Menu
Valerio Coppola

Valerio Coppola

Marvel Gold : Capitan Bretagna

Torna in Italia uno di quei prodotti spesso citati, ma visti di rado, ovvero il Capitan Bretagna realizzato nei primi anni ’80 dagli allora quasi sconosciuti Alan Moore e Alan Davis.
Quando i due autori si trovarono a lavorare insieme sulla serie, il personaggio già aveva una sua precisa connotazione, fatta di mondi paralleli, viaggi interdimensionali e continui eventi cataclismatici. Con l’arrivo di Moore ai testi la serie non fu stravolta nella sua essenza, ma continuò a svilupparsi nel solco tracciato negli anni precedenti.

Perché si facesse sentire la mano inconfondibile dell’autore passò comunque un po’ di tempo. Nei primi episodi firmati da Moore per le storie di Capitan Bretagna è evidente una certa difficoltà, dettata forse da una scarsa confidenza con il personaggio e con il suo mondo. Anche la brevità delle storie (sulle 8 pagine) deve aver creato qualche problema allo scrittore, vista la verbosità che nei primi capitoli soffoca le tavole di Davis, per altro a loro volta in evidente sofferenza nei confronti della prosa eccessiva. Le pagine realizzate dal disegnatore appaiono in un primo tempo rigide, stracolme di vignette e di impianto non particolarmente originale. Ma nel momento in cui Moore si mette a suo agio, concedendosi un uso di testi più limitato e funzionale, e lasciando che i disegni di Davis svolgano appieno la loro funzione narrativa, anche il potenziale dei disegni esplode.

Appena lo scrittore si sente padrone del suo prodotto e inizia ad architettare trame più complesse e a inserire le trovate che i fan di Moore ben conoscono, anche l’impulso creativo di Davis ha modo di esprimersi a piena potenza, giungendo a soluzioni di story-telling gustose e a tratti sorprendenti. Dopo i primi, incerti capitoli, dunque, scrittore e disegnatore sembrano iniziare a fidarsi l’uno dell’altro, riuscendo a integrare le proprie arti in un meccanismo ben oliato e di buon impatto.
Da questo punto di vista, uno degli aspetti interessanti delle storie raccolte in questo volume risulta essere una chiara percezione nel corso della lettura della crescita artistica di quelli che di lì a breve erano destinati a diventare due giganti del fumetto.

Altro punto di interesse, in questa prospettiva “storica”, riguarda i contenuti di queste storie: non è affatto difficile intravedere, in forma grezza, alcuni temi che Moore avrebbe poi sviluppato in maniera più sistematica e approfondita nei suoi successivi capolavori (in particolare Watchmen e V for Vendetta), come ad esempio la tensione tra potere politico della comunità e figura del supereroe. Si segnala quindi il prologo di una riflessione che in seguito si sarebbe dispiegata per intero nelle opere che avrebbero messo in crisi e stravolto l’idea classica di supereroe. E dunque, in Capitan Bretagna si può in un certo senso rintracciare la nascita di tale percorso, la sua sede seminale.

Rimanendo all’opera in sé, dopo il primo momento servito agli autori per assestarsi colpisce l’umorismo e la leggerezza che pervadono storie altrimenti apocalittiche. Come lo stesso Moore nota nell’introduzione, i personaggi sembrano dominati da una sorta di incoscienza che li rende in parte ciechi di fronte alle situazioni terribili che si trovano a fronteggiare. In tale direzione, probabilmente, lavora anche la brevità delle storie, che imprime una sorta di ritmo da canzonetta ai vari capitoli, nonché la qualità tutto sommato solare e gioviale dei disegni di Alan Davis.
Ne risulta infine una lettura che, nonostante le difficoltà iniziali, chiuso il volume lascia una sensazione di spensierata soddisfazione.



Valerio Coppola

Gli Eterni

Noi che parliamo di fumetti, spesso tendiamo a usare paroloni, come se questo bastasse, o anche solo servisse, ad attribuire al genere quella dignità che neppure noi, in fondo, crediamo abbia. Se ci credessimo davvero, non avremmo bisogno di importare di soppiatto e in maniera forzosa espressioni importanti e altisonanti.
Ciò non toglie che in alcuni (pochi) casi queste espressioni possano essere quelle giuste. Gli Eterni di Jack Kirby è uno di questi casi. Una cosmogonia, una narrazione mitica della creazione del bene e del male e di tutto ciò che sta in mezzo. Una storia su come nasce il mondo sociale, innanzitutto, ossia su come nascono le definizioni e le classificazioni.

