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Gennaro Costanzo

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Survilo, la ragazza di Leningrado, recensione: una storia di resistenza nella Russia del '900

Cover SURVILO

Se le nostre vite hanno un senso è quello di tramandare il nostro vissuto ai posteri, la nostra storia rappresenta la nostra vera eredità, a maggior ragione se la propria vicenda personale apre una finestra su una triste pagina collettiva dimenticata e nascosta. La storia narrata da Olga Lavrenteva è drammatica e reale e, purtroppo, non eccezionale in quanto comune a decine di migliaia di persone. Di origine russa, Lavrenteva è una delle artiste più interessanti dell'est Europa e la vicenda che ha scelto di illustrare è quella di sua nonna Valja Survilio e della sua resistenza a Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale.

La vita di Valja trascorreva come quella di tutte le altre bambine dell'epoca, insieme ai genitori e alla sorella, finché un giorno non accadde la “disgrazia”, così come denominata dalla stessa protagonista. È il novembre del 1937 quando Vikentij Survilo, padre della ragazza e caposquadra in un cantiere navale di Leningrado, viene arrestato sul lavoro con l'accusa di essere una spia e un sabotatore. Un'accusa che si rivelerà, solo decenni dopo, come del tutto infondata. L'uomo sparisce nel nulla e da quel momento la vita della famiglia di Valja, marchiata come “nemica del popolo”, diventa un inferno sempre maggiore.

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Con sua madre e sua sorella sarà costretta a fuggire dalla sua città, a cercare di ricostruire una vita, andare avanti nonostante tutto fra la fame e la miseria sempre sotto il marchio di un'infamia mai commessa. Nonostante tutto, Valja riesce a studiare e a ottenere un posto come assistente infermiere in un ospedale carcerario vicino Leningrado. Ma nel frattempo, la Russia entra in guerra costretta a scacciare l'invasore tedesco. Saranno anni per Valja caratterizzati da una resistenza durissima, l’ospedale diventa quasi una prigione da cui è impossibile uscire, in cui i morti si accatastano l'uno sull'altro, le bombe cadono costantemente dal cielo e il cibo è composto più da aria e acqua che da altro. Poi, la fine della guerra, la certezza che il peggio è ormai le spalle, ma che c'è ancora da lottare per andare avanti.

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Survilo, la ragazza di Leningrado è un'opera potente e matura. Non c'è solo da parte dall'autrice la voglia di raccontare, insieme a un lungo lavoro di ricerca e documentazione, la triste vicenda vissuta dalla nonna, costellata di drammi e lutti, ma la storia sepolta di un'intera nazione, di tante donne e uomini che hanno subito ingiustizie, vessazioni, che hanno patito la fame e gli orrori della guerra. Una vita che gli ha tolto la gioventù e i cui segni resteranno indelebili per il resto dei suoi giorni. L'opera ha la potenza di un romanzo popolare, caratterizzata da una narrativa semplice e coinvolgente, precisa nello scandire gli eventi e che non lesina durezze ma che non indugia in esse. Uno stile, dunque, diretto, che non cede né a sentimentalismi né al vittimismo, così come non eccede nel dramma risultando equilibrato per tutto il tempo.

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Un nero asfissiante compone le tavole del graphic novel, quasi come se volesse avvolgere la protagonista fino a farla scomparire. Il bianco, così, sembra tagliare quest'oscurità, scandendo le vignette cupe e angoscianti. Il segno di Lavrenteva è ruvido, duro, così come i volti scavati dei suoi protagonisti. Le tavole sono evocative, bastano pochi tratti all'autrice per delineare quel mondo che oggi sembra così distante, ma che gli orrori della guerra e dei regimi rendono ancor attuali. Le pagine, dunque, contengono elementi spesso sfumati, ma l'attenzione è sempre rivolta ai volti, ai corpi, a volte anche agli sfondi, quando tutto ciò non viene annerito e inglobato dall'oscurità. La costruzione delle tavole è sempre ricca, a volte lineare altre irregolare, mai ingabbiata in uno schema preciso.

