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Valerio Coppola

Valerio Coppola

Teenage Mutant Ninja Turtles 4.0

Suono e movimento: le due proprietà che il fumetto non ha in sé, pur essendo la sua natura narrativa in forma sequenziale, rappresentazione visiva di scene in itinere. Nel saper rendere l’idea di suono e movimento sta buona parte dell’efficacia della comunicazione a fumetti; quella su cui si sono concentrati i più grandi maestri del medium, da Will Eisner in giù, raffinando la tecnica per entrare in complicità con il lettore che deve “sentire” quel suono e quel movimento.
Se c’è una cosa che colpisce, in questo quarto volume di Teenage Mutant Ninja Turtles, è prima di tutto l’abilità tecnica con cui questi due elementi narrativi vengono resi. Pagine e pagine di azione senza dialoghi, in cui il racconto per immagini raggiunge punti di eccellenza, cristallizzando nelle vignette l’attimo giusto per intuire il movimento, muovendo la visuale con sensibilità cinematografica estrema, facendo dell’onomatopea un rumore di fondo continuo che accompagna l’azione, fino a rendere “strani” (e dunque altrettanto narrativi) i momenti di silenzio. Così, in questo flusso d’azione ipercinetica e fonetica, la lettura di queste storie scivola via in un soffio, restituendo ancora, a distanza di vent’anni, una sensazione di freschezza e agilità gradevolissima.

Il merito va certamente riconosciuto al disegnatore di questi episodi, Jim Lawson, perfetto nell’impostare la tavola, senza ripetersi mai e con uno studio attentissimo degli spazi. Ma non si può ricondurre solo al suo lavoro questo riuscitissimo effetto narrativo: risulta evidente la funzione che la sceneggiatura di Kevin Eastman e Peter Laird riveste nel dettare il ritmo, fino ad essere veri e propri registi che guidano passo passo la mano di Lawson. D’altra parte, i due creatori delle Tartarughe scrivono a loro volta con la sensibilità del disegnatore, conoscono l’uso fumettistico del tempo. L’ulteriore riprova si ha nell’ultimo episodio del volume, quando Eastman e Laird riprendono in mano matite e chine in prima persona, in una storia praticamente muta che si mostra all’altezza (se non superiore, almeno per inquadrature) rispetto alla prova data da Lawson.
Se questi aspetti della narrazione sono una costante lungo tutto il volume, non altrettanto può dirsi per l’impatto estetico. Sotto questo profilo, le matite di Lawson cambiano in maniera sensibile a seconda delle chine e dei retini che vi si innestano: quando all’opera sono Eric Talbot e lo stesso Laird, il risultato sono vignette dettagliate, piene e generose; quando invece interviene Keith Aiken, il risultato è nettamente inferiore, con un effetto visivo più spoglio e sgraziato, soprattutto nelle figure umane.

Il volume contiene due archi narrativi, distanziati tra loro nella serie originale. Il primo riporta in scena un redivivo Shredder, portando anche avanti la vecchia “rivalità” interna tra lo scavezzacollo Raffaello e il capo naturale Leonardo. Il secondo, invece, con più momenti riflessivi, si incentra sul personaggio di Casey Jones e prepara il terreno alla saga “Città in guerra”, di cui questo quarto volume contiene solo un prologo.
Buono il formato offerto da 001 Edizioni, anche se, come già avevamo notato, un piccolo apparato redazionale in più non avrebbe guastato.

Miki: I capitoli della furia - parte 2

Con il secondo albo, Absoluteblack conclude “I capitoli della furia”, primo volume di Miki. Rispetto al primo albo, lo scrittore Lorenzo Piscopiello si concentra maggiormente sui personaggi e sulle loro motivazioni, iniziando a delineare un quadro più ampio che promette, in futuro, numerosi sviluppi e sfaccettature.

Come già la prima parte, anche qui la storia in sé si preoccupa di colpire il lettore a livello emotivo, mettendo in scena azioni e reazioni estreme. La componente della riflessione più razionale sul fenomeno della pedofilia è, invece, demandato al racconto giornalistico di fatti reali, nonché alla lettera di una vera vittima di molestie. E il reiterato invito a non ignorare il problema, alla fine, non può lasciare indifferenti.

I disegni dei due episodi mantengono una forte aura da autoproduzione. Il primo è opera dello stesso Piscopiello, con alcune trovate nella costruzione della tavola abbastanza interessanti. Il secondo episodio, meno elaborato, è invece di Eghe.
Nel complesso, una storia ben avviata con ampi margini di crescita e che, in ogni caso, va raccontata.

