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Davide Giurlando

Davide Giurlando

Pacific Rim: recensione

  • Pubblicato in Screen

Pacific-Rim-Poster1Guillermo del Toro è uno strano regista. Ad eccezione dello splendido Il labirinto del fauno e forse La spina del diavolo, nessuno dei suoi film può dirsi completamente riuscito, almeno a detta dell’autore di questo articolo. D’altra parte, nessuna opera da lui diretta può nemmeno dirsi veramente brutta; lavori come Hellboy e Mimic sembrano fondarsi su una sfrenata immaginazione visionaria, che però non riesce mai a sposarsi con uno script all’altezza. La tendenza a trascurare una sceneggiatura compatta e curata in nome della visionarietà è una caratteristica comune a molti registi di cinema fantastico: il primo Tim Burton, i cui film erano sicuramente più interessanti di quelli realizzati nella seconda metà della sua carriera, aveva fatto di questa tendenza quasi un manifesto di stile, ispirato, almeno a parole, ai film di Mario Bava. Burton, tuttavia, era riuscito a compensare le carenze di scrittura dei suoi film “coprendole” con atmosfere delicate e crepuscolari, che più di qualsiasi altra caratteristica avevano contribuito a conferire al regista di Burbank la fama di “malinconico poeta dei freak”. Per del Toro, che nella sua carriera non sembra aver rigorosamente sposato nessuna poetica in particolare, questa operazione non sembrava, fino a questo momento, possibile. Non che del Toro sia stato finora un regista di scarsa importanza: al contrario, molti recenti film horror realizzati in produzioni o co-produzioni spagnole (talvolta sotto la guida dello stesso del Toro, come nel caso del recente La Madre) sono evidentemente influenzati dal suo approccio visivo. Tuttavia, l’influenza di del Toro sul cinema fantastico sembrava finora, appunto, limitata all’estetica, e allo stile particolarissimo con cui i suoi fantasiosi mostri erano realizzati. Del Toro sembrava un regista in cerca di una sua strada, e forse a questa immagine contribuiva anche l’enorme quantità di film da lui opzionati e (fino a questo momento) mai realizzati, da Frankenstein a Pinocchio alla trasposizione lovecraftiana de Le montagne della follia. Pacific Rim, almeno sulla carta, sembrava finalmente l’occasione giusta perché del Toro facesse il salto di qualità: una colossale produzione, potenzialmente di grande successo, fondata su un’idea (robot giganti contro mostri giganti!) a dir poco curiosa. Operazione riuscita?

Seguono SPOILER.

In un futuro prossimo, la Terra è stata sconvolta dalle incursioni dei Kaiju, mostri colossali emergenti da una faglia interdimensionale sul fondo dell’Oceano Pacifico. Per combatterli, l’umanità ha creato un esercito di Jaeger, robot alti come grattacieli, ognuno comandato da una coppia di piloti interconnessi a livello neurale. Uno dei più importanti manovratori di Jaeger, Becket (il Charlie Hunnam di Sons of Anarchy), sembra aver gettato la spugna dopo la morte del proprio co-pilota, e fratello, nel corso di una battaglia contro i Kaiju. Ma quando le offensive dei mostri si cominciano a intensificare e sembra che gli invasori interdimensionali stiano per lanciare un ultimo, fatale attacco, il vecchio superiore di Becket (interpretato, come sempre con grande efficacia, da Idris Elba) lo richiama in servizio. A lui si affiancheranno una aspirante pilota giapponese con un vecchio conto in sospeso coi Kaiju, una coppia di scienziati eccentrici, e uno squadrone di nuovi commilitoni per guidare l’ultima linea difensiva dell’esercito Jaeger.

La prima caratteristica che balza agli occhi di Pacific Rim è, ovviamente, l’enorme nerdismo che sembra caratterizzare tutta l’operazione. Il film è in pratica un sontuosissimo omaggio ai vecchi film di mostri di Godzilla e Gamera (diversi Kaiju hanno un’escrescenza sulla fronte simile a una lama, come il mostro Guiron di King Kong contro Godzilla del 1969) e ai manga incentrati sui “robottoni” in stile Mazinga e Daitarn 3. Se da un lato è insolita e per certi versi ammirevole l’intenzione di riprendere e attualizzare un immaginario così classico (e a dirla tutta, spesso così kitsch), dall’altro rende più difficile un’analisi obiettiva della pellicola. Il nerdismo è un’arma pericolosa e potenzialmente deleteria: una furbesca strizzata d’occhio per corteggiare lo spettatore appassionato del genere può far levitare la valutazione di un film mediocre, così come un omaggio garbato può irritare il fan, o in questo caso l’otaku, più fanatico e oltranzista e indurlo a stroncare una pellicola. La cura riservata alle citazioni e al rispetto nei confronti dei film originali non sono caratteristiche né necessarie né sufficienti per la valutazione positiva di una pellicola, quindi nel caso di questa recensione ci si limiterà a prendere atto che sì, il film si rifà a opere storiche e manga classici; sì, ci sono un sacco di città devastate dalla furia dei mostri; e sì, i robot usano armi improbabili, compresa una spada gigante e un transatlantico usato a mo’ di randello. Se questo è quanto si chiede a Pacific Rim, c’è.

Al di là di queste considerazioni, c’è da dire che purtroppo nemmeno questa volta del Toro è riuscito a creare il capolavoro (come film di fantascienza, o come film di mero intrattenimento) che ci si poteva aspettare; o almeno, tale non risulta adesso, all’indomani della sua uscita. “Capolavoro” è un termine usato quasi sempre a sproposito, e l’importanza di un film nella storia dell’immaginario può essere veramente constatata solo a parecchi anni di distanza dalla sua proiezione nelle sale, un po’ come il pregio di un vino invecchiato. È possibile che tra qualche anno Pacific Rim risulti possedere quella qualità particolare, quell’elemento in più che solo contraddistingue i veri capolavori. Al momento, e cercando di non farsi sviare da quella componente nerdistica di cui si diceva più sopra, questa caratteristica sembra assente.

Non che Pacific Rim sia brutto: è un buon film, con qualche punta ottima, e sicuramente migliore della media dei film di intrattenimento americani degli ultimi anni. Alcune sequenze sono molto divertenti, in particolare le colossali battaglie: tutte ottimamente coreografate e non prive di ironia, ma spesso talmente convulse che molta della cura dedicata alla creazione dei Kaiju e degli Jaeger finisce per andare sprecata. Inoltre - come purtroppo era lecito temere, visti i precedenti del regista - se da un lato c’è un’attenzione enorme dedicata agli scontri, dall’altro alcuni dei spunti potenzialmente più originali vengono sì accennati, ma poi lasciati cadere. Sarebbe stato interessante, ad esempio, analizzare con maggior cura l’evoluzione di una civiltà umana in seguito agli scontri con i Kaiju: la sequenza nel “Ghetto delle ossa” con protagonista l’attore feticcio di del Toro, Ron Perlman (che prevedibilmente si ritaglia il personaggio più riuscito di tutto il film), è piena di affascinanti echi ballardiani che però non sono mai davvero approfonditi nel resto della pellicola. Anche l’”alienità” dei Kaiju e del loro mondo, pieno di tecnologie “membranose”, è solo suggerita (o rimandata a un sequel che però allo stato attuale degli incassi non sembra molto probabile); e tutto sommato anche l’elemento cyberpunk sotteso al funzionamento degli Jaeger, che pure nella pellicola ha un peso importante, è trattato in maniera abbastanza convenzionale.

pacific-rim-poster-imageCosì come sono convenzionali anche le dinamiche secondo le quali si muovono molti dei personaggi. Ci sono un po’ tutti i cliché dei film di fantascienza dell’ultimo decennio, dallo scienziato picchiatello che funziona come comic relief, al protagonista tormentato che deve superare le proprie paure, e che - involontariamente? - sembra avere qualche debito con Top Gun. Va detto, comunque, che neppure uno dei personaggi è odioso e, anche se quasi nessuno di loro è davvero approfondito, sono tutti discretamente caratterizzati (anche se, come al solito, gli eroi secondari risultano quasi tutti più interessanti dei protagonisti). La sceneggiatura, comunque, è solo funzionale allo svolgimento della storia, senza essere particolarmente articolata o ricca; e non è priva di forzature.

A margine, va notata una curiosa caratteristica, molto probabilmente involontaria ma che è difficile non notare: il patriottismo. Anche se nel film si sottolinea a più riprese che nel mondo di Pacific Rim le nazioni hanno superato le proprie differenze per creare una specie di governo mondiale, praticamente tutti i ruoli decisivi sono svolti da americani. I piloti russi e cinesi sono personaggi insignificanti, massacrati dai Kaiju in quattro e quattr’otto. Tutti o quasi gli eroi positivi sono statunitensi, mentre i ruoli più “ruvidi” sono riservati a comprimari provenienti da paesi anglofoni ma non americani (il matematico nevrotico Gottlieb, che è inglese pur avendo un nome tedesco, e l’antipatico pilota australiano Hansen). L’unica eccezione è la giapponese Mori, che però - oltre a essere la figlia adottiva del personaggio di Elba, che nel film sembra essere americano nonostante la nazionalità inglese dell’attore - sembrava quasi una presenza obbligata vista la radice “nipponica” del film. Non c’è il nazionalismo becero dei Transformers, ma certo questo squilibrio pare curioso, visti i presupposti di trama.

Tutto sommato, Pacific Rim sembrerebbe un episodio, godibile e divertente pur senza essere eclatante, nella storia del cinema fantastico. Ma c’è un ultimo elemento che va preso in considerazione, un fattore che allo stato attuale delle cose non è facile quantificare ma che potenzialmente potrebbe, in futuro, elevare il film a uno status più alto di quello che i suoi reali meriti cinematografici imporrebbero. Gli ultimi grandi capolavori del cinema fantastico d’intrattenimento sono stati quasi tutti realizzati negli anni ’80: film come I predatori dell’arca perduta, Ritorno al futuro, o Labyrinth, si distinguono e si elevano nei confronti di opere analoghe realizzate nei decenni successivi, in nome dell’evidente amore che i loro realizzatori riservavano al materiale su cui lavoravano. Quando Joe Dante realizzò Gremlins, lo fece con un piglio quasi artigianale, come se stesse intagliando un balocco per un bambino; e questo rispetto, che è quasi impossibile rilevare in modo razionale ma non si può non avvertire, è una delle caratteristiche vincenti del primo film della bilogia sui mostriciattoli, quella che lo pone parecchie spanne al di sopra di un Pirati dei Caraibi qualsiasi. Film Pixar come Up e Ratatouille hanno questa forza; e, con tutti i suoi difetti, ce l’ha anche Pacific Rim. Del Toro sembra uno dei pochi registi in circolazione ancora disposti a credere nella potenza immaginativa del cinema fantastico, e l’abbandono quasi infantile, assolutamente onesto, con il quale è ancora disposto ad assecondare le proprie visioni (una caratteristica che invece Tim Burton sembra avere perso ripiegando su una ripetitiva “maniera”, almeno nei suoi film a budget più alto) fa guadagnare a Pacific Rim un punto in più. Ed è lecito rinnovare la fiducia in del Toro per la prossima fase della sua carriera.

Il senso di Superman: come aspettative e preconcetti stanno uccidendo l’Uomo d’Acciaio

  • Pubblicato in Focus

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In occasione dell’uscita del rilancio di Superman a firma Zack Snyder, sono state sollevate molte domande sul senso della missione del personaggio, e ci si è chiesti se le fondamenta morali dell’Uomo d’Acciaio siano state o meno rispettate nella trasposizione filmica. Al di là del controverso esito della battaglia finale tra il Generale Zod e Superman, è stato obiettato che il protagonista, a differenza della sua controparte cartacea, non svolge alcun ruolo realmente ispiratorio nei confronti degli abitanti della Terra, e il senso della sua missione - il salvataggio delle vite umane - sia pesantemente inficiato e compromesso da egoistiche scelte personali.

Molte di queste obiezioni, pur chiaramente lecite, hanno però un punto debole: quello di partire dal presupposto che, nei fumetti e nelle precedenti incarnazioni di Superman, il personaggio presentasse un profilo psicologico articolato, “definitivo”, al quale il film di Snyder avrebbe dovuto appoggiarsi. In realtà, Man of Steel - film che, come già detto altrove, pur non essendo affatto privo di problemi è comunque coerente con se stesso, con l’universo narrativo che sceglie di presentare ed è volutamente privo di legami con qualsiasi Superman precedente - ha messo il dito nella piaga, finendo indirettamente con l’evidenziare molte debolezze e contraddizioni insite nelle convenzioni supermaniane classiche. Inserite in un contesto realistico com’è quello di un film, diverse consuetudini narrative mostrano la corda. Forse questo esito non è del tutto involontario: Goyer, sceneggiatore del resto piuttosto rozzo, non è nuovo alla rottura di tabù datati e talvolta insostenibili, come una sua recente e controversa storia sull’identità americana di Superman ha dimostrato (in Action Comics 900). Data la complessità dell’argomento, si è ritenuto opportuno offrire qualche spunto di approfondimento in più, questa volta con maggiore attenzione alla storia fumettistica di Superman; si tenterà cioè di analizzare quante e quali convenzioni del cosmo supermaniano abbiano trovato nelle storie una sintesi felice ed emulabile in altri media, quali siano state trascurate, e quali siano semplicemente datate.

Anche in questo caso, essendo presenti diverse opinioni soggettive personali, è possibile che nel corso dell’analisi si adoperi la prima persona singolare, si spera per l’ultima volta (sia per non infrangere ulteriormente le convenzioni dell’analisi obiettiva, sia per non approfittare ulteriormente della posizione privilegiata che conferisce la pubblicazione di un articolo di questo genere su un sito, piuttosto che su un blog o un forum).

Seguono SPOILER.

A grandi linee e per comodità, le componenti narrative della psicologia di un personaggio supereroistico possono essere suddivise nei seguenti aspetti:

VITA INTERIORE: 1- Traumi e limiti psicologici individuali; 2- Vita privata; 3- Codice morale.

PSICOLOGIA SOCIALE: 4- Limiti e senso della missione; 5- Patriottismo; 6- Aspettative dei personaggi umani nei confronti del personaggio e funzione ispiratoria.

superman129Di tutti questi profili, trovo che quello che ha trovato il maggior numero di realizzazioni felici nella storia di Superman sia quello contrassegnato con il numero 1. A questo ambito afferiscono tutti i travagli interiori che non possono essere automaticamente ricondotti a una intenzione altruistica, e riguardano, per così dire, l’aspetto “egoistico” della sua personalità. Per fare un paragone, è quel particolare insieme di qualità entro cui può rientrare la sensazione di straniamento provata da Capitan America in seguito al suo risveglio nell’era moderna: il rapporto con il presente, il trauma del distacco dal passato, il dispiacere di ritrovare amici e commilitoni invecchiati. È anche un tòpos molto frequente in ambito letterario e cinematografico non supereroistico: il superamento delle proprie paure e dei propri complessi individuali. Ebbene, questo aspetto - probabilmente perché il più immediato e di facile identificazione per i lettori, anche se certamente non il meno importante - è stato molto convincente in tutte o quasi le incarnazioni supermaniane. Attenzione: per “convincente” non si intende né sempre coerente in tutta la storia del personaggio, né presente in ogni sua versione. La vita interiore di Superman è di volta in volta aderente ai termini di quella particolare incarnazione dell’uomo d’acciaio, e ci sono incarnazioni in cui la presenza di traumi personali non costituisce un elemento fondamentale.