Coconino Press porta in Italia Survilo, la ragazza di Leningrado di Olga Lavrenteva in un volume massiccio e ottimamente curato. È raro che un fumetto russo arrivi in Italia e, considerando il periodo storico e l'oggetto stesso del racconto, rappresenta una lettura caldamente consigliata.

Come rubare un Magnus, recensione: il testamento artistico di Davide Toffolo

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Lo scorso 25 aprile a Napoli, durante la premiazione del Palmarès Ufficiale del Comicon, Davide Toffolo - magister della manifestazione - ha stupito il pubblico annunciando il suo ritiro dal mondo del fumetto. Musicista, fondatore del gruppo punk Tre allegri ragazzi morti, Toffolo è attivo come fumettista dai primi anni '90, ma già in precedenza aveva mostrato le sue enormi qualità quando nel 1979 vince un concorso per diventare il nuovo disegnatore di Alan Ford, nonostante poi non venga preso per la sua minore età (soli 13 anni). È significativo, dunque, che la sua carriera si chiuda idealmente con un'opera dedicata al suo maestro artistico, ovvero Roberto Raviola in arte Magnus. Un'opera che Toffolo ha tentato a più riprese di portare a termine dopo il suo avvio nel 2008 sulla rivista Animals di Coniglio Editore e finita solo grazie a Oblomov Edizioni.

Come rubare un Magnus è un racconto che mescola la finzione narrativa alla biografia reale di Magnus, un fumetto che parla di fumettisti e del Fumetto stesso, un modo per parlare sì di un grande autore del passato (forse il più grande) ma anche di se stesso.
La storia si svolge su due piani temporali: nel primo, ambientato nel presente, troviamo Toffolo andare da un fisioterapista (cieco) per un mal di schiena. Contemporaneamente, l'artista è costretto a far luce su un mistero legato a un originale di Magnus (la copertina numero 9 di Necron) rubato prima di una mostra a lui dedicata curata da una professoressa di storia dell'arte. Gli eventi del presente, dunque, diventano occasione per narrare il passato.

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Nella seconda linea temporale viene raccontata invece la vita di Magnus, partendo dai primi passi nel fumetto popolare con l'incontro con Luciano Secchi, alias Max Bunker, che portò alla nascita di serie quali Kriminal, Satanik, Alan Ford e altre ancora. Ma Magnus era uno spirito inquieto, macinava centinaia di tavole al mese ma voleva andare sempre oltre. Abbracciò, così, totalmente la vita da artista allontanandosi da tutti, il suo bisogno di fare arte divenne un qualcosa di viscerale, un'esigenza che risucchiava la sua intera esistenza. Così, diede vita a nuove serie, nuovi personaggi, come quello che forse è il suo capolavoro: Lo sconosciuto. Poi la malattia, quel tumore che pian piano lo consumò e quell'ultimo lavoro, il Texone per Sergio Bonelli, che disegnò maniacalmente per 7 lunghi anni.

Il racconto diventa per Toffolo l'occasione per raccontare la realtà del fumetto degli anni 60-90 e dei diversi personaggi noti che hanno incrociato la vita di Roberto Raviola. Fra tutti, vale la pena di soffermarsi su Franco Bonvicini, in arte Bonvi, amico intimo di Magnus al quale legherà tristemente il suo destino. Saputo della malattia che stava consumando l'amico, Bonvi organizzerà una raccolta fondi per Magnus, ma morirà in un assurdo incidente la sera in cui avrebbe dovuto partecipare al programma televisivo Roxy Bar per dare il via alla raccolta. Magnus lo raggiungerà solo pochi mesi dopo.
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Come rubare un Magnus è un'opera, dunque, sentita, ricca e raffinata nella sua ideazione e nella sua realizzazione, tanto quanto risulta scorrevole e appassionante. C'è tutto l'amore di Toffolo per il fumetto, per la sua storia e per i grandi autori del passato da cui ha tratto ispirazione, fra cui Magnus e Bonvi su tutti, che ci vengono restituiti in tutta la loro complessità, personaggi vivi e reali. C'è, naturalmente, tanto anche del fumettista stesso che realizza quasi un trattato sul suo grande amore: il fumetto. In quest'opera c'è tutta la poetica di Toffolo, il suo passato, il suo presente e il suo futuro. Sicuramente, il suo testamento artistico, considerando il suo ritiro.

