che ha finito per risultare così concreto, nel suo esserci sempre.

Leggere la storia di Gwen Stacy raccolta in qualche antologia o albo speciale non è la stessa cosa. Non si conosce con frequente continuità la ragazza e il suo mondo nello scorrere della loro vita, e quando arriva la perdita non ci si rende bene conto di cosa significhi, risultando invece un episodio come tanti altri. Un'operazione come quella di Spider-Man Collection riserva proprio in questi aspetti un valore aggiunto che neanche un "saltuario" Masterwork, per quanto pubblicato secondo un criterio cronologico, potrebbe replicare.

Per quanto riguarda le storie in sé, l'accostamento dello scontro con Hulk ai due tragici episodi successivi ha il sapore di un'ultima esperienza di innocenza e leggerezza prima della tragedia. I testi di Gerry Conway continuano qui nel classico solco segnato da Stan Lee, mentre negli episodi successivi si riempiono di contenuti forti e di situazioni inquietanti, anche nei risvolti non detti o solo accennati. È come assistere, all'improvviso, alla maturazione di un genere, e per certi versi alla nascita della sua ambiguità (soprattutto per quanto riguarda i comportamenti di Peter Parker). I disegni di John Romita, quasi ovvi da commentare, sono un caposaldo della visualizzazione dell'Uomo Ragno, avendo imposto stilemi presenti ancor oggi. E proprio nel canone stilistico introdotto da Romita si muove anche Gil Kane, il quale però introduce una maggior dose di dinamismo e di pathos, rivelandosi il perfetto illustratore di una storia come quella narrata.

Infine, una nota di merito va all'apparato redazionale, che, florido di informazioni sul contesto storico delle storie, favorisce un'immersione nella lettura ancor più partecipata.

Silver Surfer Omnibus

Silver Surfer OmnibusDella formula del “supereroe con superproblemi” Stan Lee ha sempre fatto la sua bandiera, oltre che la sua fortuna. La rivoluzione del personaggio sconfitto in partenza dalla stessa situazione che ne fa un essere straordinario avviene all’inizio degli anni ’60. È alla fine di quel decennio, però, che Lee applica questo concetto nella sua forma più estrema, e lo fa con quello che, non a caso, definisce il personaggio a lui più caro: Silver Surfer. Qui il “superproblema” non è più la quotidianità che tanto aveva avvicinato i personaggi Marvel ai lettori, ma qualcosa di più trascendentale, eppure ancora del tutto umano: il problema di Silver Surfer è esistenziale, l’angoscia di un uomo che non può vivere al massimo delle sue potenzialità, intrappolato in un mondo ostile e con evidenti imperfezioni. Ma intrappolato anche in un rigido codice di condotta morale autoimposto, che tuttavia non manca di far sentire il peso della costrizione.

Il Silver Surfer di Stan Lee è un personaggio tormentato, pieno di domande e con poche risposte. La maggior parte di queste domande sono proprio sull’incomprensibile razza umana e su tutte le sue contraddizioni. In questo modo, il fatto che Surfer sia “straniero in terra straniera” diventa l’espediente per riflettere (in tutti i sensi) sull’assurdità della psicologia e della società umana. Più che la sua pelle d’argento, sono la purezza e la nobiltà del protagonista a fare da superficie di contrasto perfetta per indagare sulla natura dell’uomo. In questo senso, Silver Surfer è per eccellenza un eroe umanista: il suo scopo ultimo non è combattere qualche minaccia fisica o impedire uno specifico crimine; la missione di Silver Surfer è il trionfo morale della razza umana, la sua elevazione spirituale oltre la barbarie che la affligge in maniera intrinseca. E non a caso l’antagonista è rappresentato da Mefisto, il male incarnato, la parte peggiore dell’uomo.

Nell’intera serie dedicata al Surfista d’Argento, raccolta in questo volume, uno Stan Lee in stato di grazia inscena avventure movimentate e in perfetto stile supereroistico, affiancandole però a una perenne riflessione da parte del protagonista sugli eventi che sta vivendo. Il monologo è così una presenza continua, che tuttavia riesce a non pesare troppo: si ha invece la sensazione di trovarsi di fronte a una rappresentazione teatrale, a monologhi pensati per il palcoscenico. E se ciò funziona gran parte del merito va attribuita a John Buscema, in grado con i suoi disegni di recitare con maestria e sentimento i testi di Lee. L’eleganza delle pose e la loro forza espressiva, le forme bronzee che riempiono le tavole di Buscema conferiscono vera e propria vita all’azione e al pensiero dei protagonisti. L’artista è in grado di offrire interi panorami dell’interiorità dei personaggi e di Silver Surfer in particolare, attraverso una raffigurazione enfatica che non risulta mai esagerata.

Risultano invece vagamente fuori posto, rispetto al tono generale della serie, i due capitoli disegnati da Jack Kirby. Il “Re” non ha nelle sue corde quell’intimismo che fa di Buscema il grande interprete di un Silver Surfer compiuto. Pur essendone il creatore di fatto, Kirby non riesce ad entrare nell’anima del personaggio, privilegiandone invece il lato “action” e la potenza, in una maniera che però mal si adatta ai canoni ormai fissati dal disegnatore titolare della testata.
Chiude infine l’albo una breve e umoristica storia tratta dalla parodistica Not Brand Echh con le origini del “loquace” Simple Surfer, firmata da Roy Thomas e dalla cartoonesca Marie Severin.



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