Nelle storie originali della Golden Age, Superman era una sorta di Braccio di Ferro: un personaggio spaccone, che risolveva le proprie sfide a colpi di sganassoni, riservando ai propri avversari anche qualche burla più o meno elaborata a mo’ di lezione. Sia chiaro che l’evidente semplicità di queste avventure non va constatata con senso di sufficienza da parte dei lettori: sia perché era perfettamente in linea con i fumetti dell’epoca, sia perché il personaggio, pur elementare, era simpaticissimo, al punto che le sbrigative risoluzioni degli scontri con i cattivi (che talvolta terminavano con l’uccisione più o meno indiretta dell’avversario da parte di Superman) non ne intaccavano la piacevolezza. Questa assenza di traumi personali continua anche nella Silver Age dei decenni successivi, nel corso della quale la semplicità originaria del personaggio viene mutata in una sorta di frivolezza. Questo non vuol dire che le storie di Superman degli anni ’50 e ’60 siano elementari o superficiali in senso assoluto: per esempio, la magnifica storia d’amore con la sirena Lori Lemaris (Superman 129) o quella, altrettanto splendida, con la kryptoniana Lyla Lerrol (Superman 141) rappresentano delle valide eccezioni. Tuttavia, oltre a essere, per l’appunto, casi sporadici, nessuna di queste tormentate storie d’amore è indicativa di una tendenza generale presente nel personaggio di Superman in questi anni. Le prime versioni dell’uomo d’acciaio restituiscono un supereroe sostanzialmente spensierato.

C’è però un’importante eccezione, rappresentata da un fattore drammatico presente tanto nella Golden che nella Silver Age, in una serie di storie assolutamente fondamentali (in quanto incentrate sulle origini dell’uomo d’acciaio, come per esempio la versione di Bill Finger e Wayne Boring in Superman 53, del 1948) per quanto limitate di numero: la morte (per anzianità o malattia) dei genitori terrestri di Superman, e in particolare del padre (John o Jonathan a seconda delle versioni). La vignetta con Clark al capezzale dell’anziano morente, che gli chiede di utilizzare il proprio potere per aiutare l’umanità, è - insieme all’esplosione di Krypton - una delle poche immagini iconiche che siano contemporaneamente tragiche e efficaci presenti nella struttura narrativa originale di Superman. Questo concept ha inoltre il merito di intrecciare strettamente il dramma individuale del protagonista con il senso della sua missione altruistica. Molte delle incarnazioni successive di Superman hanno eliminato questo equilibrio, ed è un peccato: personaggi come l’Uomo Ragno e soprattutto Batman, che invece lo hanno mantenuto, ne hanno beneficiato notevolmente.

superman53La morte del padre di Superman è stata riproposta anche in altri media e aggiornamenti del personaggio, ma spesso assumendo significati e sfumature differenti dal prototipo, e quasi sempre inferiori. Nel Superman di Richard Donner la morte di Jonathan Kent serve a insegnare al giovane Clark la consapevolezza dei propri limiti; curiosamente, però, questa lezione è piuttosto trascurata nel resto della pellicola, e alla fine è praticamente contraddetta. Nessuno, a quanto ne so, ha mai sollevato un’obiezione al riguardo: tuttavia, personalmente trovo che il finale del film, nel quale Superman vìola apertamente gli insegnamenti di Jor-El per battere anche la morte, sminuisca di molto la portata drammatica della fine di Jonathan . Non sembra più che Clark non abbia potuto salvarlo perché ci sono ostacoli che neppure Superman è in grado di superare, ma che Clark non abbia l’idea di riportare indietro il tempo quando Jonathan subisce l’infarto che lo porta alla tomba (è solo uno dei motivi, e neppure il principale, per cui personalmente ritengo il film sopravvalutato).

Il rilancio di Superman degli anni ’80 a firma John Byrne annulla completamente questo elemento, e lo rimpiazza con due genitori Kent vivi, pimpanti, e piuttosto monocordi come inesauribile fonte di saggezza per un Clark un po’ bambinone. In epoca recente, tanto Geoff Johns (in Action Comics 866-870) che Grant Morrison (nel rilancio dei nuovi 52) hanno tentato di recuperare il tema della morte di Jonathan Kent, ma purtroppo l’hanno anche notevolmente banalizzata, a causa della discutibile scelta di collegarla - in entrambe le occasioni - al piano di un supercattivo. Nel film di Snyder, invece, il trauma della morte viene recuperato con notevole efficacia. La fine di Jonathan, che preferisce sacrificarsi pur di impedire che il figlio riveli la propria identità al mondo, è senz’altro uno dei momenti più riusciti di tutta la pellicola. Il fatto che la decisione che porta alla morte del personaggio possa anche essere potenzialmente sbagliata nulla toglie alla solennità della scena, anzi conferisce a Jonathan una sorta di statura tragica.

In anni recenti, comunque, i dilemmi interiori personali di Superman si riducono principalmente a due: il dualismo Clark/Superman e quello terrestre/kryptoniano. Del primo si dirà più avanti, in riferimento al tema della “vita privata” di Clark Kent. Il secondo ha invece rappresentato uno degli elementi ricorrenti più felici delle incarnazioni recenti di Superman. Prima del rilancio degli anni ’80, il sentimento dominante che l’uomo d’acciaio provava nei confronti del proprio mondo natale era sostanzialmente di nostalgia, e non a caso la storia in cui questa tematica raggiunge il suo esito più felice e drammatico è immediatamente precedente alla gestione di Byrne: For the Man Who Has Everything di Alan Moore. C’erano, è vero, i criminali della Zona Fantasma: ma si trattava, appunto, di criminali, ossia di personaggi negativi per scelta personale, non perché appartenenti a una razza di per sé pericolosa. Con il Man of Steel byrniano, tutto cambia: la Krypton moderna è interamente frutto della fantasia dell’autore anglo-canadese (pur presentando qualche legame alla lontana con quella di Donner), e costituisce un luogo affascinante per via della propria alienità e freddezza. Viene esplicitamente suggerita la possibilità che la civiltà terrestre e quella kryptoniana siano incompatibili (come in Superman 18, del 1986), e - pur tra numerose modifiche e rilanci di vario genere - questa Krypton potenzialmente pericolosa rimarrà quella ufficiale fino al reboot del 2011.

Il tipo di conflitto emotivo suscitato in Superman dalla scelta tra il proprio mondo natale e quello adottivo non è in sé nulla di nuovo: tanto per limitarci all’ambito fumettistico, il Mar-Vell della Casa delle Idee è soggetto a un simile dilemma. Proprio la semplicità e l’immediatezza del concetto lo rendono tuttavia uno dei più fruttuosi per la creazione di storie. Non a caso, un tema analogo è presente anche nel film di Snyder, e, durante la gestione di Action Comics di Geoff Johns si tentò di costruire pian piano anche una saga importante incentrata su una guerra tra Krypton e i terrestri. Del resto, l’esito finale di questa trama, War of the Supermen di James Robinson e Sterling Gates, è enormemente inferiore alle premesse, e rappresenta una delle più grandi occasioni sprecate della DC Comics di Dan Didio. Per quanto non sempre adeguatamente sfruttato, il concept resta a oggi un elemento affascinante e valido della versione moderna del mito supermaniano. Giustifica anche gli atteggiamenti di personaggi importanti, come Samuel Lane e Luthor: il fatto che Superman provenga da una razza non priva di comportamenti distruttivi sicuramente aggiunge sostanza alle motivazioni degli avversari classici del personaggio.

cksupA questo tipo di dramma umano si sovrappone il problema della rivelazione al mondo e l’uso dell’identità segreta, ossia il dualismo Kent/Superman. Rispetto ai temi in qui citati, questo elemento, per quanto fondamentale nelle storie del personaggio, presenta decisamente un maggior numero di problemi e contraddizioni. Non mi interessa in questa sede valutare se sia Superman la vera identità di Kal-El e Clark Kent quella fittizia, oppure il contrario: autori di grande valore hanno proposto storie estremamente valide e coerenti costruite su entrambe le possibilità (a dimostrazione che non esiste una versione sacra e intoccabile di Superman e anche interpretazioni tra loro contraddittorie possono portare un valido contributo al personaggio). Piuttosto, mi sembra maggiormente interessante verificare quanti degli elementi alla base di questo dualismo - che si collega direttamente al problema della vita privata di Superman - siano veramente ragionati e narrativamente fecondi, e quanti derivino all’adesione a convenzioni vetuste e ormai insostenibili.

In generale, il tema della rivelazione al mondo di Superman non ha presentato particolari problemi nel corso di 75 anni di vita editoriale, ed è stato quasi sempre affrontato con l’intelligenza che i tempi consigliavano o imponevano. Se nella Silver Age Superman sceglie semplicemente di indossare il costume e combattere il crimine, Byrne - in una scelta saggia e giustamente imitata da molti autori successivi, Goyer compreso - sceglie di forzargli la mano e di mostrare la presentazione di Superman al mondo come una scelta obbligata dalle circostanze. Se alcuni particolari secondari oggi risultano un po’ datati (in particolare il costume, che in alcune versioni è cucito da Martha Kent e non proveniente da Krypton), questo particolare della vita di Superman resta ancora oggi piuttosto solido e interessante.

Problemi più seri nascono con il mascheramento di Superman come “Mister Kent “ e il suo rapporto con gli amici e colleghi del Daily Planet. Lo dico senza esitazione: l’idea che Clark riesca a camuffare il proprio aspetto agli occhi di giornalisti di professione grazie a un paio di occhiali e a un consumato talento di attore è semplicemente non più sostenibile. Negli anni ’30, questo elemento poteva essere accettabile a causa della semplicità delle storie e delle convenzioni sociali e culturali dell’epoca, che vedevano in un uomo occhialuto e timido un “perdente”. Già negli anni ’70 (in Superman 330, quando si tentò di attribuire a Clark una sorta di telepatia che ne aiutava il mascheramento) risultava assurdo, e tutti i tentativi successivi da parte degli autori di mettere una pezza al problema (il Luthor di Byrne che miopamente non accetta che Superman possa mascherarsi da comune mortale) sono e restano sforzi disperati, o quantomeno poco convincenti. Grant Morrison, nello splendido All-Star Superman, riesce ad aggirare abilmente il problema costruendo attorno a un Clark goffo e paffuto una pantomima studiata ad hoc, seguendo la quale Superman riesce a mantenere segreta la propria identità e contemporaneamente a salvare delle vite. Ma è difficile pensare che questa invenzione possa funzionare al di fuori del peculiare mondo costruito dallo scrittore scozzese, sistematicamente, in un fumetto seriale, per non parlare della resa in un film con attori in carne ed ossa. Peraltro, Morrison finisce intelligentemente con il sabotare se stesso proprio nelle pagine di All-Star Superman, quando in uno dei capitoli finali lascia intuire che Jimmy Olsen conosca perfettamente il segreto di Clark e semplicemente scelga di stare al gioco.

sso3Ciò non toglie che sul dualismo Superman/Clark si siano scritte anche storie interessanti, in particolare quelle costruite su un potenziale conflitto tra le due identità (Who Took the Super Out of Superman?, in Superman 296-299). In generale, però, i limiti del personaggio di Clark Kent si ripercuotono su, o sono quantomeno collegati a, una serie di condizionamenti che presenta tutta la vita “borghese” di Superman. Lois Lane è uno splendido personaggio, dal grande valore anche culturale (in pratica, una delle prime femministe della storia del fumetto). Tuttavia, ciò non toglie che il ruolo predominante da lei rivestito nel corso di gran parte dei primi 50 anni di vita editoriale sia stato soprattutto quello di “damigella in pericolo” o oggetto del sentimento. Quasi tutti gli episodi nei quali Superman nasconde la propria identità a Lois, magari anche prendendola in giro, sono oggi molto datati e a dire la verità anche un po’ irrispettosi. Ovviamente non tutte le storie incentrate su Lois Lane sono mortificanti, ce ne sono anche di valide e interessanti, ma temo che il suo ruolo come “compagna di Superman” abbia condizionato il personaggio assai più di quanto si tenda ad ammettere. Non credo sia casuale che, dopo il reboot del 2011 e lo scioglimento del matrimonio tra Clark e Lois, praticamente nessuno scrittore sia stato più in grado di scrivere una valida storia sulla “signora Superman”, come se questa donna apparentemente forte e indipendente tutto sommato esista soprattutto come prolungamento sentimentale di Clark e non come character autonomo.

In generale, però, i problemi di Lois sono gli stessi di tutto il cast “borghese” delle storie di Superman: personalmente, trovo che il Daily Planet e tutti i suoi dipendenti sono uno degli elementi in assoluto peggio gestiti della storia dell’Uomo d’Acciaio. A parte qualche rara occasione (soprattutto in certe storie di Marv Wolfman e Jerry Ordway degli anni ’80, e a volte nel più tardo Dan Jurgens), il Planet non sembra affatto un vero giornale, ma lo stereotipo di una redazione come se la potrebbe immaginare qualcuno che ha visto troppe volte il film L’Ultima Minaccia; con il direttore burbero ma in fondo gentile, il fotografo rampante e la notizia lampo che impone l’urlo “Fermate le rotative!”. È davvero un peccato quanto poco questo elemento, che potrebbe fornire una serie di squarci interessantissimi e relativamente inediti nell’ambito del fumetto supereroistico, sia stato quasi sempre utilizzato poco e male. Tanto per fare un paragone, il Daily Bugle dell’Uomo-Ragno ha presentato un ambiente lavorativo generalmente più variegato e dinamico, con personaggi spesso caricaturali ma per nulla banali come J. Jonah Jameson. Nemmeno Jimmy Olsen fa eccezione, pur essendo presentato con l’appellativo “l’amico di Superman”: le poche storie nelle quali è stato reso in maniera davvero soddisfacente (l’episodio a lui dedicato in All-Star Superman, o la maxiserie Superman: Metropolis) poco hanno a che fare con l’ambiente giornalistico e molto con quello supereroistico. Paradossalmente (ma forse nemmeno tanto), si può dire che negli anni sia stata sfruttata con maggior profitto la vita privata di Superman, anziché quella di Clark Kent. Molte storie della Silver Age erano infatti incentrate su avventure di stampo “quotidiano” ambientate nel mondo fantastico dell’Uomo d’Acciaio (come in Superman 187 del 1966): storie, per esempio, dove Superman passeggiava nello spazio insieme al cane Krypto, si rilassava scrivendo sul suo super-diario e giocava a scacchi con dei robot giganti. Il principio sul quale poggiano molti di questi episodi sembra quello di utilizzare elementi fantascientifici per creare una quotidianità assurda che funga da ambientazione per storie leggere; in altre parole, storie nelle quali la fantascienza svolge lo stesso ruolo che l’ambientazione preistorica svolge nei cartoni dei Flintstones e quella orrorifica nel telefilm La Famiglia Addams.