Ultimate Comics Spider-Man 13

Con il tredicesimo numero, giunge al capolinea la seconda serie italiana dedicata ad Ultimate Spider-Man, in concomitanza con la conclusione della saga intitolata “La morte di Spider-Man”. Senza svelare ai curiosi se questa morte sia reale o metaforica, possiamo comunque affermare che questa è una fine inequivocabile almeno per l’Ultimate Peter Parker.
Già allo stremo delle forze, dopo essersi preso una pallottola al posto di Capitan America, Peter corre nel proprio quartiere per impedire che i suoi peggiori nemici, capitanati da un Goblin fresco assassino del Dottor Octopus, facciano del male ai suoi cari. In quest’ultimo albo va, dunque, in scena la resa dei conti finale, un combattimento senza sosta che per 56 pagine presenta un fuoco di fila, fino all’epilogo, vero climax della saga e dell’intera serie a partire dai suoi esordi nel 2000.

Al di là dei numerosi colpi ad effetto, l’albo in sé non presenta grandi sviluppi di trama, limitandosi a procedere in maniera vivace fino all’annunciato finale col botto. Né si può dire che nel suo complesso la saga riservi contenuti particolarmente interessanti, replicando anzi situazioni in qualche modo già viste. Eppure, Brian Michael Bendis riesce comunque a rendere queste pagine uniche, e lo fa a vari livelli. Nell’immediato, complice l’attesa generata da una sapiente campagna promozionale, che parte già dal titolo della storia, la lettura risulta avvincente e percorsa da una suspense tragica dalla prima all’ultima vignetta.
Ma molto di più, Bendis si rivela ancora una volta un abilissimo architetto, riannodando in quest’ultima storia situazioni e temi visti lungo tutta la serie e condensandoli in quello che, proprio per questo, risulta esserne il degno finale. In questo senso, si può ben dire che il valore de “La morte di Spider-Man” non sia tanto nella storia in sé, come dicevamo, ma si rende evidente una volta inquadrato quest’ultimo capitolo nel contesto più generale dell’intera serie.

Bendis costruisce, insomma, un climax perfetto, facendo vivere al personaggio la sua sublimazione e il trionfo nel momento stesso in cui conosce il proprio epilogo (un po’ con un “effetto martirio”). Non a caso, le ultime parole di Peter in queste pagine ne sono la sintesi perfetta.
Tale effetto, per altro, è rafforzato dal ritorno alle matite di Mark Bagley, disegnatore storico della testata, che regala la sensazione ancora più netta di trovarsi alla conclusione naturale del ciclo, avviato dai due autori nel decennio passato. E, mai come questa volta, ci si rende conto che lo stile del disegnatore si fa parte integrante della storia e della sua percezione. Stile che, per altro, si conferma di ottima qualità, con uno storytelling veloce, un’impostazione della pagina di grande effetto e una potenza grafica che rende perfettamente giustizia all’importanza narrativa del momento.

Insomma, degna conclusione per quello che, assieme alle prime due stagioni di Ultimates, è stato senza dubbio il miglior titolo Ultimate, nonché quello capace di mantenere la media qualitativa più alta con una continuità tutt’altro che abituale. La fine della lettura non manca per altro di lasciare una certa curiosità rispetto agli sviluppi futuri, certi che Bendis saprà mantenere, e magari valorizzare ulteriormente, quella vena Ultimate non sempre rispettata in passato sulle altre testate. Ma questo si avrà modo di giudicarlo a partire da maggio, con i nuovi titoli della cosiddetta terza stagione Ultimate.
Un ultimo accenno va alla gestione dell’evento targata Panini, buona nella tempistica come nella presentazione, inclusa la busta “funebre” che racchiude quest’ultimo albo, allo stesso modo di quanto era avvenuto negli Stati Uniti.