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Per quanto riguarda le tavole, il doppio binario narrativo viene evidenziato visivamente dall'utilizzo di due diverse tonalità fredde/calde: indaco per il presente, ocra per il passato. Il segno è quello classico di Toffolo che costruisce tavole dalla gabbia sempre varia e funzionale, ma capace di essere suggestive e potenti all'occorrenza. Solo quando Toffolo deve disegnare i personaggi di Magnus, utilizzando il suo stile, o quando disegna qualche volto di personaggi noti del fumetto, il suo segno cambia e si adatta con grande naturalezza al resto.

Oblomov Edizioni ripropone ora Come rubare un Magnus in un cofanetto molto elegante che oltre al libro, caratterizzato dalla classica ottima cura editoriale, presenta anche un albetto inedito dal titolo Kaino, un "fumetto perduto" di Magnus realizzato da Toffolo come omaggio ultimo all'autore.

11 luglio 1982, recensione: il miracolo mondiale che risvegliò l'Italia

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Ci sono date che segnalo la storia, che rimangono nella memoria collettiva, anche se non le si è vissute in prima persona. L'11 luglio 1982 è sicuramente una di queste. Quel giorno, l'Italia vinse il suo terzo mondiale di calcio, un momento indelebile anche per chi non c'era, come il sottoscritto o come Paolo Castaldi, autore di un graphic novel che racconta proprio quei momenti, quella vittoria così storica per la nostra nazione.

La nazionale italiana che partecipò a quell'edizione dei campionati del mondo, tenutisi in Spagna, non era certo la squadra favorita, tutt'altro. D'altronde, era dal 1938 che non vincevamo il torneo. Nazionali come l'Argentina, il Brasile e la Germania potevano contare su squadroni stellari, ad esempio. La nazionale selezionata da Enzo Bearzot, dunque, non solo partiva sfavorita, ma non era mai riuscita a convincere del tutto gli italiani riuscendo a qualificarsi a malapena. Ma, soprattutto, furono le scelte dei giocatori fatte dall'allenatore a destare scalpore, su tutte quella di Paolo Rossi a discapito del capocannoniere della Serie A Roberto Pruzzo. Rossi proveniva da due anni di squalifica per lo scandalo Calcioscommesse il cui coinvolgimento fu un chiaro errore giudiziario. Una carriera, la sua, stroncata nel momento migliore.

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Il cammino mondiale partì non nel migliore dei modi, l'Italia giocò male nella fase a gironi pareggiando tre partite su tre e segnando soli due gol. Ciò bastò lo stesso a farla passare alla seconda fase, quella a eliminazione diretta, ma i tifosi chiedevano la testa di Bearzot. Contro ogni pronostico, tuttavia, accade il miracolo calcistico: l'Italia batté di seguito Argentina e Brasile, in due partite diventate leggendarie, ed esplose il talento di Paolo "Pablito" Rossi. La squadra, fra l'incredulità di tutti, arrivò in finale a scontrarsi con la Germania. Giungiamo, dunque, al fatico 3-1 che vedrà il capitano Dino Zoff alzare la coppa sotto il cielo di Madrid con l'urlo di gioia del Presidente Sandro Pertini che assisté al trionfo in tribuna.