Le qualità supermaniane che ho fin qui tentato di analizzare presentano comunque un numero tutto sommato contenuto di problemi. Le carenze sono rappresentate da elementi poco o mal sfruttati, non da caratteristiche intrinsecamente sbagliate o confuse. Tuttavia, la situazione diventa assai più complicata quando si cerca di analizzare il codice morale di Superman e il tipo di missione che si prefigge di svolgere nei confronti del mondo. Queste caratteristiche, ovviamente delicatissime, sono quelle che più di tutte hanno sofferto nell’aggiornamento dalla Golden Age alla modernità, e sicuramente quelle che hanno messo gli sceneggiatori del fumetto in maggiore difficoltà.

Superman41Nelle storie originali degli anni ’30 e ’40, la semplicità degli intrecci aiutava notevolmente a definire la missione di Superman. L’Uomo d’Acciaio aveva diversi elementi in comune con Robin Hood: un difensore dei deboli che non si faceva troppi scrupoli nel dare una lezione a prepotenti e approfittatori. L’occasionale morte degli avversari, così come il fatto che Superman spesso non agisse a termini di legge (per esempio prelevando per un orecchio bellicosi generali e obbligandoli a combattere in prima linea nelle guerre che avevano provocato) non rappresentava assolutamente un problema. Questo Superman, che incarnava il desiderio di riscatto delle classi sociali medio-basse, non era tanto un rivoluzionario, quanto piuttosto un raddrizzatore di torti, la cui enorme simpatia era ovviamente dovuta anche alla semplicità delle storie (storie che, pur traendo spunto dal mondo reale, non erano assolutamente realistiche). Significativamente, nelle prime avventure di Superman l’elemento fantascientifico era praticamente assente, così come pochissimi erano i supercattivi ricorrenti.

Trovo che gran parte di queste caratteristiche siano andate perdute già con il passaggio alla Silver Age, quando la componente fantastica diventa quella dominante e, da eroe al di sopra della legge, Superman si trasforma in una specie di superpoliziotto. Non è che le storie della Silver Age siano in sé brutte, e c’è anzi chi le considera la migliore incarnazione di sempre dell’Uomo d’Acciaio. Il problema è che l’elemento puramente escapista e immaginifico finisce con l’annacquare la forza di molte intuizioni presenti nelle avventure originali di Jerry Siegel e Joe Shuster; storie, cioè, che pure avevano un valore puramente ricreativo, ma che traevano spunto da desideri e impulsi profondamente reali e legati ai problemi sociali dell’epoca. Personalmente, trovo che anche se il carattere fantastico delle avventure degli anni ’50 e ’60 sia, quanto a inventiva, sorprendente (anche se molto superficiale), la personalità di Superman subisca una parziale involuzione rispetto alla versione elementare, ma consistente ed efficace, delle origini. Tuttavia, non si può dire che le storie della Silver Age siano incoerenti: avventure leggere incentrate su elementi come le infinite varietà di kryptonite, mondo Bizarro, e le minacce fantascientifiche di alieni di ogni natura esigono per forza di cose un Superman completamente slegato dai problemi del mondo reale.

Questa struttura comincia però a usurarsi nei decenni successivi. In molte storie degli anni ’70, quindi riconducibili al periodo detto della Bronze Age, si nota chiaramente un tentativo di dare una maggior maturità e complessità alle storie di Superman. Questa tendenza nasce come reazione alla nascita della Marvel, che con i suoi personaggi contradditori e ricchi di spessore aveva indirettamente evidenziato la scarsa profondità degli eroi DC. E in effetti il Superman degli anni ’70 in certi momenti sembra quasi un eroe Marvel, impegnato a esaminare i propri superlimiti e superproblemi.

Oggi la Bronze Age è quasi dimenticata, ma personalmente trovo che le storie di scrittori come Elliot S. Maggin e Martin Pasko (senza dimenticare Cary Bates e le rare ma efficaci incursioni di Jack Kirby nel mondo supermaniano) costituiscano uno degli apici di tutta l’avventura editoriale di Superman, e forse l’ultimo suo momento di vera grandezza. L’abilità di questi sceneggiatori sta nell’aver messo Kal-El di fronte al mondo reale, ma senza creare una cesura netta con la Silver Age; proponendo cioè questa versione dell’uomo d’acciaio come una naturale evoluzione del protagonista delle storie escapiste degli anni ’60. In più, pur presentando storie incentrate su dilemmi di natura eticamente complessa, gli autori hanno saggiamente evitato facili risoluzioni, rendendo il dubbio - e non la certezza - una delle caratteristiche dominanti della personalità di Superman in questo periodo. In una delle storie più rappresentative e note dell’era Maggin, Must There Be a Superman? (da Superman 247), l’Uomo d’Acciaio viene sottoposto a una specie di processo da parte dei Guardiani dell’Universo; i quali gli suggeriscono che, con i suoi continui interventi, Superman stia rendendo l’umanità eccessivamente dipendente dal proprio operato. Anche se alla fine il protagonista sembra giungere a una sorta di compromesso morale - proponendosi di limitare la propria assistenza solo a situazioni a cui gli uomini non sono in grado di fare fronte da soli - il vero senso dell’episodio (come peraltro evidenziato in una delle battute finali) sta nell’aver instillato in Superman un salutare interrogativo sul proprio ruolo, ed averlo incoraggiato a iniziare un importante processo di maturazione. La storia, insomma, pone il problema, ma giustamente non lo risolve.

supeman247Il mondo del Superman della Bronze Age si dipana in un equilibrio molto riuscito tra elementi fantastici e drammi umani. Molti dei nuovi avversari (Amalak, Nam-Ek) e di quelli classici rivisitati (Luthor, Toyman) possiedono un valore tragico perlopiù assente nelle storie della Silver Age. Per qualche tempo, Lana Lang diventa la fidanzata di Superman. E, soprattutto, l’elemento fantascientifico non viene più usato per storie esclusivamente escapiste: c’è un tentativo, in gran parte molto riuscito, di creare un tipo di science fiction più complessa, che tenda a turbare e a far pensare, piuttosto che a rassicurare. L’albo celebrativo Superman 400, uscito nel 1984, da solo potrebbe essere il numero singolo di Superman più riuscito di tutti i tempi. Si tratta di una collezione di storie brevi e pin-up in gran parte realizzate da autori normalmente non associati con l’Uomo d’Acciaio, come Moebius e Frank Miller. La forza dell’albo sta nell’originalità delle trame: praticamente nessuna storia è una classica avventura di Superman, e gli episodi sono perlopiù incentrati sulla descrizione di mondi futuri e sulla longevità dell’eredità supermaniana. In The Exile at the Edge of Eternity, scritto e disegnato da un come sempre geniale Jim Steranko, assistiamo all’evoluzione dell’universo in ere lontanissime, e futuri inquietanti che nulla hanno a che vedere con la familiarità della classica Legione dei Supereroi. Nel suo insieme, Superman 400 è un vero capolavoro, purtroppo mai ristampato integralmente, e un manifesto perfetto dell’ultima versione veramente notevole dell’Uomo d’Acciaio prima della Crisi sulle Terre Infinite.

Personalmente, trovo che l’equilibrio miracolosamente raggiunto da autori come Maggin e Pasko sia andato completamente perso con il rilancio di Superman del 1986, a cura di John Byrne. Non intendo con questo dire che Byrne sia stato un pessimo scrittore: trovo anzi che molti degli elementi da lui introdotti, come per esempio la Krypton glaciale e il Luthor miliardario, siano dotati di grande fascino e abbiano contribuito fortemente alla sopravvivenza del decano dei supereroi fino ai giorni nostri. Tuttavia, temo che la versione di Superman successiva alla Crisi sulle Terre Infinite, e che poi è la medesima che - pur tra mille reboot e aggiornamenti superficiali - è arrivata fino ai giorni nostri, sia viziata alla base da alcune gravi contraddizioni, che non diventano mai reale approfondimento del carattere del protagonista. Alcune convenzioni byrniane sono invecchiate più rapidamente di altri elementi sella Silver e Bronze Age. Sono altresì convinto che autori ed editori ne siano a loro volta consapevoli, e che gli infiniti aggiustamenti tentati in anni recenti siano in realtà altrettante manovre finalizzate a sanare i suddetti problemi, senza però mai riuscirci. È come se il giocattolo si fosse ormai rotto. Sia chiaro che questi ostacoli poco o nulla hanno a che vedere con rigide questioni di continuity; credo però che l’eterno recupero di elementi pre-Crisi aggiornati ai tempi nostri (una delle caratteristiche maggiormente ricorrenti negli albi di Superman dagli anni ’80 a oggi) sia da un lato un tentativo più o meno inconscio di riportare il personaggio a un periodo in cui era più felicemente definito, e dall’altro una manovra per distrarre l’attenzione dei lettori dai veri problemi strutturali del personaggio, convogliandola su dettagli meno significativi ma dotati di grande potenza “nostalgica”.

action comics 584Il peccato capitale del Superman moderno, a mio giudizio, sta nella discrepanza tra il mondo realistico e complesso in cui sono ambientate le storie, e il senso della missione e della moralità di un eroe assai più sicuro di sé e meno toccato dal dubbio di quanto non lo fosse la sua controparte della Bronze Age. In pratica, è come se avessero scelto di sottoporre a Superman i problemi del mondo reale facendogli assumere in molte occasioni un atteggiamento paternalistico e sbrigativamente decisionista. E l’effetto di questa combinazione è stato quello di rendere Superman un personaggio antipatico, sempre pronto a fare la predica e a fungere da bussola morale per gli altri.

 Un esempio si può rintracciare in Action Comics 584, albo nel quale uno scienziato affetto da una malattia neuromuscolare scambia la sua mente con quella di Superman, e per qualche tempo sperimenta l’ebbrezza di vivere come il potente Uomo d’Acciaio. Quando alla fine della storia l’ordine naturale viene ristabilito, Superman - ritornato nel proprio corpo - fa una specie di predica al suo avversario, citando i nomi di famosi handicappati (come Helen Keller) che hanno vissuto una vita felice e produttiva nonostante i propri limiti. Purtroppo questa paternale esce dalla bocca di un uomo che limiti praticamente non ne ha, e che a parte un commento sbrigativo e generico non sembra neppure immedesimarsi davvero nella situazione dello scienziato; che è un criminale sì, ma anche terribilmente sfortunato. In pratica, è come se un rampollo di una famiglia miliardaria predicasse a un disoccupato cronico di trovarsi un lavoro!

L’apice di questi problemi è raggiunto con la saga di Supergirl e dell’Universo Tasca. In Superman 22, del 1988, Kal-El è alle prese con tre kryptoniani malvagi che hanno ucciso tutti gli abitanti terrestri di una terra alternativa. Dopo aver fatto loro perdere i poteri e averli ridotti a comuni mortali, Superman li uccide con la kryptonite. La saga dell’Universo Tasca è ancora oggi motivo di scandalo tra i lettori abituali dell’uomo d’acciaio, e le perplessità che continua a suscitare sono a mio giudizio pienamente giustificate. Il problema è che Superman decide di uccidere i kryptoniani a sangue freddo, dopo averli resi inermi, attribuendo al proprio atto una funzione sia punitiva che preventiva (per impedire che compiano i medesimi atti sulla terra “regolare” nel caso riacquistassero i poteri). Nemmeno per un momento Superman contempla la possibilità di una soluzione alternativa di qualsiasi genere, benché in effetti abbia sia il tempo che la facoltà di porsi l’interrogativo. Una situazione analoga nel film Man of Steel di Zack Snyder è giustificata infinitamente di più, nonostante le rimostranze di diversi spettatori.

superman22La decisione di Superman produrrà una lunga serie di conseguenze nella serie regolare, a cominciare da un autoinflitto esilio nello spazio fino alla saga dello “Zod russo” inventato da Joe Kelly sulle pagine di Action Comics vent’anni dopo (quest’ultima versione del personaggio, come confermato da Kelly qualche anno fa, doveva in un primo momento essere un Kal-El di un mondo parallelo, impazzito per l’esecuzione dei tre kryptoniani malvagi). Bisogna tenere presente tuttavia che tutte queste storie - generalmente di un certo valore, peraltro - sono successive alla gestione di Byrne del personaggio e probabilmente sono più il tentativo di venire a patti con una svolta narrativa poco giustificabile, anziché un’evoluzione ragionata della psicologia dell’Uomo d’Acciaio. In più - e questo elemento è presente anche nella saga originale, non esplicitamente contraddetto nelle saghe successive, probabilmente per non sminuire la storia di Byrne - la decisione di eliminare i tre kryptoniani viene raffigurata come una scelta difficile, tormentosa… Ma non come una soluzione potenzialmente sbagliata. Il primo autore che all’interno delle storie descriverà esplicitamente l’atto come un errore sarà Kelly, in una saga del resto molto tarda e oggi ingiustamente dimenticata. Ma nella storia originale, al momento di compiere l’esecuzione, Superman non ha reali esitazioni. Al di là delle implicazioni morali, che pure suscitano molti giusti interrogativi, a Byrne va attribuita la responsabilità di aver rappresentato una situazione estremamente complessa in maniera troppo semplicistica.

Questo genere di problemi sono presenti in molte storie del Superman rilanciato dopo la Crisi dell’86, anche negli anni successivi alla gestione Byrne. A peggiorare le cose, interviene a partire dagli anni ’90 un altro elemento, che forse più di tutti gli altri ha danneggiato il personaggio: il senso dell’aspettativa nei confronti di Superman come eroe “giusto” per antonomasia, sia da parte dei comprimari della serie che da parte dei lettori. Questa bizzarra evoluzione è forse una conseguenza indiretta dell’avanzata età editoriale di Superman, oltre che della sua elevazione a icona dell’immaginario popolare americano. In pratica, a partire da un certo momento in poi, ci si è abituati a pensare (e a volte questo pensiero è esplicitamente espresso all’interno delle storie) che Superman è “il personaggio che compie sempre la scelta giusta”, dotato di una specie di senso infallibile della moralità. Questo preconcetto, che per molti lettori è stato elevato quasi a dogma religioso, ha prodotto principalmente due tendenze all’interno delle storie, entrambe fortemente deleterie per l’evoluzione del personaggio. In primo luogo, qualsiasi decisione (non importa quanto difficile) presa da Superman nelle sue avventure, purché non esplicitamente sbagliata, è stata ritratta invariabilmente come la scelta migliore, senza che venissero proposte possibili alternative. In secondo luogo, gli scrittori hanno iniziato a “barare” (anche in buona fede), ponendo Superman di fronte a situazioni complesse solo sulla carta, ma contemporaneamente inserendo anche delle facili scappatoie che permettessero di aggirare i problemi ed evitando a Superman la difficoltà di sottoporsi a sfide morali di troppo difficile risoluzione. Questo atteggiamento ha portato a una sorta di “intoccabilità” dell’Uomo d’Acciaio, posto su un piedistallo ma anche inaridito, lontanissimo dall’eroe dubbioso ma pieno di spunti della Bronze Age.

