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Leonardo Cantone

Leonardo Cantone

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Non solo nostalgia, la recensione di Paper Girls 2

Brian K. Vaughan, su determinati elementi, è una garanzia di sicurezza per il lettore: nelle opere dello sceneggiatore statunitense l’incontro con elementi familiari, estrapolati dal proprio contesto naturale e adattati alla storia di matrice fantascientifica, è una certezza.
Y – l’ultimo uomo, come Ex Machina e ancora di più Saga, pescando a piene mani nell’immaginario fantascientifico, filmico e fumettistico, operavano sulla ri-contestualizzazione degli elementi quotidiani in situazioni “limite”, che sia un olocausto genetico, una distopia o un pianeta lontano. Paper Girls non è da meno.

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Con il primo ciclo di storie, Vaughan aveva creato un mondo estremamente familiare per l’attuale generazione di trent’enni: lo spirito degli anni ‘80 rivive prepotentemente e si ancora all’universo filmico del periodo – a pellicole come I Goonies o Scuola di Mostri lo sceneggiatore deve tanto – creando un pungete affresco-omaggio a un decennio storico che, attualmente, vede le proprie icone rivivere di nuova e ri-mediata gloria.
Quella che sembra una versione al femminile di Stand by Me si tramuta presto in grande fantascienza – viaggi nel tempo, strumenti e armi ipertecnologiche – fondendola con un immaginario fantasy – i cavalieri a cavallo di quelli che sembrano draghi – in un meltin pot immaginativo che conquista il lettore, alimentando la propria curiosità attraverso ben dosati cliffhanger.
Ed è proprio con un cliffhanger di grande impatto che Vaughan aveva chiuso questo primo ciclo di avventure delle quattro “paper gilrs” –  le dodicenni protagoniste che consegnano i giornali sulle loro biciclette – che, dal 1988, si sono ritrovate nel 2016, in piena notte, nel bel mezzo di una strada, davanti alla versione adulta di una di loro.

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Grazie al lavoro di presentazione tematico e dei personaggi, il lavoro di Vaughan può concentrarsi maggiormente, e con grande intelligenza, sul nucleo concettuale principale e più profondo: la crescita individuale, la propria formazione emotiva e sociale, porta ad accantonare parte del proprio vissuto che, riemergendo, immerge nella nostalgia del tempo passato.
L’incontro della Erin dodicenne con la Erin adulta, centrale in questo secondo ciclo di storie, consente all’autore di creare un divertente, nostalgico, e dal pungente carattere empatico, scontro generazionale, che chiunque, almeno una volta nella vita, ha sognato di sperimentare: poter parlare con il se stesso del passato per metterlo in guardia, o semplicemente per “rivivere” un tempo più innocente o poter sbirciare la vita del se stesso del futuro per avere conferme o dare, forse, un indirizzo diverso alla propria esistenza. Lo scontro è dunque, identitario – la nostra identità cambia e si modula in base all’età – e coinvolge non solo Erin, ma anche le compagne.
Questo fondamentale snodo tematico del fumetto fa da sfondo a un racconto che vira, rispetto al volume precedente, maggiormente verso l’asse fantascientifico, ancora una volta estremamente citazionistico – Godzilla e Ritorno al Futuro su tutti – e accresce il tono drammatico dei vissuti personali delle piccole protagoniste: le ragazze devono fare i conti con i diversi drammi, personali e più universali, che la conoscenza del futuro porta con se.