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Quell'11 luglio 1982 fu un giorno speciale, capace di riunire una nazione, ma soprattutto, di risvegliarla. Per gli italiani non fu solo la vittoria di un mondiale, ma un vero e proprio riscatto sociale dopo un lungo periodo di sofferenze. Erano anni difficili, fra lotte sociali e politiche, terrorismo e conflitti di ogni genere: il clima nel nostro Paese era teso come non mai. Il popolo aveva bisogno di una svolta, di tornare a respirare, a divertirsi. Quella nazionale somigliava al suo popolo, il suo riscatto - quando la situazione sembrava senza via d'uscita - aveva riacceso gli animi degli italiani. Fu quell'11 luglio 1982 che diede ufficialmente il via agli anni '80, un decennio che, forse per la legge del contrappasso, segnò un momento in cui sembrava quasi che l'apparenza regnasse sulla sostanza.

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Di tutto questo tratta il libro a fumetti scritto e disegnato da Paolo Castaldi, in cui il viaggio in treno di una famiglia da Milano alla Sicilia diventa il racconto di un'intera nazione e di un'intera epoca. Mentre il marito resta in Lombardia per le ultime settimane di lavoro prima delle meritate ferie, la moglie e il figlio partono per il mare proprio la notte della finale. Il lungo viaggio in treno abbraccia la nazione da nord a sud mentre tutti sono coinvolti a seguire l'evento mediatico. Castaldi, in questo modo, scrive una storia che unisce il biografico e il documentaristico, il racconto intimistico e il romanzo popolare, il tutto con grande equilibrio e sensibilità, riuscendo nell'intento di far rivivere un momento storico del nostro Paese. Evocativo ed efficace il suo stile grafico, un tratto sottile che con pochi linee è in grado di imprimere momenti, personaggi, emozioni, grazie all'apporto di una colorazione che mescola pastello ad acquarello. Nelle tavole, dalla costruzione varia e ragionata, si alternano felicemente momenti iconici e frammenti di vita quotidiana.

Per chi c'era e chi non, 11 luglio 1982 è una lettura caldamente consigliata, sentita ed emozionante. Un'ottima proposta Feltrinelli Comics presentata nel loro classico formato brossurato 16x24 cm.

Batman: Il Batmanga di Jiro Kuwata, recensione: la perla pop giapponese nascosta

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Dal 1966 al 1968, per tre stagioni, sulla ABC andò in onda il serial The Batman interpretato da Adam West. La serie, volutamente camp, ovvero stravagante ed esagerata, ottenne un grandissimo successo sia in patria che all'estero nonostante rispecchiasse poco i fumetti dell'eroe che, specie poi negli anni immediatamente successivi, stavano lentamente riacquisendo sfumature più serie e realistiche dopo anni di maggiore ingenuità e leggerezza.
Un ritorno alla maturità segno dei tempi che cambiano oltre che dall'arrivo dell'agguerrita concorrenza Marvel che, con i suoi supereroi con super-problemi, spopolava e dominava le classifiche di vendita.

La serie della ABC, tuttavia, segnò profondamente la cultura popolare dell'epoca e fissò un'immagine precisa di Batman presso il grande pubblico che solo Tim Burton una ventina di anni dopo riuscì, con non poche difficoltà, a scalzare grazie alla sua pellicola con Michael Keaton protagonista.

Dicevamo che il successo dello show di Adam West si diffuse un po' ovunque, arrivando addirittura nella terra del Sol Levante. In Giappone la serie divenne così popolare al punto che nacque l'idea di proporre al pubblico anche i fumetti di Batman, un'operazione fattibile considerando che pochi anni prima già Superman arrivò nelle case dei lettori nipponici. Il progetto venne affidato al mangaka Jiro Kuwata, già autore di diverse opere fra cui l'adattamento a fumetto di Gekkō Kamen (Moon Mask Rider), capostipite dei supereroi giapponese.
Scartata l'idea di tradurre i comics originali americani così come l'optare per uno stile di disegno occidentale, sia per questioni pratiche che per motivi di tempo, Kuwata si orientò per un adattamento puro di storie già realizzate, calando l'eroe in una produzione al 100% giapponese per stile e segno.