Alcuni prodotti di questa doppia tendenza, i cui effetti si avvertono tuttora, sono stati tra i peggiori albi di tutta la storia dell’uomo d’acciaio. Grounded (Superman 701-714) di J. Michael Straczynski, maxiserie abbandonata a metà dall’autore originale che lasciò le redini a Chris Roberson, quasi senza fornirgli indicazioni su come proseguirla, potrebbe tranquillamente concorrere a peggior storia di Superman di tutti i tempi (e la collana di volumi Superman: Earth One, sempre di Straczynski, sono solo lievemente più accettabili, anche se scritti in maniera estremamente rozza). Il presupposto - Superman decide di intraprendere una marcia attraverso gli Stati Uniti per riconnettersi alle proprie origini terrestri - viene sfruttato da Straczynski nella maniera più ridicola possibile. Da un lato si suggerisce pretenziosamente una trattazione verosimile dei problemi del mondo reale, e dall’altro si fanno compiere a Superman alcune scelte stupidissime e paternalistiche che sono invariabilmente presentate come grandi intuizioni, lasciando che a porre delle (giuste) obiezioni siano sempre i personaggi più antipatici e quindi - per il lettore - inattendibili. In un episodio, Superman risolve il problema di un quartiere tormentato da un gruppo di spacciatori dando fuoco alla loro casa; quando - nel giubilo generale - viene obiettato che gli spacciatori troveranno comunque un altro indirizzo e dunque il problema è stato solo spostato altrove e non risolto, Superman elargisce una lezione di morale spicciola su come ciascuno debba risolvere individualmente i problemi che gli vengono sottoposti. Una saga veramente orribile, nella quale il povero Roberson ha cercato di salvare il salvabile rinnegando nella seconda metà della storia tutto quello che è stato raccontato nella prima.

superman-701Grounded è un punto bassissimo del Superman dell’era moderna, ma va detto che l’influenza di eccessive aspettative nei confronti del personaggio si fa strada anche in molte saghe considerate ormai classiche. Kingdom Come di Mark Waid è una visione affascinante e di grande potenza di un futuro possibile dell’universo DC, con un Superman invecchiato e dubbioso. Il problema è che questo personaggio, pur ritratto con grande rispetto da Waid, è in realtà il responsabile della decisione meno avveduta e più chiaramente pericolosa dell’intera miniserie (stipare tutti i giovani e violenti superumani di ultima generazione in un gulag). Gli effetti di questa decisione sono tutti disastrosi, e con la semplicistica decisione finale di Superman (lavorare fianco a fianco con gli umani dopo che i superumani sono stati decimati) Waid fa passare forzatamente in secondo piano la responsabilità del personaggio nella catastrofe che ha contribuito a provocare. Semplicemente lo spunto, peraltro di un certo interesse, viene sbrigativamente lasciato cadere, e la reputazione di innata saggezza di Kal-El è sostanzialmente mantenuta. Quello del gulag è sì un errore, ma ormai superato.

Purtroppo, una debolezza di Waid è proprio il grandissimo amore che prova per il personaggio di Superman, che talvolta gli impedisce di prendere le decisioni narrative più efficaci che vadano a disturbare il primato di Kal-El come “migliore di tutti i supereroi”. In Birthright, una rinarrazione del resto molto efficace delle origini dell’Uomo d’Acciaio (e nella quale viene presentato un Clark Kent giornalista in Africa assolutamente strepitoso), il climax della storia è una battaglia tra Superman e un esercito di kryptoniani invasori. Per qualche pagina, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una scelta fondamentale per il giovane Superman, diviso tra il pianeta adottivo e ciò che resta del proprio mondo natale (in pratica lo stesso dilemma presente nella saga di New Krypton di Geoff Johns e James Robinson, di vari anni successiva, oltre che del film di Snyder). Improvvisamente, però, si scopre che l’invasione è finta, e si tratta di una messinscena di Luthor per screditare l’Uomo d’Acciaio. Anche se Superman continua per il resto della storia a compiere atti eroici, c’è un enorme calo di tensione: sia perché chiaramente, per quanto pericolosi, gli invasori fasulli non saranno mai davvero intenzionati a un genocidio globale; sia perché da un certo momento in poi sembra che Superman non combatta per la salvezza della Terra, ma per la propria reputazione. Il dilemma lancinante che per Superman sarebbe stato rappresentato da un incontro con autentici kryptoniani è accantonato.

È interessante notare come l’elevazione di Superman a personaggio moralmente infallibile non solo ne abbia bloccato l’evoluzione, ma abbia anche scoraggiato gli scrittori dall’introdurre spunti e trame di maggiore complessità. Si è creata, da parte di molti appassionati, una sorta di esagerata ipersensibilità nei confronti di qualsiasi svolta “matura”, o anche solo tesa a esplorare le contraddizioni dell’Uomo d’Acciaio. Il problema è che, dopo Watchmen, il Cavaliere Oscuro di Miller e Authority di Warren Ellis, è davvero difficile pensare di scrivere avventure moderne di Superman semplicemente ignorando le implicazioni di certe scelte. Si tende a rimuovere qualsiasi interrogativo, pure valido, che possa in qualche modo incanalare Superman in una direzione distinta e meno generica. Qual è il campo d’azione di Superman? Agisce solo a Metropolis o anche altrove? Riabilita i criminali? Svolge anche un ruolo preventivo o solo reattivo? Di qualsiasi risposta, anche vaga, non c’è quasi traccia; ma quel che è peggio, queste domande - tutte assolutamente lecite - non vengono nemmeno utilizzate per provocare in Superman quel sano interrogativo privo di risoluzione definitiva che pure era così indicativo della Bronze Age; e, se il dubbio c’è, è sempre superficiale o risolto in modo frettoloso.

superman658Quasi nessun altro personaggio supereroistico ha di questi problemi. Eroi come Batman, l’Uomo Ragno, Devil, sono in pratica dei poliziotti non autorizzati, con un preciso orario di lavoro e campo d’azione. La loro umanità è anche la loro forza, al punto che anche dilemmi insolubili e posizioni contraddittorie finiscono con l’aumentare il loro fascino. Batman, come è noto, non ucciderà mai il Joker, semplicemente perché l’Arlecchino del crimine è un personaggio troppo popolare per poter essere eliminato. Nelle storie di Batman, il non utilizzo della forza letale è giustificato con la volontà da parte del Cavaliere Oscuro di non abbassarsi al livello del suo nemico. Questa giustificazione è chiaramente poco convincente (il Joker è un personaggio al di là di ogni redenzione, vive solo per uccidere e Batman rifiuta di eliminarlo per una questione di principio?), ma incredibilmente questa contraddizione non sminuisce il valore del personaggio del Cavaliere Oscuro; anzi, lo aumenta. E questo perché Batman è anche un personaggio tormentato e contradditorio, profondamente umano. Per Superman, tutto questo non sarebbe assolutamente possibile: e pur di non suscitare un dubbio morale nel personaggio, questioni analoghe non sono neppure poste seriamente. Persino quando l’Uomo d’Acciaio finisce con l’uccidere, come nel caso dei tre kryptoniani o anche di Doomsday nella celebre saga della morte di Superman, anche in quel caso ha fatto la scelta giusta (anche se sofferta).

A volte, il gioco di proporre a Superman facili vie d’uscita da importanti scelte morali finisce con il nuocere severamente anche a storie per il resto ben impostate e intelligenti. In Superman 658, una delle puntate della saga Camelot Falls di Kurt Busiek, un episodio ambientato in un futuro post-apocalittico vede Superman affrontare il cattivissimo Khyber, responsabile della distruzione del mondo. Quando si trova nella posizione di ucciderlo, decide di non spezzare il proprio giuramento; al che Khyber reagisce prima massacrando Superman e poi finendo a sua volta ucciso dal supereroe Sirocco, un personaggio con meno scrupoli morali. Anche se la narrazione dell’episodio da parte di Lois Lane evidenzia come anche in questa occasione Superman abbia fatto la scelta moralmente più corretta, a esaminare razionalmente la successione degli eventi non si può non notare come, alla fin fine, la sfida con il cattivo si possa risolvere esclusivamente con la condanna a morte di quest’ultimo; condanna che Busiek - con poco coraggio - fa eseguire a un altro personaggio. La morte di Superman, più che eroica o improntata a un superiore senso morale, sembra solo inutile e un po’ sciocca.

Un altro esempio è presente in un episodio per il resto giustamente celebre, What’s so Funny About Truth, Justice and the American Way? di Joe Kelly, in Action Comics 775. La storia tratta il problema della presunta inadeguatezza di Superman al mondo moderno, quando un violento gruppo di superuomini, l’Elite (una versione dell’Authority di Ellis presentata in chiave più negativa del prototipo), raggiunge una popolarità maggiore di quella dell’Uomo d’Acciaio grazie a una serie di esecuzioni sommarie di supercriminali. La storia è magnifica, con Superman chiamato a confrontarsi con un mondo dal quale si è distaccato e che a sua volta - metafumettisticamente - stenta a riconoscersi in lui. La risoluzione, tuttavia è debole: dopo essere stato creduto morto in seguito a uno scontro con l’Elite, Superman, sopravvissuto non si sa come, torna alla carica, e rende inoffensivi i superumani violenti facendo per un secondo credere al loro leader di averli uccisi o menomati (ripagandolo, per così dire, della stessa moneta). Tutto giusto, se non fosse che in realtà questa zuffa risolutiva diminuisce di molto il valore degli interrogativi sollevati nella prima metà della storia. In nessun modo viene dimostrato che la politica di non utilizzo della forza letale da parte di Superman sia la soluzione più efficace, meno distruttiva, e insomma la strada “giusta” da intraprendere. Inoltre, i membri dell’Elite (tutti arroganti e antipatici) non vengono affatto convinti dell’errore dei loro metodi: Superman li vince solo perché dotato di maggior forza fisica e maggiore abilità nell’utilizzarla.

Superman RedSonD’altra parte, nemmeno quelle storie ambientate su terre alternative che partono proprio dal presupposto di presentare un Superman fallibile e meno affidabile nel suo ruolo di riferimento morale riescono sempre a presentare il loro punto di vista in maniera convincente. Un cliché ricorrente in molte storie di questo genere (e presente anche nel recente videogioco Injustice: Gods Among Us) vede Superman trasformarsi in sanguinario dittatore del mondo dopo l’uccisione di Lois Lane per mano di qualche cattivo. Al di là del facile spiazzamento che provoca vedere l’Uomo d’Acciaio ritratto in vesti negative (un po’ come nelle copertine shock della Silver Age e Bronze Age dove Superman compiva atti di “superdickery”, tormentando Jimmy Olsen o uccidendo Lois Lane), queste variazioni sul tema non sono solitamente troppo giustificate; in ultima analisi, risulta anzi lievemente inquietante che la scorza morale di Superman sia così fragile da andare in frantumi a causa di un lutto personale. Un tentativo solo apparentemente più complesso lo fa la storia immaginaria Red Son di Mark Millar, con un Superman dittatore sovietico - per quanto benintenzionato - che vede naufragare i propri progetti di trasformazione della Terra in utopia. La storia non è male, ma trovo che sia semplicistica e che goda di una fama immeritata: Millar spende tantissime pagine a illustrare gli scontri tra Superman e le versioni alternative di Bizarro, Batman e Lanterna Verde, e troppo poche a spiegare perché gli ideali del “compagno Uomo d’Acciaio” falliscano. Peraltro, degli atti più orribili di Superman (come la rieducazione forzata degli oppositori) vediamo solo il prodotto finale, mai l’attuazione pratica; forse per non suscitare un’eccessiva antipatia da parte del lettore nei confronti di questo personaggio, che resta pur sempre un eroe positivo per quanto traviato.

Alla lunga, la posizione di Superman come “faro morale” inattaccabile ha finito con il danneggiare seriamente ogni possibilità di immedesimazione del lettore nei suoi confronti: un problema, questo, che viene indirettamente evocato anche in molte storie ben riuscite. Personalmente, trovo che Superman for All Seasons di Jeph Loeb e Tim Sale e All-Star Superman di Grant Morrison siano tra le migliori storie dell’Uomo d’Acciaio mai realizzate. Sono saghe praticamente perfette, degne di un posto d’onore nella galleria dei migliori fumetti di tutti i tempi. Ma hanno entrambe una caratteristica curiosa, forse dovuta al periodo della storia editoriale di Superman nel quale sono state scritte, quando cioè era già in atto la “beatificazione” del personaggio. Sia nella storia di Loeb che in quella di Morrison, Superman è un protagonista “estraneo”, e i suoi pensieri e le sue intenzioni non sono completamente comprensibili ai comuni mortali o ai lettori (il che non implica che sia un personaggio mal scritto… In entrambe le storie, Superman è reso in maniera meravigliosa). Se nella storia di Morrison questo approccio è spiegabile con la raffigurazione di Kal-El come un essere divino (in pratica, una specie di benevolo dottor Manhattan), nella miniserie di Loeb lo scrittore sceglie deliberatamente di non usare Superman come voce narrante, ma di presentarlo di volta in volta attraverso gli occhi dei comprimari: Martha Kent, Lois Lane, Lex Luthor e Lana Lang. Il risultato finale, curiosamente, è quello di creare una sorta di Citizen Kane con al centro il personaggio di Superman, senza mai ritrarre definitivamente il protagonista, proprio come nel film di Orson Welles. In ogni caso, è ben difficile pensare che un simile approccio possa essere utilizzato in modo sistematico anche nei fumetti seriali.

Un elemento supermaniano che è diventato particolarmente presente in molte storie di recente realizzazione è la sua cosiddetta funzione “ispiratoria”: il valore di Superman risiederebbe nella sua innata capacità di ispirare nel prossimo sentimenti positivi di emulazione. Temo però che questa caratteristica, non a caso evidenziatasi nel momento di maggior crisi creativa del personaggio (ma assai meno presente nelle storie dei decenni precedenti), sia piuttosto una formalità meccanica per compensare Superman della sua mancata rilevanza in molte storie recenti. È una qualità del personaggio dai benefici totalmente indiretti, e spesso viene resa attraverso dettagli estetici scarsamente significativi, ai quali però gli autori attribuiscono forzatamente un valore: un caso è la S sul petto come simbolo di speranza, inaugurata da Mark Waid in Birthright e ripresa anche nel film, o i facili richiami alla simbologia cristiana e a Gesù Cristo, presenti in diverse incarnazioni di Superman ma quasi sempre senza gran costrutto.

justiceleagueInoltre, non c’è nessun motivo preciso per cui l’Uomo d’Acciaio debba ispirare agli altri un senso di moralità superiore, o almeno non più di quanto già non facciano altri eroi. In verità, nelle storie in cui Superman è affiancato da altri superesseri (per esempio nelle avventure della Justice League), il ruolo del personaggio è spesso sminuito o messo in secondo piano, tranne che per l’uso fantasioso della forza fisica e dei poteri. Ovviamente, non credo che si tratti di un progetto consapevole da parte degli scrittori per porre Superman in ombra; credo semplicemente che l’Uomo d’Acciaio sia ormai un personaggio così complicato da gestire che gli autori preferiscono riservargli le scene di battaglia più mozzafiato ma superficiali, destinando ruoli maggiormente complessi ad altri personaggi. Superman sarà pure il più puro e il più morale degli eroi, ma stringi stringi, nelle storie della Justice League il personaggio più assennato, intelligente e maggiormente dotato come leader e stratega è Batman.