Ai disegni, ancora una volta Cliff Chiang, artista perfetto per illustrare il racconto messo in piedi da Vaughan. Complice i colori di Matt Wilson – che sceglie campiture molto sature e molto piatte – il disegno si carica di straordinarie capacità narrative espressioniste, dall’approccio sintetico, e viene imbrigliato in una griglia rigida, capace per questo,di dare una coinvolgente cadenza ritmica alla narrazione. L’atmosfera di apparentemente mero revival degli anni ‘80 è data proprio dal disegno e dal colore che concorrono al coinvolgimento del lettore: straordinarie e spericolate splash-page si alternano a primi piani intimisti, vere e proprie carrellate cinematografiche fanno da contrappunto a momenti di quiete, più familiari. Tale approccio grafico non potrebbe essere altrimenti: un disegno troppo ricco, dettagliato o plastico, avrebbe distratto il lettore, dirottandolo verso un grafismo incapace di dare il giusto peso alla narrazione.

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Questo secondo volume conferma lo straordinario lavoro di Vaughan e Chiang senza essere, per questo, prevedibile. Il racconto, portando avanti e indagando le diverse trame e sotto-trame create nel primo tomo, si dirama verso altre tensioni narrative e ulteriori contesti tematici, senza disdegnare una buona dose di action e fantascienza.
Tra i numerosi revival delle atmosfere o delle icone degli anni ‘80, il lavoro di Vaughan e Chiang riesce dove molti invece falliscono: piuttosto che scegliere la semplice strada nostalgica e citazionista, questo fumetto della Image Comics utilizza la “nostalgia” non come semplice aggancio emozionale, ma come ancora di sicurezza, come bussola per orientare il lettore nelle avventure delle “paper girls” e nel proprio, personale, vissuto.

Harley Quinn e la gang delle Harley, la recensione

L’universo fumettistico contemporaneo – indubbiamente con la complicità di quello cinematografico – da qualche anno è alla rincorsa di un obiettivo, la cui portata narrativa è ancora da decifrare: la “riabilitazione” dei cattivi.
Il mondo dei comics non è assolutamente estraneo al cattivo che si ravvede, che compie una buona azione, o che per un periodo “riga dritto”, ma l’operazione in atto in questi anni è diversa. Il “cattivo” da sempre è stato un personaggio affascinante, spesso più dello stesso eroe, capace di sfumature psicologiche e declinazioni ambigue che al protagonista non sono e non possono essere narrativamente concesse, e per questo più seducente e abile nell’ancorarsi all’immaginario del fruitore. In un contesto sociale di rinegoziazione di valori e di bombardamento mediatico su “cattivi” reali che vandalizzano il mondo e chi lo abita, il villian di carta o al cinema è costretto a cambiare identità, non a stravolgerla, ma a mutarla: ed è il caso di Harley Quinn. La “nuova” Harley, declinata nel mondo di celluloide, è diventata icona per le adolescenti, le “cattive ragazze” ancora alla ricerca di una propria identità. Dopotutto, il mondo ha bisogno di “cattivi” con cui identificarsi, senza sentirsi colpevole nel farlo.

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Creata da Bruce Timm e Paul Dini, la dottoressa Harleen Frances Quinzel, poi Harley Quinn e compagna di vita e scorribande del Joker, è un personaggio che dalla serie animata che ne ha decretato la comparsa nell’universo DC ha saputo conquistarsi uno spazio di grande rilievo nel cuore di tutti i lettori delle testate di Batman.
Un cattivo che si è stratificato in maniera sempre più complessa nel corso di più di vent’anni dalla sua comparsa: divertente, ironica, violenta psicopatica, succube, martire ma anche crudele e carnefice, sfaccettature ambigue di una figura che, necessariamente, data la sua identità narrativa, deve essere tale. Ed è proprio tale ambiguità che ha permesso a Jimmy Palmiotti e a Frank Tieri di costruire la serie a fumetti dal grande successo dedicata al personaggio: Harely Quinn non è più un “cattivo” così com’è nata, non supera più un certo limite che, convenzionalmente, la lascerebbe identificare come una nemesi seriamente pericolosa. La sua cattiveria è stata mitigata in favore di un divertente gioco grottesco, a tratti surreale che, con un personaggio come “l’ex del Joker”, permette agli sceneggiatori di mettere in piedi un testo dalla grande ironia, capace di giocare con il concetto di supereroe, nemesi e, sopratutto, di antieroe. Operazione simile, a quella fatta da Daniel Way con la sua straordinaria run dedicata a Deadpool. La miniserie Harley Quinn e la gang delle Harley ovviamente non fa eccezione.