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L'autore tuttavia sceglie di non seguire lo stile della serie tv ma di avvicinarsi a quello delle serie a fumetti americane Batman e Detective Comics trasponendo in chiave nipponica alcuni albi già esistenti. Ad esempio, "Death Men", ovvero la prima avventura da lui realizzata, è una trasposizione di Batman #180 "Death Knocks Three Times!" di Robert Kanigher e Sheldon Moldoff del 1966, ovvero lo stesso anno in cui parte il manga.
L'intera serie è una raccolta di trasposizioni di albi americani e di seguito potete vedere alcune differenze fra la storia originale e quella realizzata da Kuwata.

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La serie, pubblicata su Shonen King e Shonen Gaho dal 1966 al 1967 dura solo un anno e presenta 18 avventure complessive, ognuna della quali suddivisa in tre o quattro capitoli per un totale di 60/80 pagine circa cad. La grossa singolarità è che Kuwata sceglie di non servirsi della classica galleria dei nemici di Batman, ma nel selezionare storie da adattare, opta per avventure con villain non noti e, tendenzialmente, apparsi in quell'unica occasione. Una scelta singolare dovuta probabilmente alla volontà di avere una maggior libertà creativa per modellare storie e personaggi alla sua sensibilità e a quella giapponese.

Approcciarsi a queste storie, così lontane nel tempo e così differenti da quelle classiche di Batman, potrebbe scoraggiare il lettore nell'acquisto o anche solo nell'interessarsene, temendo un prodotto marginale, strambo e indirizzato solo ai cultori.
Ma così non è: considerando che parliamo di un fumetto di circa 60 anni fa, e che quindi presenta classiche ingenuità dell'epoca, la lettura è sorprendentemente appagante e divertente e risulta molto più fresca e attuale delle avventure che venivano presentate contemporaneamente in America. Le storie scorrono con grande fluidità, risultando avvincenti e ottimamente scritte. Il diverso background culturale dell'autore dona un’atmosfera strana e inedita per il personaggio, dando loro un fascino inedito.
Certo, Batman e Robin risultano qui personaggi bidimensionali, riconoscibili giusto per i loro costumi e per i loro "gadget", ma il reale motivo di interesse sta proprio nella narrazione e nei nemici che, in mano a Kuwata, amplificano la loro follia e personalità risultando sempre caratteristici.

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Il segno di Kuwata risulta classico ma al tempo stesso molto lineare e pulito, capace di resistere allo scorrere dei decenni ed essere godibile ancora oggi. La matrice nipponica del suo stile è palese, ma si denota la volontà di agganciarsi in qualche modo alla tradizione americana non solo limitando al massimo ogni tipo di stilizzazione o deformazione tipica del fumetto giapponese, ma anche in scelte compositive e di regia delle tavole che hanno una costruzione varia ed efficace, mostrando sempre grande dinamismo. L'artista tende al realismo, seppur semplificandolo, ma non disdegna eccessi stilistici quando entrano in scena nemici pittoreschi o veri e propri mostri. Vista l'alta qualità del suo lavoro, possiamo tranquillamente definire Kuwata un autore di prim'ordine, meritevole di essere riscoperto e di stare accanto a colleghi ben più celebri in occidente.

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Panini Comics propone, per la prima volta in maniera integrale in Italia, l'intera saga del Bat-Manga di Jiro Kuwata in tre volumi da libreria (con tanto di cofanetto). Una riproposta per questo materiale che nasce sulla spinta di un autore come Chip Kidd che l'ha riportato in auge circa una quindicina di anni fa, e a seguito della ristampa completa fatta dalla DC Comics circa 6 anni fa.
Purtroppo, si è scelto di utilizzare le anonime grafiche di copertina realizzate dalla casa editrice americana, che sminuiscono il valore pop dell'opera: avremmo preferito di gran lunga le cover originali realizzate da Kuwata, sicuramente di maggior impatto. Ad ogni modo, la cura editoriale resta impeccabile e la qualità dell'edizione è decisamente ottima. Interessanti, inoltre, i pochi (purtroppo) editoriali presenti: non sarebbe stato male avere ulteriori approfondimenti.
Lettura caldamente consigliata.

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