Negli anni ’70 Kirby era ormai “il Re” non solo di nome, e bene o male poteva fare ciò che voleva finché le scarse vendite non lo ostacolavano. Tra tutti i suoi grandi progetti, tutte le sue potenti e immense narrazioni di mondi fantastici o mitici, Gli Eterni furono solo l’ultimo in ordine di tempo.
L’uomo non è la sola creatura intelligente sulla Terra. Da intere ere, nascosti o mescolati agli umani, altre due razze abitano il pianeta: gli Eterni e i Devianti. Gli uni figure perfette dal punto di vista fisico, mentale e morale, gli altri al contrario deformi e dotati di una straordinaria e maligna intelligenza. Sono il bene contro il male, e non c’è rimedio a questa situazione, in quanto tutte e tre le razze sono state create e determinate dai Celestiali, delle creature semi-divine che viaggiano per le galassie plasmando (e sperimentando) varie forme di vita. La conclusione dell’esperimento è un giudizio sul successo o sul fallimento delle specie create, e in caso di fallimento la loro distruzione. Quando sulla Terra i Devianti si ribellano per la seconda volta all’ordine costituito, i Celestiali tornano infine sul pianeta per il giudizio.

Da quanto detto risulta chiara la filosofia conservatrice di Kirby: il bene è determinato alla sua stessa origine, e di fatto consiste nel rispetto delle leggi imposte al momento della creazione. Ogni tentativo di rompere le regole, di mutarle, ogni devianza, è il male. E tutto ciò si riflette in un canone da epica greca, il “bello e valoroso” che fa corrispondere a un’anima giusta un aspetto fisico bello e proporzionato. Allo stesso tempo, Eterni e Devianti sono visti anche come angeli e demoni, due poli tra cui la perfettibile razza umana oscilla: la sua potenzialità migliore e la peggiore.
Tuttavia, nonostante una definizione così netta dei campi del bene e del male, Kirby rende i confini tra questi frastagliati. Incapsula, in questa grande narrazione, un altro tipo di discorso, in cui bene e male si possono confondere, tanto sul piano morale, quanto per la corrispondenza con la bellezza fisica. Ma queste sono eccezioni, dovute a particolari personaggi, e non la regola.

Di fatto, la caratterizzazione dei protagonisti è monodimensionale, poco sfumata. Da ciò i personaggi risultano iconici, qualità che li rende particolarmente adatti ad una narrazione di tipo mitico. In tal senso, l’impronta mitica ed epica non sta solo nei contenuti della storia, ma nel suo stesso linguaggio, anche a livello grafico.
Parlare dei disegni di Kirby è tanto superfluo e scontato da renderlo mero diletto personale. Aprire una pagina a caso di questo volume significa vedere potenza viva non solo nelle figure, ma nell’azione stessa: i muscoli tirati, l’energia che invade ogni vignetta, le chine pervase di movimento; e poi c’è l’immaginario di Kirby, le sue figure fantastiche, i suoi mostri, i suoi macchinari così astratti e complicati; tutto ciò è Kirby, e non stiamo dicendo nulla di nuovo.

Il volume, ottimo nel formato, raccoglie tutti i venti episodi in cui Jack Kirby diede vita a questi personaggi. In più, del materiale extra con considerazioni personali del Re, e una cronologia degli Eterni, che in realtà rende conto di come gli autori successivi, almeno fino a Neil Gaiman, abbiano disperso da subito il potenziale e la direzione di questo mondo narrativo.

L'Età del Bronzo: quando il racconto supera l'intenzione

  • Pubblicato in News
È stato spesso detto che ogni racconto è tanti diversi racconti quanti sono coloro che lo ascoltano o lo leggono, e che l'interpretazione di un testo può variare con ogni singolo interprete, fino a che la storia travalica le intenzioni con cui è stata composta dal suo stesso autore e in un certo senso inizia a vivere di vita propria. Anche nel fumetto questa tesi è stata più volte sostenuta, in maniera più o meno esplicita, da autori come Alan Moore e Neil Gaiman, ma è una cosa che a pensarci si verifica in ogni campo e in una pluralità di modi.
Ciò è riscontrabile con particolare evidenza nel mito: in fondo è parte della sua stessa forza il fatto di essere adattabile, reinterpretabile in maniera continua; e la resistenza millenaria di queste narrazioni, la loro capacità di attraversare secoli e società tanto differenziati mantenendo un ruolo così centrale ne è indice indubitabile. Nonostante il mutare del contesto, venendo rielaborato e reinterpretato di continuo, il mito mantiene sempre quel suo carattere di narrazione della comunità, di racconto particolare che parla dell'universale. E tutto questo, nonostante il processo reinterpretativo, mantenendo sempre riconoscibile l'identità del racconto e i suoi elementi fondamentali.