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Protagonisti del volume sono i membri della “gang” conosciuti sulla testata principale di Harley che permette al duo Palmiotti-Tieri di intraprendere un racconto meno battuto per una serie supereroistica di questo tipo: il noir. Harley Quinn, dunque, non è la protagonista, ma il motore dell’azione, il suo personaggio agisce ma lo fa in secondo piano, parallelamente ai membri della sua banda. Il lettore è abituato a vedere la pazza “arlecchina” in situazioni difficili, assurde, da commedia nera e, in questa mini, Harley è stata rapita. Compito della sua “gang” è di salvarla.
Palmiotti e Tieri, dunque, costruiscono la storia come un vero e proprio giallo, in cui i pezzi lentamente prendono il giusto posto nella ricostruzione della vicenda e conducono il lettore verso il climax risolutivo attraverso dosati colpi di scena e alleggerendo la narrazione con surreali e comici intermezzi che ricordano costantemente che questa, non è una storia di supereroi contro supercattivi, ma quella di un antieroe, anzi, antieroina.

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Il paniere di disegnatori che hanno illustrato l’avventura della “gang” di Harley è variegato. A Mauricet il compito di essere la prima matita della miniserie: lo stile si presta al comico e al grottesco della storia ma, forse, a volte cede troppo alla deformazione anatomica inducendo in errore, cosa che non accade invece con le espressioni dei volti dei protagonisti che riescono a restituire tutta l’assurdità della vicenda e le risposte emotive dei personaggi. Ad Inkai Miranda è affidato, invece, il compito di narrare il passato del villian della mini: lo stacco grafico permette al ritmo narrativo nelle battute ultime del racconto di alternarsi e, sopratutto di rallentare e contemporaneamente di alimentare la risoluzione finale. Lo stile è meno “giocoso”, più spigoloso, trsposizione, forse, dei drammatici e conflittuali eventi che racconta. Il penultimo albo vede tra i disegnatori Dawn McTeigue che fonde le due narrazioni precedenti e raccoglie la trama nel momento della sua deriva action, grazie ad uno stile che si presta perfettamente al fumetto supereroistico. Amanda Conner e Frank Cho, invece, ci regalano le divertenti, surreali e giocose cover e rispettive variant.

La miniserie Harley Quinn e la gang delle Harley è l’ideale compendio per chi segue la testata principale dedicata all’arlecchina DC, ma risulta godibile anche per una lettura avulsa dal contesto in cui si inscrive. Il piacere della lettura è riservato, in misura maggiore, al testo scorrevole e accattivante, coadiuvato da interessanti trovate grafiche che concedono molto spazio alla spettacolarità della narrazione.

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Grazie a Convergence e il one-shot di Rinascita, i lettori delle avventure di Superman hanno iniziato a familiarizzare con due eventi dalla grande portata narrativa e legati tra loro: le avventure del kryptoniano eroe che hanno iniziato a leggere con il reebot New 52, cinque anni fa, erano le avventure di un altro Superman e questo Superman ora è morto. Ma di chi sono, dunque, le storie contenute in questo primo albo di Rinascita? Comunque di una vecchia conoscenza per i lettori, il Superman di cui hanno letto dal 1985 fino al 2011 e, precisamente, si tratta dell’Uomo d’acciaio tra l’evento Crisi sulle Terre Infinite e l’inizio di New 52.