Personalmente non vedo alcuna via d’uscita da questa situazione, a meno che un rinnovato interesse per l’Uomo d’Acciaio - e la sua sottrazione a quell’aura iconica che lo ha cristallizzato nell’ambra per troppo tempo - non riportino Superman tra i mortali e incoraggino la creazione di nuove versioni del personaggio. A tal scopo, le recenti reinvenzioni cinematografiche possono essere di grande aiuto. In ultima analisi, tuttavia, non posso che essere dispiaciuto per l’abbandono di alcuni spunti che negli anni sono stati suggeriti come approcci alternativi al personaggio. Mi riferisco in particolare a due interpretazioni dell’Uomo d’Acciaio che, per quanto spesso citate da lettori e scrittori appassionati, non hanno avuto a mio giudizio alcun seguito. Il loro valore, comunque, è tale da meritare almeno una menzione.

Il primo caso è quello di Miracle Monday, un romanzo (non a fumetti) del 1981, scritto da Elliot S. Maggin. La storia è incentrata su uno scontro tra Superman e un essere demoniaco, C. W. Saturn, ma a mio avviso l’autentico valore del testo sta soprattutto nella descrizione del background culturale di Superman e della natura del suo senso morale. In particolare, c’è un episodio particolarmente significativo a inizio romanzo. Il passaggio vede Jonathan Kent svegliarsi da un incubo, nel quale il figlio adottivo (qui ancora molto giovane) è diventato dittatore del mondo. Poco dopo, Jonathan sorprende Clark nell’atto di dissezionare una cavalletta, e vede in questo incidente l’avverarsi delle sue peggiori preoccupazioni. In realtà, Clark ha trovato la cavalletta morta e la sta esaminando per scoprire cosa l’abbia uccisa, allo scopo di prevenire la morte di altre cavallette. C’è inoltre un passaggio, spesso citato, che ben sintetizza la visione del personaggio di Superman da parte di Maggin, e che vale la pena di riportare integralmente:

Miracle Monday“Il ragazzo crebbe in un universo fatto di microcosmo e macrocosmo. Poteva visitare la parte opposta del mondo così come gli altri ragazzi attraversavano un torrente dondolandosi appesi a una pianta. Poteva vedere gli interminabili drammi delle guerre nei formicai sotterranei, e le rivalità tra le masse d’aria nella stratosfera, con la medesima facilità con la quale due volte al giorno vedeva il furgone postale zigzagare oltre la fattoria, diretto in città. Poteva alterare la propria percezione visiva per individuare le onde dell’intero spettro elettromagnetico: per lui, vedere particelle alfa o raggi cosmici era facile come vedere la luce visibile, ma con tinte che i comuni esseri umani erano incapaci di immaginare.

Poteva avvertire il livello giornaliero di attività delle macchie solari quando si svegliava la mattina, nello stesso modo in cui coloro che lo circondavano potevano sapere se stava piovendo prima ancora di aprire gli scuri. Poteva tenere una conversazione in una stanza e al tempo stesso seguirne un’altra lontana un miglio, e ascoltare una trasmissione radio mentre saettava nell’aria attorno a lui, sotto forma di microonde.

Il mondo era il suo campo giochi e la sua università, i sensi superumani erano i suoi insegnanti, e l’anonimato dei Kent il suo utero e la sua protezione. Era solo in tutta questa percezione e conoscenza, solo in modo sovrumano; ma meno solo - capiva - di quanto non lo fossero gli altri abitanti della Terra, appiccicati al loro lavoro e intrappolati all’interno di corpi che non potevano fare altro che toccare l’esterno di altri corpi. Il ragazzo era solo, ma non si annoiava mai”.

Miracle Monday ha ispirato autori come Waid e Morrison, ma trovo che nessuno, tranne che in rarissime occasioni (per esempio in All-Star Superman), sia riuscito a comprendere appieno e a trasmettere la lezione di Maggin. La geniale intuizione dell’autore è consistita nel legare il senso morale di Superman a una curiosità scientifica e intellettuale inesauribile, non sterile e fredda, ma positiva e volta al miglioramento della vita. In pratica, un avventuroso super-scienziato, con molte attinenze con Reed Richards e Tom Strong. Personalmente non capisco perché così pochi autori si siano rifatti a Miracle Monday, anche se sospetto che dipenda dalla più immediata fruibilità di semplicistiche scene d’azione rispetto a quelle di ricerca intellettuale. Eppure, questo elemento, se adeguatamente sfruttato, risolverebbe davvero tantissimi problemi che oggi affliggono l’Uomo d’Acciaio. Oltre a suggerire una nuova chiave di interpretazione che forse faciliterebbe l’identificazione dei lettori (chi non è mai stato animato da curiosità intellettuale in un qualsiasi campo, nella propria vita?), giustificherebbe in maniera intelligente il senso della moralità superiore di Superman - non più dovuta a qualche iperscrutabile grazia divina, ma finalizzata a un concreto miglioramento del mondo. Inoltre, costituirebbe uno spunto per quel tipo di avventurose imprese nello spazio e in altri pianeti, che a loro volta trovano nel cosmo supermaniano una dimensione ideale.

tom-de-haven-supermanL’altro testo che a mio giudizio fornirebbe una valida ispirazione per un possibile rinnovamento dell’Uomo d’Acciaio è un altro romanzo, It’s Superman! di Tom De Haven, che racconta le origini di Superman in un’America degli anni ’30 estremamente evocativa e realistica. Anche se c’è qualche caduta di tono, il romanzo presenta alcune delle versioni di Lois, Luthor e Clark più riuscite e di maggior spessore che mi sia mai capitato di leggere. Ma soprattutto, è ambientato nelle strade di una nazione che sembra uscita da un romanzo di John Steinbeck.

Credo che utilizzare un simile approccio, magari senza fare necessariamente riferimento a un preciso periodo storico, ma utilizzando il mito culturale americano come fonte generale di ispirazione, fornirebbe al personaggio dell’Uomo d’Acciaio nuova linfa; già in Superman for All Seasons, Loeb e Sale si erano rifatti esplicitamente a Norman Rockwell, con risultati notevoli. Riproporre il background di Superman immergendolo nel grande immaginario americano, piuttosto che soffocarlo nel vuoto e sterile patriottismo di slogan (“Truth, Justice, and American Way!”) peraltro mai realmente giustificati al di fuori di singoli periodi storici, arricchirebbe notevolmente l’umanità di Clark; soprattutto, darebbe un senso a uno dei tratti classici di Superman - l’”americanità”, appunto - che più difficilmente è possibile riproporre senza scadere nel becero nazionalismo. L’Uomo d’Acciaio, a mio giudizio, non dovrebbe essere figlio della bandiera stelle e strisce e dell’aquila reale, ma di William Faulkner e Jack Kerouac, Jack London e Bob Dylan, Terrence Malick e Sidney Pollack. Insomma, un prodotto di quell’ambito culturale noto come Americana, più che dell’America come nazione. Sospetto, ma non ho alcun modo di verificarlo, che certi dettagli di Man of Steel di Snyder (l’Alaska, le inquadrature di flashback che sembrano rifarsi a certi film di Malick), possano essere altrettanti richiami a classici dell’immaginario statunitense; così come il Superman in jeans e maglietta creato da Grant Morrison per il suo, del resto piuttosto risaputo, recente rilancio di Action Comics è un probabile riferimento a Bruce Springsteen.

In ogni caso, al di là di questi suggerimenti - che restano pur sempre motivati dal semplice gusto personale - sono convinto della validità di un concetto generale: perché Superman torni a essere un eroe di valore, rilevante e protagonista di storie efficaci, bisogna avere il coraggio di riplasmarlo, abbandonando i preconcetti dogmatici che si sono accumulati sul personaggio e ridandogli un nuovo senso. Insomma, bisogna ricreare Superman concentrandosi su quello che è e quello che fa, non su quello che ci si aspetta che sia o faccia.

Il mantello in naftalina: La sciagurata storia dei moderni film di Superman

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superman4Il 14 giugno è uscito nelle sale Man of Steel di Zack Snyder, l’attesissimo reboot della saga cinematografica di Superman. Le aspettative sono enormi, e non solo perché il film potrebbe costituire l’inizio di un nuovo filone di pellicole dedicate all’Uomo d’acciaio, o addirittura di un intero universo filmico condiviso dai supereroi DC; ma anche perché Man of Steel potrebbe interrompere quella che a tutti gli effetti sembra essere una maledizione che da più di vent’anni aleggia sui progetti cinematografici dedicati a Superman. Il percorso verso il grande schermo che l’eroe di Jerry Siegel e Joe Shuster ha dovuto intraprendere dai tempi del già pessimo Superman IV (1987) si è rivelato incredibilmente difficile, costellato di un numero talmente elevato di tragicomici fallimenti che è difficile non pensare a un’oggettiva e seria difficoltà, da parte di sceneggiatori non solo cinematografici, nella delineazione del ruolo di un personaggio certamente classico e iconico, ma anche - forse - irrimediabilmente invecchiato. Il trionfo di Man of Steel potrebbe portare alla rinascita di Superman, così come un insuccesso potrebbe dimostrarne l’irrimediabile decadenza; e il conseguente, definitivo pensionamento tra le icone del tempo che fu, come Mandrake e Flash Gordon.

Il progetto di un nuovo capitolo della saga di Superman è addirittura precedente all’uscita del quarto film con Christopher Reeve. All’epoca, la Cannon Group, società  specializzata nella distribuzione e produzione di action movies di serie B (qualcuno ricorda l’Allan Quatermain di Richard Chamberlain? E la saga di American Ninja?) co-deteneva i diritti di sfruttamento cinematografico di Superman e mise in cantiere un progetto per un quinto film, che avrebbe dovuto essere diretto da Albert Pyun. Il fallimento di Superman IV e la chiusura della Cannon riportarono i diritti in mano al produttore Ilya Salkind, già responsabile del Superman di Richard Donner, e al figlio, Alexander Salkind. Nei primi anni ’90, Salkind padre, coadiuvato da uno dei classici scrittori della DC Comics, Cary Bates, e dallo sceneggiatore Mark Jones, fu il primo a tentare la resurrezione del Superman cinematografico.

Salkind, pittoresco personaggio dal ciuffo fluente, non era nuovo a bizzarre escursioni nel campo della scrittura creativa. Nel 1983, era stato il responsabile di una prima stesura del soggetto di Superman III, addirittura più demenziale del film con Richard Pryor poi effettivamente realizzato. Nella prima stesura della storia, il principale avversario del film era il coluano Brainiac, in questa versione trasformato in una sorta di Superman malvagio sul cui arido pianeta si schiantava Supergirl. La ragazza d’acciaio diventava oggetto del desiderio sia di Superman che di Brainiac; lo scontro tra i superesseri prevedeva, tra l’altro, un viaggio nel tempo fino al Medio Evo, una sequenza in cui Superman diventava un pericolo pubblico perché controllato mentalmente da Brainiac tramite un apposito tastierino, e persino una sequenza totalmente incongrua col resto del film, incentrata su Mr Mxyzptlk. Di tutto questo in Superman III non rimane traccia, se non nella presentazione di un computer come principale arma del cattivo di turno e nell’apparizione di un doppio malvagio di Superman.

Brainiac è il cattivo anche nel soggetto di Superman 5, che curiosamente anticipa anche la saga fumettistica della morte di Superman del 1992. Nella sceneggiatura di Bates e Salkind, Superman moriva scontrandosi contro il “computer vivente”, per poi risorgere all’interno della città miniaturizzata di Kandor, dove avrebbe sperimentato per qualche tempo l’assenza di poteri. Il film avrebbe dovuto rivedere Christopher Reeve nel ruolo dell’Uomo d’Acciaio, ma il ritorno dei diritti del personaggio nelle mani della Warner Bros. ne impedirono la realizzazione.

La saga della morte diede nuova vita, se non altro mediatica, al Superman cartaceo, e tra il 1995 e il 2000 fiorirono innumerevoli progetti cinematografici dedicati al personaggio. Nessuno di questi piani venne mai realizzato: rileggendoli oggi, c’è da rimanere allibiti a pensare che certe idee abbiano potuto essere seriamente prese in considerazione. Il fatto che certi soggetti siano stati concepiti decenni prima della nascita e della maturazione delle pellicole supereroistiche moderne (quelle Marvel, per intenderci), dà del fenomeno una spiegazione solo parziale: in fondo, anche se nel 1995 persino Batman aveva imboccato la parabola discendente con Batman Forever, i film di Tim Burton restavano sempre un buon modello, assai imperfetto ma tutto sommato funzionale, dell’equilibrio tra fantastico e epico a cui certi film avrebbero dovuto attenersi. E invece, i piani dei Superman mai realizzati sembrano - se non proprio deragliamenti creativi degni di una fanfic - strampalati oggetti kitsch, buoni al massimo come curiosità per gli appassionati (come il regista Jon Schnepp, attualmente in cerca di finanziamenti su Kickstarter per realizzare un documentario proprio su questo tema). Dopo Ilya Salkind, un altro ciuffo era dietro i nuovi progetti supermaniani: quello di Jon Peters, già parrucchiere di Barbra Streisand e produttore, tra l’altro, di Rain Man e del Batman con Michael Keaton.

RolfMohr SupermanLives 06Lo sceneggiatore Jonathan Lemkin fu tra i primi a essere incaricato della scrittura del nuovo film di Superman (intitolato, con un ottimismo a dir poco spericolato, Superman Reborn). Come i progetti degli anni precedenti, non si trattava di una rinarrazione delle origini di Superman, ma piuttosto un sequel non dichiarato dei film con Reeve. La trama vedeva Superman morire per mano di Doomsday, e Lois partorire - senza essere stata inseminata - un Superman bambino che sarebbe diventato adulto nel giro di poche settimane. Una successiva revisione della sceneggiatura, a cura di Gregory Poirer e datata 20 dicembre 1995, avrebbe visto Brainiac - intenzionato a incarnarsi nel corpo di Superman - come creatore di Doomsday. In questa versione Superman sarebbe stato in cura da uno psichiatra (presumibilmente dopo aver letto la sceneggiatura di Superman Reborn), e la sua resurrezione, operata grazie a un alieno di nome Cadmus (una citazione dal progetto Cadmus dei fumetti) avrebbe avuto come effetto collaterale la perdita dei poteri. Superman avrebbe sopperito alla propria vulnerabilità con un’avanzata tuta-esoscheletro, ma sarebbe tornato in possesso dei poteri solo grazie a una complessa disciplina mentale chiamata Phin-Yar. Come molti dei progetti degli anni successivi, anche il soggetto di Poirer era fortemente influenzato, già in fase di scrittura, dalla volontà primaria di utilizzare il film come veicolo per la produzione e promozione di gadget e giocattoli; il che spiega in parte l’inclusione nello script di cattivi di secondo piano come Il Parassita e la Silver Banshee, modelli ideali per action figures.