Questi e altri ragionamenti possono venire alla mente con la lettura dell'intervista a Eric Shanower, che pubblichiamo in questo speciale, sulla sua colossale opera, L'Età del Bronzo. La rilettura che Shanower fa del mito (o meglio dei miti) della Guerra di Troia va, come l'autore stesso non manca di rimarcare, nella direzione di un'indagine sulla natura umana: aspirazioni, scelte, passioni, contraddizioni, ecc. Nel tornare a raccontare una storia vecchia di millenni e già narrata innumerevoli volte, Shanower tesse con altissima maestria questa tela sull'umano, presentandoci un punto di vista e un'ulteriore interpretazione che espandono ancora una volta la valenza e il significato di questo racconto.
Poi però è lo stesso Shanower a cadere nell'equivoco che la sua storia sia unicamente il suo prodotto, e non qualcosa di più grande. Nel sottolineare il punto di vista e le intenzioni che lo hanno guidato nella composizione dell'opera, Shanower sembra quasi dimenticare che, in fondo, la storia che sta raccontando non solo è interpretabile da ogni singolo lettore, ma soprattutto è una storia che ha già una sua precisa identità e struttura, nonostante l'impronta del suo nuovo autore sia tanto efficace e delineata.

Un esempio particolarmente evidente di quanto stiamo dicendo è nella risposta che Shanower dà sulla presenza del Fato nel racconto. Facciamo prima una piccola premessa molto generica: nella cultura greco-antica, il Fato non è (solo) una divinità, quanto piuttosto una legge che regola il cosmo; è la necessità di quanto deve accadere, quella che i greci chiamavano Anànke. Se Shanower, per dare risalto al piano umano, è abile nell'elidere la presenza fisica degli dei, con il Fato l'operazione non può essere così immediata. Evitare di rappresentare le Moire non mette al riparo da una presenza forte dell'elemento "Fato" nello svolgimento della storia. E il motivo per cui non è possibile accantonare il Fato sta nel fatto che da una parte questo non è un personaggio (che si potrebbe non mostrare), e dall'altro l'Anànke è nella struttura stessa della storia, nel suo DNA: non è scindibile. Tentare di raccontare, in qualsiasi forma, il mito greco senza tener conto del Fato è una velleità (e infatti neanche Shanower riesce a farlo). E di sicuro non è sufficiente dire che il "Fato" è qualcosa in cui credono i personaggi ma che in realtà non influisce sulla storia stessa (a parte il fatto che le credenze dei personaggi influiscono per forza sulle loro scelte, ma non è di questo che stiamo parlando).

La predestinazione, nello sviluppo del mito greco, è onnipresente e ineliminabile. E attenzione: non è una questione di credere o non credere nel fato (anche chi scrive è scettico al riguardo). Il punto è proprio che la storia si struttura sulla predestinazione, che ne è lo scheletro. Ma, di nuovo, attenzione: non è che questo sia in contraddizione con le intenzioni di Shanower di raccontare la storia della Guerra di Troia come una serie di conseguenze di scelte umane. Le scelte umane ci sono, e hanno esattamente tutta l'importanza che Shanower vuole conferire loro. Ma è proprio il loro rapporto con la necessità del Fato a renderle tragiche ed epiche.
Partiamo con un esempio fuori dall'opera ma molto chiaro: quando Laio riceve la predizione che il figlio Edipo lo ucciderà e sposerà la madre, fa la scelta precisa di abbandonare il bambino; ma in questo modo, una volta cresciuto, il figlio tornerà e ucciderà inconsapevolmente il padre. Quindi è proprio una scelta sul piano umano a realizzare la previsione del Fato necessario. Nulla costringe Laio a compiere quella scelta, sta tutto al suo arbitrio. Così pure, Achille si trova di fronte un oracolo secondo cui può vivere a lungo e umilmente, o altrimenti morire giovane nella gloria: sua soltanto è la scelta, è lui a mettere in atto il suo Fato. Oppure, Agamennone è perseguitato dalla maledizione della sua stirpe, che sempre versa il sangue dei propri congiunti: ma la scelta di sacrificare Ifigenia per poter partire dall'Aulide alla volta di Troia è tutta sua, egli non è costretto a sottostare alla maledizione fatale della sua genia.