Peter Tomasi e Pat Gleason, alla sceneggiatura, introducono questo familiarmente sconosciuto Clark Kent, sposato con Lois Lane e con figlio, che accetta, con non poche reticenze, di ereditare il mantello del Superman deceduto, ufficiando la sua presenza come eroe, dopo gli anni passati ad agire, raramente, nell’ombra. Il racconto vira fortemente sui toni intimisti lasciando l’azione fuori dalla lettura e concentrandosi sulle emozioni e le intenzioni dei protagonisti. L’intera storia ruota attorno al perno della morte: da eroe, Clark Kent, vuole scongiurarla, da essere umano, Lois Lane, vuole rispettarla, ma entrambi sono bisognosi di accettare il cammino che gli si profila davanti. Una sceneggiatura sobria, con l’obiettivo di introdurre il nuovo status quo delle avventure dell’eroe kryptoniano, che si interroga, attraverso i due personaggi, sul valore del sacrifico, non necessariamente come “sacrificio ultimo”, ma come frutto di scelte altruistiche che possono, o meno, condurre a strade a volte inaspettate, a volte necessarie. Le matite di Doug Mahnke restituiscono con grande maestria e tecnica l’approccio quasi distaccato, filosoficamente raziocinante della sceneggiatura, attraverso le granitiche figure che popolano le vignette del racconto.

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Il piccolo Jon è il protagonista e la voce narrante del secondo numero: cosa vuol dire vivere con i superpoteri accanto ad un padre che, dopo anni, ha deciso di intraprendere la vita superoistica? Jon ancora non sa come usare i suoi poteri, cosa vuol dire celarli al mondo e quali possono essere le conseguenze del loro utilizzo senza la supervisione di chi, come lui, ha già affrontato tali questioni. Il conflitto generazione padre-figlio è alle porte e preannuncia una sotto-trama che, se sviluppata nelle prossime uscite, potrebbe dare un'inedita versione di Superman, alle prese con le proprie questioni irrisolte legate alla sua adolescenza. Tomasi e Gleason scelgono solo di introdurre tale questione, rendendo Jon un protagonista con un ruolo, probabilmente, determinante nelle avventure dell’Uomo d’Acciaio. Le matite di Mick Gray assolvono al loro dovere di illustrare il racconto dal punto di vista del piccolo Jon: la figura imponente del padre, per lui punto di riferimento, è scultorea e granitica, anche nel momento del conflitto, mentre un tratto maggiormente cartoonesco si presta per la raffigurazione del giovanissimo ragazzo.

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Se questo numero riparte da 1, non lo fa Action Comics che prosegue con la numerazione pur allacciandosi alla “rinascita” di Superman. La figura di Doomsday è maggiormente presente, dopotutto, ai testi, troviamo il deus ex machina dietro La Morte di Superman (1992), Dan Jurgens.
Meno intimista e più d’azione, il “nuovo” Superman deve prendere una posizione definitiva tra il rimanere nascosto o prendere il posto dell’Uomo d’Acciaio. Durante una rapina ad una banca, consapevoli della morte dell’eroe, i quattro rapinatori non si aspettano la presenza dello stemma della famiglia El e si aspettano ancora meno che ad indossarlo è Lex Luthor, in armatura rosso-blu che pubblicamente si proclama come erede di Superman. La sceneggiatura di Jurgens si concentra sullo scontro identitario tra i due protagonisti, l’uno che dubita dell’altro. Lo scontro fisico è anche sul piano ideologico: chi deve ereditare il “mantello” di Superman? Quali sono le motivazioni dietro Lex Luthor? Risposte destinate a rimanere insolute per l’arrivo di un personaggio ben noto ad entrambi. Il racconto è ricco di colpi di scena e il punto di vista a cui il lettore aderisce e quello della moglie Lois Lane e del figlio Jon che guardano in diretta lo scontro tra Lex e Superman: tante le domande, molti i dubbi, diverse le cose che sorprendono e i testi di Jurgens concedono poco spazio alla risoluzione narrativa in favore di un crescendo misto di ansia e curiosità che rende avido il lettore in attesa di conoscere il prosieguo del racconto.
Per la storia, prepotentemente virata sull’action supereroistico, i protagonisti muscolari sono disegnati con un tratto felicemente poco pulito da Patrick Zircher, che concentra la sua attenzione, e quella dell’eroe kryptioniano, sul “fantasma” Doomsday: l’ultimo, devastante, scontro con l’alieno era costato molto caro a questo Superman.