La sceneggiatura di Superman Reborn venne scartata, e Peters decise di ricominciare da zero. Stavolta il progetto fu affidato a Kevin Smith, regista di Clerks  e sceneggiatore di fumetti. Probabilmente dall’esperienza di Smith non sarebbe scaturito un buon film, ma certamente ne sono nati degli splendidi aneddoti: nel documentario An Evening with Kevin Smith, parzialmente presente su Youtube, è possibile vedere l’alter ego di Silent Bob che racconta con dovizia di (esilaranti) particolari le sessioni di lavoro con Peters, e i fantozziani tentativi di seguire le direttive del produttore senza snaturare il personaggio. Anche in questo caso si trattava di una trasposizione della saga della morte, sia pure vagamente più fedele al fumetto dei tentativi precedenti. In Superman Lives, Brainiac avrebbe fatto uccidere Superman da Doomsday, ma l’Uomo d’Acciaio sarebbe stato fatto risorgere dall’Eradicatore, un robot kryptoniano la cui tecnologia avanzatissima sarebbe stata nel mirino di Brainiac. In questa versione, Brainiac aveva come spalla un robot effeminato, L-Ron, mentre Lex Luthor sarebbe stato affiancato da un cane alieno. Alcuni dettagli dello script sono diventati celebri tra gli appassionati; in particolare, una scena di battaglia tra Superman e un ragno gigante - imposta da Peters come omaggio a King Kong - è stata oggetto di citazioni e in-joke in numerosi film e fumetti dedicati all’Uomo d’acciaio (in particolare nel film animato Superman: Doomsday del 2007, dove l’apparizione di un robot gigante a forma di ragno viene commentata da un personaggio doppiato da Smith in persona con l’esclamazione “Lame!”). Come regista di Superman Lives si pensò inizialmente a Robert Rodriguez, ma successivamente il progetto venne affidato a Tim Burton, che revisionò nuovamente la sceneggiatura.

nic cage   superman livesDi tutti i Superman non filmati, quello di Burton è il progetto che più si avvicinò a una effettiva realizzazione. Alla Toy Fair del 1997 venne persino presentato un poster con l’emblema della “S” e la scritta “Coming 1998” (in occasione, cioè, del sessantenario della nascita del personaggio). Si arrivò concretamente a una fase di preproduzione, e del progetto sono sopravvissuti e resi pubblici molti storyboard, schizzi e prove di costume, tutti rintracciabili su Internet. Ciò non toglie che, anche per gli standard del Burton di allora e sicuramente per quelli del pubblico attuale, Superman Lives sia un progetto quasi assurdo, non privo di un certo fascino visionario, ma sulla cui effettiva possibilità di felice realizzazione è lecito nutrire più di un dubbio. Certi concept sembrano avvicinarsi di più all’estetica di Karel Thole e J. K. Potter che a quella di un film, o di fumetto: visivamente evocativi, ma pericolosamente ridondanti e assai difficili da realizzare senza snaturare il personaggio (in uno degli sketch, Superman risorto sembra un incrocio tra Alien e il mostro di Frankenstein). Alcune foto di scena con l’attore designato da Burton, cioè Nicolas Cage, inguainato nel costume di Superman, sono francamente sconfortanti. Ma il vero problema, come al solito, era la sceneggiatura. Successive revisioni dello script di Smith a cura di Wesley Strick e di Dan Gilroy introdussero, tra l’altro, un piano di Brainiac per oscurare il sole con un enorme disco e la fusione di Luthor e Brainiac in una creatura ibrida, “Lexiac”. Dopo alcune controversie contrattuali, Burton abbandonò il progetto che fu offerto, senza essere accettato, a Michael Bay e Martin Campbell. Sarebbero passati almeno 2 anni prima che si facessero ulteriori tentativi di recuperare il Superman cinematografico. Nel 2000 si sarebbero cimentati nell’impresa William Wisher (con un’ulteriore revisione dello script di Smith nella quale sono introdotti i “Lexmen”, degli agenti di Luthor controllabili a distanza; per questo progetto fu avvicinato Oliver Stone) e Paul Attanasio, con una sceneggiatura mai terminata, forse incentrata su uno scontro tra Superman e Lobo.

Nel 2001, a fronte dei numerosi fallimenti, la WB tentò persino - molti anni prima di The Avengers - a creare un film con più di un eroe protagonista: Batman VS Superman, su script di Andrew Kevin Walker revisionato da Akiva Goldsman, e Wolfgang Petersen come regista designato. Come si intuisce dall’ordine dei nomi nel titolo, il vero protagonista del film è Batman, ormai ritiratosi a vita privata e costretto a tornare in azione dopo che un Joker misteriosamente risorto uccide la sua compagna. La vera mente criminale dietro l’intrigo è Luthor, ancora letale benché confinato in carcere. Superman entra nella vicenda nel tentativo di arrestare la sete di vendetta di Batman. Anche questo script fu - fortunatamente - abbandonato quando, nel 2002, l’astro nascente della televisione J.J. Abrams fu chiamato per la stesura di una sceneggiatura nuova di zecca: il progetto Superman: Flyby.

superman flyby concept artAnche questo piano arrivò molto vicino a una realizzazione concreta, e ne esistono molti concept e bozzetti di preparazione. Anche se si trattava di un progetto non privo di pecche (a cominciare dal regista designato, il pessimo Brett Ratner, che passò dopo qualche tempo il testimone al solo vagamente più accettabile McG), non c’è dubbio che alcune interessanti idee di lavorazione siano state successivamente trapiantate proprio nel film di Zack Snyder: lo stesso Henry Cavill era uno degli attori presi in considerazione per il ruolo principale in Flyby. Abrams ebbe se non altro l’intuizione che, per riproporre Superman con successo a un pubblico moderno, sarebbe stato poco indicato confezionare un seguito più o meno dichiarato dei classici film con Reeve: il suo Superman è in effetti il primo tentativo dai tempi di Donner di rinarrare le origini del personaggio.

Tuttavia, la lavorazione conobbe presto una prima, seria, battuta di arresto. Il sito Ain’t it cool di Harry Knowles entrò misteriosamente in possesso di una copia della sceneggiatura, e la divulgazione di alcuni particolari provocò un’ondata di sdegno tra i fan del personaggio. In Flyby, Krypton non esplode: Superman viene mandato sulla terra perché suo padre Jor-El, re di Krypton, vuole impedirgli di cadere nelle mani del feroce zio, il pretendente al trono (e fratello di Jor-El) Kata-Zor. Luthor, in questa versione, è un agente governativo che alla fine si scopre essere un altro kryptoniano, ovviamente malvagio. Alla fine del film, dopo la sconfitta di Ty-Zor (figlio di Kata-Zor e cugino di Superman), e l’ennesima resurrezione di Superman grazie allo spirito incorporeo di Jor-El, Kal-El torna su Krypton. Dei cambiamenti così profondi (e per certi versi francamente gratuiti) rispetto al “canone” supermaniano possono lasciare allibiti, ma va detto a parziale difesa di Abrams che quella divulgata era solamente una prima stesura: è molto probabile che i cambiamenti meno accettabili sarebbero stati lasciati cadere nel corso di ulteriori revisioni . Infatti, in una versione successiva dello script Luthor torna a essere un umano (per la precisione, un commesso viaggiatore fallito che diventa geniale - e calvo - dopo che i kryptoniani malvagi producono una sorta di evoluzione del suo cervello). Ciononostante, l’impressione che si ricava da quest’approccio è che Abrams abbia semplicemente modificato una sceneggiatura preesistente, incentrata su un altro personaggio, e l’abbia adattata frettolosamente al mondo supermaniano. Comunque, gli insuccessi di Ratner al botteghino e una serie di scontri con i produttori contribuirono all’affossamento del progetto.

Nel frattempo, il filone supereroi stico si stava evolvendo. La Marvel aveva cominciato a lanciare l’assalto al botteghino con i film di Blade, degli X-Men e di Spider-man. I personaggi DC erano rimasti al palo; e, dopo il fruttuoso tentativo da parte di Christopher Nolan di rilanciare il franchise batmaniano, la WB prese una decisione disperata, affidando il rilancio di Superman a Bryan Singer, fresco del successo dei film sui mutanti. La sceneggiatura fu affidata a Michael Dougherty e Dan Harris, abituali collaboratori del regista de I soliti sospetti. Le aspettative furono altissime fin da subito: a differenza dei tentativi precedenti, questa volta si trattava di un progetto concreto, con reali possibilità di riuscita. Tra gli appassionati cominciarono subito a diffondersi ipotesi sulla sceneggiatura: si parlò di una nuova versione delle origini e di una partecipazione di Jude Law nel ruolo del Generale Zod. Mark Millar, sul forum ufficiale di Millarworld, millantò una conoscenza con fonti interne alla WB che gli avevano assicurato come prescelto per il ruolo principale l’attore Jim Caviezel; quando l’affermazione venne apertamente smentita da Ain’t it cool, tra Millar e Knowles si scatenò una sorta di “battaglia dei geek” che si concluse con la resa (amichevole) di Millar.

superman-returns-posterOggi lo si può dire: molti critici, all’epoca dell’uscita di Superman Returns (2006), usarono il fioretto nel recensire il film (e nel numero va contato anche l’autore di questo articolo). Una delusione troppo cocente, e un senso di affetto nei confronti del personaggio, impedirono di vedere da subito cos’era veramente il lavoro di Singer, ossia un fallimento. Brutto? Peggio: sbagliato. Più che un film, un equivoco, dall’inizio alla fine. Assurda e controproducente la scelta di proporre il lavoro come un seguito-remake dei film di Donner, scelta che avvicina Returns più a pellicole come Starsky e Hutch e Halloween - 20 anni dopo che a un qualsiasi film di supereroi moderno. Sbagliata la scelta dell’attore protagonista: vittima, oltre che della propria inespressività, di un’estetica artificiosa, completamente innaturale, dal tirabaci sulla fronte alle lenti a contatto blu, a una tuta scomodissima che lo fa assomigliare a un manichino. Sbagliato, soprattutto, introdurre un particolare come il figlio bambino di Superman, un personaggio che pur trovandosi al centro della sottotrama più riuscita del film rappresenta un fastidioso ingombro per qualsiasi sviluppo futuro della storia (come i successivi tentativi di dare un seguito al film di Singer dimostreranno). Pur non rappresentando un insuccesso totale né dal punto di vista degli incassi né da quello della critica, Superman Returns oggi sembra un oggetto abnorme, difficilmente classificabile, indegno del disprezzo totale che meritano film assai peggiori (ma dotati di una specie di fascino trash) come Catwoman di Pitof, ma nemmeno fruibile con la bonaria accettazione che si riserva a lavori non troppo pretenziosi ma a loro modo godibili come certi capitoli della saga di Blade. Un errore, appunto, a cui è meglio riservare l’oblio o al massimo qualche stroncatura goliardica come quella di Seth McFarlane in Ted.

A parziale difesa degli autori, va detto che la scelta di concepire Returns come una prosecuzione dei film con Reeve sia dovuta anche alla fretta con cui i produttori hanno imposto la confezione del progetto. I particolari della sceneggiatura per un possibile seguito del film, divulgati dagli autori in persona qualche anno fa, confermano indirettamente la loro consapevolezza di essere entrati in una sorta di vicolo cieco narrativo, e la volontà di fare piazza pulita di tutti gli elementi più ostici del primo capitolo. Peccato, però, che il soggetto sia pieno di trovate grossolane e alla fine crei ancora più problemi di quanti ne risolva. Il seguito di Returns sarebbe stato incentrato sull’incontro di Superman con un altro kryptoniano, stavolta malvagio, che a metà film si sarebbe scoperto essere una creatura artificiale, ossia Brainiac. A un certo punto, la mente scorporata di Brainiac si sarebbe introdotta nel corpo del figlio di Superman, facendolo diventare istantaneamente adulto. Per salvare il mondo, l’Uomo d’Acciaio sarebbe stato costretto a uccidere il proprio figlio.

Anche se per qualche anno dopo Returns i produttori continuarono a rassicurare il pubblico sulla volontà di produrre un seguito del film, è possibile che in realtà il progetto sia stato abbandonato relativamente presto. Per qualche tempo, alcuni scrittori del Superman cartaceo (tra cui Grant Morrison) proposero ai produttori della Warner degli spunti per nuove versioni cinematografiche del personaggio. Tra tanti suggerimenti, spiccò quello di Mark Millar che, su Millarworld, annunciò la volontà di collaborare con Matthew Vaughan alla creazione di una trilogia di film che avrebbero narrato la vita di Superman dalla nascita fino alla morte (il finale, ambientato in un futuro lontanissimo nel quale Superman è l’ultimo uomo sulla terra, avrebbe visto il kryptoniano diventare finalmente un essere umano normale dopo la trasformazione del sole in una stella rossa). Anche se pare ci sia stata almeno una telefonata tra Millar e un dirigente della Warner, è assai difficile stabilire quanto effettivamente questo progetto sia arrivato vicino a un’effettiva realizzazione, e non è escluso - come ha sostenuto il sito di Latino Review - che in realtà il piano di Millar non sia mai stato preso in reale considerazione. Comunque, nessuna delle idee presentate in questo periodo trovò mai realizzazione concreta.

A constatare una serie così lunga di fallimenti viene da ridere, ma sorge anche spontanea una domanda: è davvero così difficile trarre un film da Superman? In fin dei conti anche personaggi apparentemente più ostici come Capitan America hanno conosciuto una loro trasposizione, con risultati non totalmente disprezzabili; la Marvel è anzi riuscita a mettere in cantiere un intero franchise strettamente interconnesso di film incentrati su supereroi, un’impalcatura impensabile fino a qualche anno fa. Cos’è che questi personaggi hanno e a Superman manca?

Action1Una possibile risposta è suggerita dal peculiare sistema produttivo nel quale sono realizzati i film dei Marvel Studios. Le pellicole sui Vendicatori sono frutto di una promozione accuratamente programmata, che concorre alla creazione di opere quasi mai di qualità scarsa, ma contemporaneamente prive di picchi artistici veramente alti. Opere, cioè, “corrette”, realizzate da registi sostanzialmente intercambiabili tra loro, i quali non si concedono i rischi che qualsiasi reale libertà artistica presenterebbe, ma nemmeno vanno mai al di sotto di una certa soglia qualitativa. Non c’è tra questi film nessun Cavaliere Oscuro, nessun film cioè che utilizzi la tematica supereroistica come pretesto per suggerire riflessioni più o meno complesse sul mondo reale (per esempio, come è il caso dei film di Nolan, sul caos terroristico e sul senso della moralità umana); al tempo stesso però, fortunatamente, non c’è nemmeno alcun lavoro d’intrattenimento completamente dilettantesco e grossolano come Green Lantern (anche se L’incredibile Hulk di Louis Leterrier ci va pericolosamente vicino). La principale preoccupazione alla base di questi film sembra risiedere “semplicemente” nel riuscire a realizzare una trasposizione fedele del fumetto (e non una sua rivoluzione o reinvenzione), permettendosi i pochi aggiustamenti (più che altro di natura estetica) veramente indispensabili, e facendo sì che gli elementi fumettistici riescano ad amalgamarsi felicemente con le esigenze di un prodotto filmico “mediamente” buono. Si potrebbe obiettare che le ambizioni alla base di un film, sia pure a sfondo supereroistico, dovrebbero anche essere più alte; tuttavia, non c’è dubbio che molti fan del Superman cartaceo (così come una fetta consistente di pubblico di “profani”) si accontenterebbero anche di una “semplice” trasposizione. Perché finora non è stato possibile realizzarla?