Come sarebbe possibile raccontare il mito greco eliminando alcuni di questi elementi? Come è possibile spiegare perché Laio compia la scelta di abbandonare Edipo, se non alla luce della predizione dell'oracolo? Come si vede, il Fato è inscindibile dalla narrazione, così come lo è la dimensione dell'arbitrio umano. L'intrecciarsi di questi due elementi è nella struttura basilare della storia, ed è alterabile solo in misura minima, per sfumature. E ripetiamo che qui il discorso non è fideistico (credere o non credere nel Fato come spiegazione di quanto accade nel racconto); il modo in cui ne stiamo parlando è quasi tecnico, quale struttura narrativa che deriva dalla struttura mentale e dalle impostazioni concettuali di chi compose quella storia "per la prima volta".
Così, quando Shanower afferma che "in realtà non c'è Fato ne L'Età del Bronzo, indipendentemente da quello che credono i personaggi", prende un granchio. Parafrasandolo, potremmo dire che in realtà c'è Fato ne L'Età del Bronzo, indipendentemente da quello che crede Shanower. Anche se la narrazione è sua (e lo è in tutto e per tutto), e anche se questo capolavoro si distingue in quanto tale proprio per la particolare impronta del suo autore, non si può non considerare che la storia del racconto è comunque quella che da millenni si struttura sulla base di un principio fatale. Proprio questo principio ne è una parte necessaria. E comunque non nega affatto il ruolo centrale e l'importanza dell'arbitrio umano, delle scelte dei protagonisti, che anzi come abbiamo detto ne sono il perfetto contraltare: questi due poli sono tra loro legati a doppio filo, e se anche cronologicamente uno può venire prima dell'altro, logicamente è impossibile stabilire se il Fato determini la scelta umana o viceversa.

Nonostante i propositi e le intenzioni di Shanower, questo meccanismo si replica anche ne L'Età del Bronzo proprio perché non si può sfuggire a come la storia è stata costruita e concepita originariamente (altrimenti si finirebbe per raccontare un'altra storia). Quando Achille sceglie una vita breve e gloriosa, la sua scelta è libera, e lo porta incontro al Fato che gli è stato predetto (qui per altro sta la tragicità e la bellezza della vicenda): da questo meccanismo non si fugge, anche se si mette l'accento sulla scelta del personaggio piuttosto che sull'elemento di predestinazione.
D'altra parte – lo diciamo per inciso – c'è anche una piccola perversione comunicativa a giocare in favore dell'elemento "predestinazione": la maggior parte dei lettori de L'Età del Bronzo di fatto sa già cosa accadrà nella storia, sa già che Achille morirà giovane e coperto di gloria. In questo modo, l'effetto "predestinazione" sta già nel processo di lettura dell'opera. E non per questo la storia diventa scontata e priva di interesse: anzi, è proprio questo ad accentuare il pathos, la suspense e il coinvolgimento del lettore, proprio questo osservare come le libere decisioni individuali dei protagonisti si dirigono verso una risoluzione inevitabile e fatale (in tutti i sensi).

Allora, "l'errore" di Shanower sta nell'assumere che il punto di vista che lui voleva evidenziare nel comporre l'opera sia l'unico presente, quando ad esempio afferma categoricamente che ne L'Età del Bronzo non c'è Fato. L'autore non considera che la storia che lui racconta, in realtà ha (ed è) una storia lunga di secoli, e se li porta tutti dentro. Credere che dalla lettura dell'opera un lettore possa trarre solo quello che l'autore intendeva proporre, è semplicemente un'illusione: sia perché ogni lettore interpreta a modo suo (addirittura è possibile continuare a vedere la mano degli dei in azione, volendo), sia perché quella storia comunque già contiene elementi che sono essenziali e ineludibili. La base e la struttura essenziale della storia, non solo a livello di trama, ci sono sempre. Il nuovo autore può arricchirle di sfumature e punti di vista, approfondire le personalità, ampliare o comprimere gli eventi, introdurre anche nuove sovrastrutture narrative (e tutto questo Shanower lo fa in maniera eccellente), ma se si vuole raccontare proprio quella storia, come quest'opera fa, e non un'altra, è inevitabile recuperare quelle strutture di fondo. Anche in maniera involontaria, o addirittura mirando al contrario. Ecco perché il racconto supera l'intenzione.

Spider-Man Collection 30

Continua l’agile ristampa dello Spider-Man d’annata. In questo numero, anche il primo episodio della “trilogia della droga”, che nel 1971 tanto fece discutere, con il ritorno di Goblin.

In più, parte la riproposizione del classico Marvel Team-Up, con il numero 1 datato 1972, che vede una collaborazione tra l’arrampicamuri e la Torcia Umana contro l'Uomo Sabbia. Tuttavia, nonostante la spiegazione fornita nel sempre buon apparato redazionale, non si capisce bene la logica di inserire quella storia in quel punto, quando è palese che tale collocazione sia incoerente dal punto di vista degli eventi.

In tempo di guerre civili e crisi infinite, fa sicuramente piacere rileggere storie più lievi, anche se tutt’altro che banali. E nello sposare queste due dimensioni, Stan Lee è stato sicuramente un maestro; come maestri sono i disegnatori all’opera, tutti padroni di uno stile classico ma ben distinguibile.

In chiusura d’albo, gradita sorpresa una breve storia inedita del 1951 disegnata da John Romita Sr. per Strange Tales della Atlas (!).
Sottoscrivi questo feed RSS