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Il terzo racconto degli albi della “rinascita” di Superman, vede come protagonista un personaggio che sembra essere agli antipodi rispetto all’Uomo d’Acciaio: Kong Kenan, bulletto adolescente, di Shanghai, scapestrato, irriverente, pronto a mettersi in mostra. Mentre vessa, come d’abitudine, il suo compagno di scuola Luo Lixin, l’arrivo del supercattivo Condor Blu scatena in lui qualcosa di inaspettato: lancia una lattina al criminale che stava tentando di rapire Luo, facendogli perdere la presa e costringendolo alla ritirata. Il gesto eroico non passa inosservato e Kang viene subito intercettato da Laney Lang, giornalista di Primetime Shangai. Ma la giovane reporter non è l’unica ad averlo notato: pronto a farlo diventare un eroe, nell’ombra, agisce il Ministero dell’Autonomia. L’aria che si respira nella sceneggiatura di Gene Luen Yang è quella del dejavù: oltre l’assonanza dei nomi dei protagonisti, le “strizzate d’occhio” al lettore di Superman sono disseminate ovunque, ma quello che leggiamo è una sorta di remake-reboot cinese delle avventure di Superman. La genesi del protagonista non potrebbe essere più differente: orfano alieno Superman, padre assente per Kong, principe kryptoniano il primo, bullo di periferia cinese il secondo, identità segreta per l’Uomo d’Acciaio, vanto per il neo Super-Man (fondamentale la presenza del trattino). Eppure entrambi accomunati dal bisogno inconscio ed irrefrenabile di aiutare il prossimo. Il racconto non riesce, comunque, a convincere del tutto: il voluto “tarocco” made in china risulta essere troppo stucchevole nel voler rimandare ai personaggi originari e il protagonista non ha ancora la complessità per reggere l’intera narrazione. I disegni di Viktor Bogdanovich non aiutano lo svolgimento: forse troppo “canonici”, non osano con sperimentazioni grafiche che avrebbero, forse, accresciuto il valore del “gioco” iconico, a tratti parodico, che la sceneggiatura tenta di conferire al racconto. Dopotutto, siamo all’inizio delle avventure di Super-Man, e bisogna attendere che il terreno si stabilizzi.

Con il difficile compito di non ripartire, ma di raccogliere le fila editoriali di Superman, questo primo albo riesce nell’intento di porsi tra ponte tra gli assidui lettori dell’Uomo d’Acciaio e i prossimi sviluppi narrativi, ma anche come incipit per i nuovi lettori, ricostruendo il passato dell’eroe necessario alla comprensione di ciò che avverrà.

Civil War II #1

Tra il maggio 2006 e il febbraio 2007, i sette numeri che composero la miniserie Civil War, scritta da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven, segnarono una svolta importante per il fumetto Marvel capace di condizionare il futuro, sia editoriale che cinematografico, della Casa delle Idee. Gli eroi più importanti si scontrarono gli uni con gli altri, difendendo un’ideale: la registrazione dei supereroi da parte del governo statunitense creò una frattura, risanata solo in parte, che tutt’ora ha echi in tutto l’universo Marvel. Il fumetto ancora una volta aveva avuto la capacità di intercettare determinate questioni socio-culturali importanti, declinandolo nel genere supereroistico: il dibattito sulla privacy e sulla sicurezza nazionale che, in quegli anni, era estremamente discusso nell’ambito sociale e mediatico statunitense. Intervenendo anche nell’ecosistema narrativo generale, attribuendo a Captain America il ruolo di difensore della “libertà” contro il paese di cui indossa la bandiera.