Il punto è che molti personaggi della Casa delle Idee, benché siano stati creati più di cinquant’anni fa, non richiedono veramente aggiornamenti radicali. Escludendo certi particolari secondari inevitabilmente datati, la mitologia Marvel è ancora oggi perfettamente efficace e fresca, così come l’atmosfera delle storie e, soprattutto, la psicologia degli eroi e dei comprimari. Per esempio, non c’è dubbio che il contesto narrativo ideale per Capitan America sia quello del genere avventuroso-spionistico, e che certi elementi caratteristici del personaggio (il risveglio dall’ibernazione, l’alienazione dell’uomo del passato alle prese con la modernità, il rapporto con il Teschio Rosso e così via) posseggano ancora oggi una grande forza evocativa e non necessitino pertanto di modifiche radicali. Uno sceneggiatore che si cimenti con un film su Capitan America, a meno che non cerchi volontariamente una nuova interpretazione del personaggio, trova nel fumetto originale tutto, o quasi, quello che gli serve. Nessuno di questi film nasce come una reinvenzione, perché nessuno di questi personaggi ne ha veramente bisogno.

Per Superman, la situazione  sembra assai più complessa. Da un lato, la mitologia del decano dei supereroi possiede anch’essa molti tratti iconici inconfondibili (il razzo che parte dal pianeta che sta esplodendo, il Daily Planet, eccetera). D’altra parte, tuttavia, si ha la sensazione che dietro questi tratti ci sia poca sostanza, come se il senso reale del personaggio, la sua missione, la sua psicologia si siano perduti o impoveriti con il passare degli anni.

Nessuno può ovviamente ignorare che Superman provenga da Krypton, per esempio; ma com’è Krypton? Negli anni se ne è presentato un numero talmente elevato di versioni differenti che è praticamente impossibile stabilire oggi quale sia l’atteggiamento di Superman nei confronti del proprio mondo natale. E le radici kryptoniane non sono certamente un elemento secondario del personaggio: tanto per rimanere in tema, sono paragonabili per importanza al fervore patriottico che porta Steve Rogers a diventare Capitan America. Analogamente, nessuno può ignorare che Superman sia un eroe: ma in cosa si manifesta il suo eroismo? Nella protezione di tutto il mondo, dell’America, o di una sola città? Cattura solo i delinquenti, oppure interviene anche in questioni politiche? Contribuisce a redimere i delinquenti che cattura, o li abbandona al loro destino? Prova mai dubbi sul senso della sua missione, o è un ottimista cronico (e pertanto antipatico)? Simili interrogativi - che non trovano una risposta chiara e definitiva all’interno del fumetto - possono essere allargati a praticamente tutte le componenti della mitologia supermaniana, e le ambiguità da cui scaturiscono investono anche personaggi importanti, come per esempio Perry White: un personaggio cioè indubbiamente irrinunciabile nell’economia delle storie ma per certi versi generico, stereotipato (tranne rare eccezioni in lavori di singoli autori), assai più piatto - per esempio - del Jonah Jameson dell’Uomo-Ragno.

SecretOrigin03Sembra che l’entrata di Superman nel novero delle grandi icone culturali del XX secolo abbia prodotto un involontario effetto secondario, quello cioè di “cristallizzarlo”: gli elementi di fondo delle sue avventure sono noti a tutti, indispensabili e - appunto - iconici. Ma non ci si interroga a sufficienza sul senso ultimo dietro queste componenti, che vengono accettate così, tacitamente, come caratteristiche fondamentali delle storie supermaniane, senza che se ne individui un vero significato. Nessuno sceneggiatore, cinematografico o fumettistico, trascurerà di far lavorare Clark Kent al Daily Planet: ma quasi non esistono storie valide (e quelle che esistono sono eccezioni isolatissime) che si interroghino seriamente su come Clark conduca il proprio lavoro di giornalista, e su come questo lavoro arricchisca la sua personalità. Molti di questi problemi diventano particolarmente evidenti nel passaggio da fumetto a film. L’uso degli occhiali come travestimento per Clark Kent è una convenzione generalmente accettata da tutti gli appassionati di vecchia data, ma in un film con attori in carne ed ossa non apparirà come un’assurdità infantile, un elemento ormai irrimediabilmente datato? In pratica, lo stile delle avventure di Superman è diventato pura maniera. E se le storie classiche della Golden, Silver e Bronze Age sono spesso troppo ingenue o vetuste per poter offrire una risposta valida a questi interrogativi, tutti gli aggiornamenti del personaggio operati negli ultimi anni si sono rivelati provvisori o comunque insufficienti a ristrutturare solidamente l’universo supermaniano.

Di tutti i supereroi di primo piano, Superman è quello che nel corso della propria storia ha conosciuto il maggior numero di rinarrazioni delle origini: ben sette (comprendendo anche la collana Earth One), quattro delle quali solamente negli ultimi anni. Il principio alla base di pressoché tutte queste reinvenzioni sembra sempre lo stesso: riprendere gli elementi più riconoscibili del passato del personaggio e rilanciarli in una versione moderna e attualizzata, che ne costituisca le nuove fondamenta. Eppure, un così gran numero di reinvenzioni, di fondamenta dapprima poste e poi velocemente sostituite, sembra rivelare soprattutto una grande mancanza di certezze. E tutto ciò benché a cimentarsi nel compito siano stati spesso scrittori importanti, intelligenti e appassionati dell’universo supermaniano; quale migliore dimostrazione oggettiva dell’enorme difficoltà che una simile sfida creativa impone? C’è un’insicurezza generale nel tipo di approccio da riservare a un personaggio così importante, ma anche così arricchito, nel corso della sua lunghissima storia editoriale, da tanti significati (talmente numerosi, viene da dire, da non averne più nessuno).

Si potrà obiettare che certe consuetudini delle storie supermaniane sono, appunto, convenzioni: dati di fatto che vanno accettati senza che ci si interroghi sopra troppo a lungo. Questa giustificazione è però estremamente lacunosa, e sembra più una comoda scappatoia che una reale soluzione del problema. In primo luogo, le convenzioni presenti nelle storie di Superman sono in numero esorbitante, e abbracciano elementi troppo importanti del personaggio perché ci si possa permettere di accettarle a scatola chiusa. Soprattutto, però, è chiaro che ad accettare certe “norme” narrative sono soprattutto gli appassionati di vecchia data. Tuttavia, nessun personaggio può veramente sopravvivere senza riuscire a conquistare - e quindi a convincere - generazioni moderne di lettori e spettatori. E per questo tipo di pubblico, certi elementi, non importa quanto ricorrenti, non possono essere dati per scontato. Gli si deve trovare un nuovo senso. Vanno giustificati, o modificati, o eliminati.

Peraltro, che ci sia un’insicurezza generale nel modo in cui Superman deve essere delineato si evince anche da altri particolari. Non è un caso, probabilmente, che - più di qualsiasi altro personaggio - Superman sia stato negli ultimi anni protagonista di storie che vedevano messo in dubbio il suo ruolo e il senso della sua missione: a volta con esiti felici, come nella celebre What’s so Funny About Truth, Justice and the American Way? di Joe Kelly; a volte scarsi, come nell’abominevole Grounded di J. Michael Straczynski.

Le continue reinvenzioni fumettistiche, mai pienamente convinte o convincenti, del personaggio, così come certi recuperi onestamente improbabili di elementi pretesi iconici (per esempio il richiamo quasi feticistico a numerose, datatissime peculiarità estetiche dei film di Donner in Secret Origins di Geoff Johns), lungi dal risolvere il problema, lo hanno peggiorato. Oggi la mitologia supermaniana sembra un fazzoletto con ricami elaboratissimi, ma dalla trama così consumata da essere sostanzialmente inutilizzabile. E l’avanzata età editoriale del personaggio ha sicuramente un peso in tutti questi problemi, ma non è sufficiente a spiegarli tutti.

In termini di pubblicazioni, Batman è quasi coetaneo di Superman, ma al confronto è un personaggio praticamente immortale. Se il filone dei fumetti e dei film di supereroi si esaurisse, Batman avrebbe ancora buone probabilità di sopravvivere in qualche forma; e il motivo è semplice da intuire. Batman ha delle motivazioni semplici e efficaci, universali; ha una notevole profondità psicologica, un costume sensato o comunque dotato di una sua giustificazione; è estremamente versatile (potenzialmente, tutte le storie gialle o poliziesche e molti horror possono trasformarsi in storie di Batman); è protagonista di sfide non prive di riferimenti al mondo reale e possiede la migliore galleria di avversari di tutti i tempi; infine, è spesso protagonista di avventure drammatiche o nelle quali la sua etica personale è sottoposta a sfide complesse, e quindi è un personaggio coinvolgente. Nel mondo supermaniano, molti di questi elementi sono assenti o usurati. E la sostanziale fragilità strutturale dell’universo narrativo dell’Uomo d’Acciaio è tradita anche dalla rigidità con cui molti lettori difendono alcune caratteristiche secondarie del personaggio, come se dall’essere semplici elementi accessori avessero finito col costituire l’essenza di Superman. Qualche anno fa, il tentativo dello sceneggiatore David Goyer di eliminare dal classico motto supermaniano il passaggio dedicato all’”American Way” è stato accolto dagli appassionati con un’insofferenza degna di migliore causa; e tutto questo benché quel particolare passaggio non fosse nemmeno presente nella versione originale del personaggio (venne infatti introdotto durante la Guerra Fredda) e, soprattutto, costituisse un riferimento generico a un patriottismo vuoto e retorico. Episodi analoghi, nell’universo batmaniano, si sono verificati con frequenza infinitamente minore. L’essenza del personaggio di Batman è talmente solida da permettergli di sopravvivere a molte, se non a tutte, le evoluzioni di questo tipo (e non a caso Batman ha conosciuto appena due rinarrazioni delle origini negli ultimi trent’anni, una delle quali - Zero Year di Scott Snyder - ancora da pubblicarsi).

Di conseguenza, la responsabilità di un regista che si appresti a dirigere un film da Superman è infinitamente più pesante di quella di un cineasta che si cimenti con un film tratto dall’Uomo-Ragno, o da Iron Man, perché il materiale di partenza è più fragile, confuso e non altrettanto solido: non potrà quindi essere una semplice trasposizione come avviene usualmente per certi film Marvel, ma una inevitabile e radicale reinvenzione, destinata a un pubblico più smaliziato, universale e meno propenso ad adeguarsi a certe assurde convenzioni fumettistiche rispetto a una platea composta da lettori abituali. In un’operazione di questo tipo sta, probabilmente, anche il successo di Smallville: nonostante la qualità media dello show fosse a dir poco altalenante (a voler essere benevoli), i produttori sono riusciti astutamente a filtrare il materiale d’origine in un teen drama con elementi soprannaturali, più vicino a Buffy che a un fumetto di Siegel e Shuster.

l-uomo-d-acciaio p rMan of Steel sembra nascere proprio da esigenze da questo tipo, almeno a giudicare dalle interviste a Zack Snyder e allo sceneggiatore Davide Goyer. Ovviamente, ciò non assicura automaticamente il successo dell’operazione, così come non lo garantisce il nome dei fratelli Nolan alla produzione e alla sceneggiatura. A oggi, non è chiaro quale ruolo abbia effettivamente avuto Christopher Nolan nella realizzazione del film. Stando alle fonti ufficiali, il regista di Memento avrebbe concepito il plot generale e scelto di affidare il lavoro a Snyder. Pare che in corsa per l’incarico ci fosse una rosa di cinque o sei candidati registi, tra cui Darren Aronofsky e Duncan Jones. Quest’ultimo particolare, mai ufficialmente confermato, non sembra però del tutto plausibile. Per esigenze legate alla tortuosissima storia processuale dei diritti sul personaggio, la Warner Bros era tenuta alla produzione di un film su Superman entro il 2013. È davvero difficile pensare che registi dall’approccio fortemente “autoriale”, e abituati a lavorare secondo i propri tempi, siano stati seriamente presi in considerazione. Razionalmente, non si può non pensare che Snyder sia stato da subito, se non proprio l’unico candidato, quantomeno il favorito. E si capisce perché: è rapido, ha già esperienza con film tratti dai fumetti, è in grado di utilizzare effetti speciali visivamente affascinanti senza spendere troppo ed è un buon “impiegato” della Warner. D’altra parte, proprio la non acclamata personalità artistica di Snyder è stata per molti motivo di perplessità; perplessità che probabilmente non ci sarebbe stata se il regista designato fosse stato, per esempio, Nolan in persona. Dopotutto, Nolan ha una carriera seria e importante anche al di fuori dell’ambito supereroistico, e se non gira un film di Batman realizza Inception. Snyder, quando è lasciato a se stesso, realizza lavori visivamente affascinanti ma vuoti e confusissimi come Sucker Punch. Per molti potenziali spettatori, l’atteggiamento nei confronti di Man of Steel si può riassumere in una frase: se il film è bello, è merito di Nolan; se è brutto, è colpa di Snyder.

Questa intransigenza è però un po’ ingenerosa verso il regista di 300, che pare essersi seriamente impegnato perché la lavorazione del film procedesse al meglio. Una voce di corridoio non confermata, ma piuttosto plausibile, vuole che il ruolo di Christopher Nolan si sia rivelato abbastanza trascurabile, e che sia stato piuttosto Jonathan Nolan, insieme a Snyder e a un collaboratore abituale di quest’ultimo, Kurt Johnstad, a revisionare completamente all’ultimo minuto una prima, disastrosa sceneggiatura a firma David Goyer. E certo il film si presenta non privo di punti di forza: il cast è molto efficace, così come l’estetica, lontanissima da quella, ipersatura, delle abituali produzioni di Snyder.

La posta è alta. Volente o nolente, Snyder si assume la responsabilità di creare non solo un nuovo Superman cinematografico, ma di rinnovare e ristrutturare completamente l’universo supermaniano; compito, questo, che i fumetti non sono più in grado di assolvere, nemmeno quando sono gestiti da autori di consumata esperienza e abilità (il recente rilancio di Action Comics curato da Grant Morrison è molto deludente; soprattutto se confrontato con l’irraggiungibile All-Star Superman).

È difficile pensare che, in caso di flop, la fine di Man of Steel implichi anche la disfatta filmica di Superman. Nell’ambito di un’industria cinematografica e televisiva che è riuscita a riproporre, talvolta felicemente, anche Sherlock Holmes, non si può pensare che non esista - in futuro più o meno lontano - uno spazio per un’altra versione dell’Uomo d’Acciaio. Tuttavia, ciò non toglie che il contesto nel quale il film è stato realizzato, l’impegno profuso e le aspettative nutrite siano tali che Man of Steel rappresenterà un severo banco di prova per decidere se il personaggio di Siegel e Shuster abbia ancora un futuro.