L'Italia del Vittorioso

AVE, storico braccio editoriale dell’Azione Cattolica Italiana e della sua associazione di giovani cattolici (GIAC), ripropone un volume lussuoso e di grande formato dedicato a quello che forse è stato il suo titolo più famoso e influente: Il Vittorioso. Pubblicata a cadenza settimanale a dal 1937 al 1966 (più altri quattro anni di transizione), la rivista si rivolgeva a un pubblico di giovani, proponendo articoli di approfondimento, concorsi e, soprattutto, fumetti. Queste pagine, infatti, contribuirono alla formazione di diverse generazioni di piccoli italiani, ma si affermarono, soprattutto, come un prezioso laboratorio per molti dei nomi che poi sarebbero passati alla storia del fumetto nostrano: tra tutti citiamo ad esempio Gian Luigi Bonelli (creatore di Tex) e, ancor più, Benito Jacovitti, che finì per essere quasi identificato con la testata.
“L’Italia del Vittorioso” intende celebrare il glorioso giornale, e non a caso autore e curatore del volume è lo storico Giorgio Vecchio. È la sua penna a occuparsi della prima parte del tomo, ossia un saggio sulla vicenda de Il Vittorioso, seguito da una selezione di copertine e da otto storie complete scelte in seno all’ampio repertorio della rivista.

Coerentemente all’impostazione data dal titolo, Vecchio non si limita a ripercorrere la mera parabola editoriale della testata, ma intreccia il racconto delle sue fortune e dei suoi contenuti con quello dell’Italia, adottando un metodo tipicamente storiografico (che in alcuni, pur trascurabili, tratti eccede nella digressione). L’avventura de Il Vittorioso diventa, letta in questo modo, un punto di vista pregiato per osservare “da dentro” un’Italia che cambia: partendo da un fascismo già in fase declinante e al peggio della sua aggressività, passando dal periodo del conflitto bellico, fino a un dopoguerra in cui la società italiana, alla ricerca di un riscatto, si fa sempre più complessa. Allo stesso modo, un’ulteriore chiave di lettura permette di seguire l’evolvere del fumetto italiano da una postazione tutt’altro che secondaria. Infine, un focus più particolare va sull’associazionismo cattolico nel suo rapporto prima con lo Stato fascista, e poi con una società postbellica che pone nuove problematiche anche, e soprattutto, all’interno della comunità cristiana ed ecclesiastica, fino ad arrivare alla svolta del Concilio Vaticano II. Il tutto, attraverso un indicatore quanto mai rilevante come poté essere una rivista popolare rivolta ai più giovani.

Non a caso, pur declinata a seconda delle diverse contingenze storiche, è evidente la continua tensione del giornale a voler essere, oltre che evasione, anche strumento pedagogico. Un ruolo guida presente, soprattutto, negli anni fascisti e nel primo dopoguerra, ma che tende a perdere terreno di fronte a una società sempre più complessa, che, parallelamente alla rinascita e al boom economico, conosce l’impennarsi dei consumi, il moltiplicarsi e l'impoverirsi dei punti di riferimento, l’arrivo della televisione, una pluralità sempre maggiore di stimoli e influenze culturali: in un simile contesto, la rivista non riesce più a essere guida per i suoi lettori, dovendo invece cominciare a inseguirli, spesso scendendo a patti con novità o mode in continuo mutamento. Certo, l’impostazione pedagogica e i principi di fondo non vengono mai meno, ma questo progressivo dover inseguire coincide con una crisi di identità che porterà alla definitiva chiusura de Il Vittorioso.

Sul fronte delle storie a fumetti presentate, esse sono evidentemente fotografate o scansionate alla meglio, unica pecca formale che però finisce per restituire un effetto vintage non sgradevole. Si varia non poco per generi e stili: con una selezione che copre il periodo dal 1938 al 1957, si alternano fiabe di animali in uno stile vagamente disneyano, avventure di guerra in terra libica, romanzi storici e western puri, racconti biblici e cronache del viaggio di Magellano, fino alle classiche mascotte di Jacovitti (Pippo) e Lino Landolfi (Procopio). Gli stili non potrebbero essere più disparati, ma su tutti si segnalano il tratto raffinatissimo di Curt Caesar (“Per l’Italia”, che sconta però una retorica patriottica oggi del tutto anacronistica), quello aggraziato di Gianni De Luca (“Il cantico dell’arco”) e quello studiato e meticoloso di Franco Caprioli (“Al di là della Raya”). Alla fine le pagine che colpiscono di meno sono proprio quelle firmate da Jacovitti (forse anche perché già viste).
In generale, ad ogni modo, se quasi tutte le storie soffrono in certa misura il tempo trascorso, le si può comunque apprezzare in pieno alla luce della contestualizzazione fatta da Vecchio nella prima parte. Ma come sempre nel fumetto, è il disegno a contenere, con il suo impatto visivo, la chiave di lettura determinante: ciò che più colpisce e rimane, infatti, sono gusti ed estetiche appartenenti, per così dire, a un’altra Italia: quella del Vittorioso.

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