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Civil War II non poteva essere differente. Brian Michael Bendis, accompagnato dalle matite di David Marquez, inaugura questo nuovo maxi-evento che coinvolge, come nel “canone” Marvel, la quasi totalità delle testate, inserendo al suo interno il “supergruppo” che sta riscuotendo un crescente successo, anche televisivo (forse per lasciare in sordina i mutanti X-Men per questioni di sfruttamento cinematografico): gli Inumani.
I diversi fili della trama che si comporrà oltre della serie principale di Civil War II anche di numerosi tie-in, partono da un elemento comune e determinante l’intero sviluppo: il neo-inumano Ulysses, capace di prevedere il possibile futuro. Grazie aduna sua visione, Avengers e Inumani riescono a salvare il mondo dalla presenza di un Celestiale. Il prologo all’evento non sembra, dunque suggerire scontri, anzi, denota coesione totale tra i supereroi Marvel. L’ottima capacità narrativa, cinematografica, di Bendis si palesa nella lenta costruzione del conflitto, prima caratteriale, poi ideologico ed infine, fisico, partendo da una semplice domanda: è giusto intervenire preventivamente? Domanda, questa, ancora una volta, estremamente attuale che chiama in causa scelte etiche e morali e abbraccia questioni politiche come la presenza statunitense nel conflitto islamico, o, senza oltrepassare l’oceano, il dibattito sulla giustizia “precauzionale”: è giusto punire prima che il crimine venga commesso? È una limitazione alla libertà personale o salvaguardia della libertà globale? E se si incorresse in errore? Domande simili che si era posto Phillip K. Dick già nel 1956 con il suo Rapporto di minoranza, poi film di Stephen Spielberg del 2002. Bendis cattura ciò che per Dick era fantascienza e per noi attualità, per generare il conflitto alla base della seconda guerra civile tra supereroi, ponendo i protagonisti in una spirale di nervosismo che trova valvola di sfogo a seguito di un evento che avrà effetti sui successivi anni editoriali e narrativi della Marvel.

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Lo stato di tensione crescente e febbrile che si respira nella lettura serrata è sostenuta dalla grande narrazione di Marquez che, come se il lettore stesse guardando un film, alterna splash-page complesse e dinamiche a momenti più statici e intimisti: il dramma, prima che universale, è personale, identitario, il conflitto è del singolo, proprie sono le scelte da intraprendere. Il lavoro migliore, ma anche più difficile del disegnatore è proprio nel nucleo centrale narrativo, l’introduzione dell’Inumano agli eroi Marvel: una lunga sequenza in cui i supereroi iniziano il loro scontro sul piano etico e morale, in cui sono gli sguardi, le espressioni a far da padrone nel complicato compito di creare empatia con il lettore. I supereroi diventano più umani, interrogandosi su questioni che abbracciano tutti gli individui, e i sentimenti, le movenze del corpo, la micro-gestualità dei volti sono resi da Marquez con vivida espressività. Questa “umanizzazione” del supereroe è chiaramente determinata dalla sicura scrittura a cui Bendis ci ha abituato: serrata, cinematografica, alterna disquisizioni ideologiche con battute capaci di rallentare e dilatare la tensione senza scioglierla, fino alla fine dell’albo. Il climax finale sciocca il lettore che non può che attendere ansioso il prosieguo dello svolgimento e capire quale dei suoi eroi preferiti sceglierà uno dei due schieramenti: quello del Tony Stark più fatalista o quello di Carol Denvers ossessionata dal voler salvare il mondo a tutti i costi.

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Il maxievento della Nuovissima Marvel inizia il proprio cammino con una grande efficacia narrativa, sia per la solida sceneggiatura che per gli straordinari disegni, ed è capace di immergere il lettore e coinvolgerlo più sul piano morale piuttosto che meramente su quello da Marvel-fan: a fine lettura non potrà che chiedersi: il “processo alle intenzioni” è giusto?

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