L'Uomo D'Acciaio: recensione

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di Davide "Myskin" Giurlando

l-uomo-d-acciaio p rFinalmente, dopo anni di attesa, il rilancio di Superman è uscito nelle sale. Due premesse di natura autobiografica:
1- Dopo averlo scoperto piuttosto tardi, sono stato per circa 12 anni un grande appassionato di Superman. Dal 1998 al 2011, ho recuperato del personaggio tutto ciò su cui era possibile mettere le mani: albi storici, volumi di narrativa, da Maggin a Pasko, dalla Cenisio alla Play Press. Dico questo non per dimostrare chissà quali quarti di nobiltà, ma semplicemente per premettere che l’universo supermaniano ha rappresentato una parte importante della mia esistenza personale, e avevo molte speranze nella riuscita di questo film (speranze, non aspettative: che ho cercato di mantenere realistiche per tutto il periodo della lavorazione). Inoltre, vorrei con ciò giustificare il fatto che - per una volta venendo meno alle regole di un’analisi oggettiva - questa recensione sarà scritta in prima persona.
2-Non ho mai amato i film di Superman con Christopher Reeve, nemmeno i primi due. Non mi hanno mai detto nulla. Ovviamente riconosco loro una fondamentale importanza storica nell’evoluzione del cinema d’intrattenimento, ma credo che altri film che possono fregiarsi del medesimo attributo - per esempio I predatori dell’arca perduta - siano anche opere infinitamente più valide dei Superman storici. Mi verrebbe da dire, come credo sia oggettivo riconoscere, che si tratta di lavori datati; ma la verità è che personalmente li trovavo insulsi e pretenziosi anche quando ero bambino. Se questi film avessero rappresentato il mio unico approccio all’universo del personaggio, probabilmente non sarei mai diventato un appassionato delle storie di Superman. Credo inoltre - anche se chiaramente non è colpa dei registi e produttori originali - che questi film abbiano gettato per troppo tempo un’ombra lunghissima su tutte le trasposizioni successive, da Smallville al fallito Superman Returns, ingabbiando il personaggio in un’unica, stagnante versione e impedendogli un’autentica evoluzione estetica e narrativa (a differenza - per esempio - di quanto avvenuto con Batman). L’insistenza quasi fanatica con la quale molti fan chiedevano la ripresa del tema musicale di John Williams, nonostante il film di Zack Snyder si presentasse da subito come un rilancio, è un esempio che la dice lunga sulla difficoltà che si incontrano nel far digerire qualsiasi approccio alternativo al mito supermaniano.
Detto ciò, veniamo al film, che dal momento dell’uscita ha suscitato tra i critici americani reazioni a dir poco contrastanti. Sul sito di Rotten Tomatoes la valutazione è più bassa di quasi tutti i film di supereroi di recente realizzazione, e - nonostante RT sia un sito tutt’altro che affidabile - non posso negare che al momento di entrare in sala molto del mio interesse si era raffreddato. Non che mi aspettassi un capolavoro, ma quantomeno speravo in un film decente.

Seguono SPOILER.

L’Uomo d’Acciaio è in pratica una sorta di remake di Superman II, mescolato con il racconto della giovinezza di Clark Kent e della scoperta delle proprie origini da Superman I. Ci sono in pratica tutti i topoi classici delle storie di origini supermaniane, riletti con una sensibilità moderna e qualche variazione sul tema: Smallville, il rapporto con il padre, l’adozione del costume, seguiti da uno scontro con il Generale Zod e gli esuli kryptoniani malvagi. Manca completamente la classica dinamica Clark Kent/Daily Planet, tanto che per certi versi il film potrebbe essere considerato un lungo prequel al Superman classico. Ovviamente assente Lex Luthor, mentre Lois Lane ha un ruolo sorprendentemente importante: praticamente coprotagonista, al pari del Jor-El di Russell Crowe, che si è sudato la paga assai più di Marlon Brando nei film classici.
Su questa struttura tutto sommato prevedibile, il film cerca di costruire un approccio più maturo e serio (o forse serioso) al mondo supermaniano. Superman è qui una sorta di Super X-man, un outsider spaventato dai propri poteri e ossessionato dalla ricerca delle proprie origini. C’è inoltre un tentativo molto insistito di porre al centro del film interrogativi etici “importanti”, sulla natura del libero arbitrio (la Krypton de L’Uomo d’Acciaio è una distopia/utopia ossessionata dall’eugenetica che deve molto al proprio corrispettivo fumettistico ideato da John Byrne negli anni ‘80) e sulla scelta che Clark Kent deve fare tra la rinascita di Krypton e la sopravvivenza della terra. Probabilmente questa visione, nelle intenzioni realistica (o almeno realistica per quanto possa esserlo un film su un uomo volante) è frutto dell’apporto di Christopher Nolan alla produzione e al soggetto, o almeno dell’ovvia volontà da parte dei produttori Warner di replicare il successo della trilogia del Cavaliere Oscuro proponendo una visione analoga anche con Superman.

Giusto per arrivare subito all’interrogativo più importante: L’Uomo d’Acciaio è un brutto film? Personalmente la risposta che mi sento di dare è no. L’Uomo d’Acciaio non è un brutto film. È un film discreto, non inferiore alla media delle pellicole supereroistiche di recente fattura (il filone dei Vendicatori, per intenderci) e per alcune singole sequenze lievemente superiore (anche se molto, molto più grave e meno ricco di scene umoristiche e leggere). Il problema, però, forse sta proprio qui. Visti i nomi coinvolti, l’impegno profuso e l’aspettativa (si può dire che fosse uno dei film di supereroi più atteso in assoluto, fin da prima di Superman Returns) era davvero lecito aspettarsi di più. Invece, i mille temi “profondi” e importanti sollevati nella prima parte scompaiono nella seconda, in un profluvio di battaglie davvero mozzafiato e impressionanti (anche se la CGI fa capolino un paio di volte) ma lunghissime. L’unico argomento portato avanti con molto rigore dall’inizio alla fine è quello della rivelazione di Superman al mondo, ma non si entra mai davvero nel vivo delle sue motivazioni etiche e della sua volontà di fare del bene piuttosto che disinteressarsi dei problemi degli umani (un difetto, quest’ultimo, purtroppo spesso presente anche nei fumetti). Inoltre, non manca quasi nessuno dei classici cliché che colpiscono spesso le produzioni di questo genere: buchi di sceneggiatura, alcuni dialoghi davvero micidiali (un’intera sequenza ambientata a Smallville, incentrata  su uno scambio tra un prete e Clark prima della rivelazione al mondo di quest’ultimo è completamente superflua per non dire irritante), stereotipi (l’uccisione del padre-mentore da parte dell’avversario di turno, che non aggiunge granché all’equilibrio della storia), un piano del cattivo quasi incomprensibile. Nulla di nuovo, intendiamoci, ma dato che è dai tempi del Batman di Tim Burton che questi pesantissimi elementi saltano sempre fuori c’è da chiedersi quando, finalmente, saranno definitivamente aboliti dalle pellicole a sfondo supereroistico.

Ovviamente, come era prevedibile, quasi tutti i difetti del film sono dovuti alla sceneggiatura di David Goyer, che è assai più grossolano come scrittore di quanto non lo sia Zack Snyder come regista. Si tendono a rivolgere molte critiche all’autore di 300, ma gli va dato atto che per L’Uomo d’Acciaio ha completamente stravolto il proprio stile abituale, rinunciando a quasi tutte le sue consuete rozzezze e presentandosi con un’estetica per lui nuova (curata peraltro - pare - in gran parte personalmente), a metà tra l’approccio plumbeo di Nolan e un’impronta semidocumentaristica. Visivamente parlando, L’Uomo d’Acciaio è un film affascinante e riuscito, che pone Snyder qualche spanna al di sopra di pessimi mestieranti come Jonathan Liebesman e Joseph Kosinski, anche se come direttore di attori ha ancora molto da imparare.
Quanto a Goyer, c’è veramente da sperare che il suo, ormai scontato, apporto futuro a film tratti da personaggi della DC Comics si limiti a soggetti o prime bozze di sceneggiatura, consistentemente revisionati da autori più abili. Una limata a cura di un Michael Chabon avrebbe davvero fatto miracoli anche per L’Uomo d’Acciaio. Certo, Goyer era anche dietro la trilogia del Cavaliere Oscuro, generalmente considerata - con molte ragioni - l’apice qualitativo raggiunto nel campo dei film supereroistici (e anche al di fuori del genere) insieme ai primi due Spider-Man di Sam Raimi. Tuttavia, in quel caso, la visione e il rigore di Nolan - uno dei registi di maggior talento in assoluto presenti sulla scena hollywoodiana negli ultimi anni - contribuivano a  far passare in secondo piano molti scivoloni, dando un ritratto davvero potente e significativo, pieno di situazioni coinvolgenti, del cosmo batmaniano. Per L’Uomo d’Acciaio - film senza dubbio inferiore al prototipo batmaniano - certi difetti risaltano di più, anche perché è molto meno presente quella struttura a microepisodi, composta da piccoli film compatti all’interno del film più grande, che aveva notevolmente arricchito i film di Batman: il lavoro di Snyder è concentrato su una storia e solo quella. Non credo sia un caso che alcune delle sequenze più interessanti siano da rintracciarsi tra quelle meno verbose e poco condizionate da complicati effetti speciali: tutta la prima ora in Alaska, con Clark quasi muto, è piena di interesse e di fascino, così come la fuga di Lois Lane dall’astronave dei kryptoniani con l’ausilio dell’onnipresente fantasma di Jor-El (un effetto speciale semplicissimo, ma utilizzato con molta efficacia), e soprattutto l’addio di Jonathan Kent, che con un singolo gesto della mano riesce a esprimere perfettamente il carattere del personaggio (o meglio di questa versione del personaggio, che presenta alcune interessanti variazioni sul papà Kent classico).

Per il resto: Krypton è splendida, frutto davvero di un grande lavoro di scenografia, e gli attori sono tutti in parte, anche se purtroppo non sempre ben diretti. Pur con tutti i suoi difetti, comunque, L’Uomo d’Acciaio è un film dotato di una sua dignità: al di là di una generica curiosità personale, non mi è venuto da chiedermi con rammarico come sarebbe stato questo Superman se lo avessero realizzato Mark Millar e Matthew Vaughan, o Darren Aronofsky, o uno qualsiasi dei nomi che sono stati a lungo in lizza prima che il timone venisse affidato a Snyder. E certamente non ho rimpianto Superman Returns. Mi sono sentito insomma abbastanza soddisfatto, a patto di non aspettarmi - come però sarebbe anche stato lecito, visto che il moderno filone supereroistico ha ormai superato il decennio di vita - una versione supermaniana del Cavaliere Oscuro. È senz’altro un peccato, comunque, che questo tipo di cinema, a eccezione dei soliti Raimi e Nolan, stenti ancora a decollare e diventare “grande”, liberandosi da infantilismi, pretenziosità e aspirazioni acchiappa-soldi a universi cinematografici condivisi (come è stato esplicitamente detto, un successo commerciale de L’Uomo d’Acciaio fungerà da apripista per immancabili seguiti, spin-off e film corali in stile Vendicatori).

Le valutazioni negative mi sono comunque sembrate onestamente esagerate, e sono convinto che molte critiche - non tutte, ma molte senz’altro sì - derivino da una forma di pregiudizio nei confronti dei supereroi in generale, e del personaggio in particolare. Avviarsi a vedere questo film con la convinzione ferrea che Superman si debba attenere a un modello preesistente preciso, che la fedeltà al fumetto vada prima di tutto e che la versione di Christopher Reeve sia quella ideale significa solamente prepararsi a una delusione cocente. Questo film è un reboot totale, che abolisce molte delle convenzioni abituali su Superman e rimanda quasi tutte le situazioni classiche a un sequel. E, pur con tutti i suoi problemi e goffaggini, è un film coerente e dotato di un suo senso. Una delle pietre dello scandalo, ossia il modo in cui Superman sconfigge il cattivo, risulta assai più problematica e incoerente nelle discussioni tra gli appassionati del personaggio che nella resa cinematografica: nel film, la radicale decisione di Superman è chiaramente presentata come una scelta obbligata, non ripetibile e presa a malincuore, nonché in parte ricercata dallo stesso Zod. Senza contare che, nel corso della lunghissima storia editoriale di Superman, situazioni molto simili, se non addirittura più forzate, ci sono state anche in celebri saghe fumettistiche.
Lo scrittore Mark Waid, uno dei più grandi appassionati dell’Uomo d’Acciaio, si è sentito oltraggiato dal film e ha dichiarato che, nelle intenzioni dei suoi creatori originali, Superman - come Braccio di Ferro - non era un personaggio progettato per affrontare complessi dilemmi morali. Pur avendo un grandissimo rispetto per il talento di Waid, personalmente credo che abbia torto, o meglio sia talmente accecato dall’amore per il decano dei supereroi da non rendersi davvero conto di quanto questa mentalità, peraltro molto diffusa tra scrittori e appassionati, abbia impedito una reale evoluzione di Superman nel corso dei decenni. Sia perché i creatori originali dei personaggi non sempre sono anche coloro che ne colgono l’essenza migliore (in quanti, oggi, avrebbero dubbi sul fatto che lo scrittore più importante di Daredevil è Frank Miller e non Stan Lee?), sia perché far affrontare al personaggio sfide narrative, evolverlo, rifiutare le consuetudini preesistenti è il miglior modo, se non l’unico, per garantirne la sopravvivenza e la versatilità. Mantenere certe convenzioni a oltranza significa rendere il personaggio fragile come la carta velina, svuotarlo di significato. Non a caso, il personaggio più forte in assoluto della DC Comics è Batman, il cui territorio narrativo ideale è quello del dubbio; mentre Superman, finora, ha vissuto nella certezza. È vero inoltre che il Superman iniziale era simile a Braccio di Ferro, che peraltro è stato il protagonista di uno dei più grandi fumetti di tutti i tempi; ma Waid trascura di dire che, a parte qualche saltuario omaggio e alcune strisce tenute in vita più per nostalgia che per convinzione, Braccio di Ferro è anche un personaggio la cui vita narrativa è oggi praticamente finita, morto e sepolto com’è nel passato di E. C. Segar e Bud Sagendorf.

Con ciò non intendo sostenere che L’Uomo d’Acciaio debba necessariamente rappresentare il modello principale per tutte le future versioni di Superman; credo anzi che tra meno di un decennio, quando si sarà completata l’immancabile trilogia o tetralogia cinematografica di Superman o della Justice League, potrebbe essere il momento giusto per un ulteriore rilancio, al cinema o nei fumetti; seguito da un altro, e un altro ancora. Credo tuttavia che proprio in questa molteplicità di versioni, di voci, e di revisioni, si dimostri l’autentica facoltà di sopravvivenza del personaggio; non nella ricerca di un Superman definitivo (che probabilmente non esiste), ma nella possibilità che tutte queste versioni, inevitabilmente provvisorie, siano in grado di generare storie interessanti e coerenti e di imprimersi nella memoria di nuove generazioni. Non so dire se Goyer, Nolan e Snyder avessero davvero in mente quest’obiettivo, ma forse L’Uomo d’Acciaio costituisce un fatidico primo passo per potersi disfare delle pastoie che per troppo tempo hanno bloccato Superman e permettergli di tornare a volare.

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