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Matteo Marchetti

Matteo Marchetti

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Il futuro senza internet di Brian K. Vaughan e Marcos Martin, la recensione di The Private Eye

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“La privacy non è un’opzione, e la sua perdita non dovrebbe essere il prezzo che accettiamo solo per stare su Internet.” Con queste parole, Gary Kovacs, amministratore delegato dell’AVG Technologies, si esprimeva in merito al rapporto tra internet e privacy, mettendo in luce uno degli effetti collaterali più problematici e discussi del nostro presente 2.0. L’utilizzo quotidiano dei social network, unito ad una dimensione sempre più pocket e innervata dei dispositivi elettronici, permette ad ogni individuo di creare, condividere e commentare costantemente contenuti più o meno privati, aprendo una sorta di finestra sulla propria vita e su quella degli altri. In questo scenario caratterizzato da grandi possibilità di comunicazione, espressione e collaborazione dove tutti sembrano mettersi in gioco su scala globale, lo spauracchio che certe informazioni possano fuoriuscire ed essere condivise o anche solo mal interpretate sulla vetrina pubblica dei social è sempre dietro l’angolo.
Proprio il controverso tema della privacy è l’argomento centrale di The Private Eye, scritto da Brian K. Vaughan e disegnato da Marcos Martin, nato originariamente come webcomic  pubblicato sul portale Panel Syndicate, per poi tradursi in versione cartacea ed essere portato in Italia in un’ottima edizione da Bao Publishing.

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Vaughan e Martin ambientano la loro vicenda in una Los Angeles futuristica, reinventando il tema della catastrofe di dimensioni apocalittiche in grado di porsi come spartiacque tra due epoche dominate da paradigmi sociali e culturali del tutto differenti. I due autori reinterpretano il tema biblico del diluvio universale e quello contemporaneo della grande esplosione atomica, aggiornandoli a un’epoca, la nostra, dove tutto si basa sulla circolazione indiscriminata di informazioni. Ed è così che, un brutto giorno, il Cloud, la nuvola astratta che contiene  tutti i nostri dati compresi quelli sensibili e privati, esplode, dando il via ad una “alluvione” di informazioni personali in grado di distruggere carriere, reputazioni, vite. È il nuovo anno 0, l’inizio di una nuova fase della storia dell’umanità. Un mondo senza internet, dove la fuga devastante di dati sensibili ha ridefinito il rapporto tra pubblico e privato. Nel futuro di Vaughan e Marcos ogni individuo esce di casa con un travestimento per proteggere la propria identità, la tutela della sicurezza non è più affidata alla polizia ma alla stampa, che controlla e manipola l’informazione, mentre i nuovi detective privati sono i paparazzi. Proprio P.I., uno di loro, è il protagonista della storia che, ingaggiato da una donna per una misteriosa quanto singolare indagine, si troverà ben presto in un caso di portata nazionale, infinitamente più grande di lui.

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The Private Eye si potrebbe definire come un noir retro-futuristico dai colori pastello. Nel fumetto sono espliciti tanti canoni sia del genere noir che di quello sci-fi, ma mixati e reinterpretati in maniera originale dai due autori. Abbiamo, infatti, un caso che si fa sempre più complicato, un detective apparentemente disilluso ma determinato a scoprire la verità che, discostandosi dal canone classico del bianco duro e tormentato, si presenta come un mix etnico dalla sessualità non ben definita. Anche i personaggi femminili sono importanti: l’innesco viene proprio dalla richiesta di una tipica femme fatale, donna affascinante e dal passato oscuro, che lascia poi spazio ad un’altra donna, personaggio complesso e carismatico, che affiancherà il protagonista per tutta la vicenda. Nella narrazione si sente l’influenza di maestri del genere come Chandler, ma inseriti in un ambientazione futuristica che strizza l’occhio ad opere come Transmetropolitan di Warren Ellis e Dorohedoro di Q. Hayashida, soprattutto per le maschere  stravaganti dei personaggi e alcune scene particolarmente violente. Il tutto è poi pervaso da un particolare gusto retrò, perfettamente in linea con la rappresentazione di un’epoca che guarda con diffidenza ai dispositivi tecnologici e ha riscoperto il valore della carta stampata e dell’analogico.

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Dal punto di vista visivo, i disegni di Marcos risultano funzionali nel delineare una variegata atmosfera tra hard-boiled e retro-futurismo. Macchine volanti, palazzi, insegne luminose  e grovigli di strade, si intrecciano ad ambienti privati dall’aspetto vintage e liberty, contrapposti a quelli più asettici e minimali dei palazzi delle istituzioni. Le atmosfere cupe e crepuscolari del noir vengono sostituite da colori tenui ma luminosi, rivisitando, ancora una volta, uno dei canoni del genere. Il tratto di Marcos è sottile, elegante e talvolta spigoloso nella caratterizzazione dei volti. Ciò permette di acutizzare le espressioni dei personaggi, renderli tirati, nervosi, comunicando una generale aria di tensione e diffidenza. Il formato orizzontale delle pagine, ottimo per una lettura pensata su dispositivi elettronici come tablet, smartphone e pc, permette a Martin di sbizzarrirsi nelle soluzioni di costruzione della pagina, giocando ad entrare e uscire dalle griglie a seconda delle situazioni. Inoltre, l’orizzontale, si accorda in maniera efficace al taglio fortemente cinematografico del racconto, essendo simile ad una sorta di video 16:9, dando grande fluidità e movimento soprattutto nelle scene d’azione e di inseguimento.
Meritano, inoltre, una menzione speciale i costumi dei personaggi principali e delle tante “comparse” che popolano il volume. Capi futuristici si alternano a vestiti vintage e il tutto è arricchito da maschere che prendono spunto da ogni cosa: si va da comuni animali terrestri a creature aliene, dai supereroi alle tartarughe ninja, da ologrammi facciali all’abbigliamento bondage. Il capo del protagonista è, invece, una sorta di mantello dell’invisibilità con un cappuccio sul cui retro è impressa una faccia sghignazzante, mentre quello dell’antagonista principale è un doppiopetto verdone con collo di pelo e una maschera dall’aspetto di un volto scorticato  In questo tripudio caotico e allucinante di colori e forme, ciò che rimane costante è la stampa, il quarto potere, caratterizzata dal classico impermeabile e dal cappello tipo Trilby, anche questa scelta contribuisce a creare un bel mix estetico tra gusto retrò e futuro distopico.

The Private Eye è un’opera interessante, sostenuta da un intreccio solido e da personaggi carismatici. Il fumetto è capace di mettere in scena un mix originale di generi e contenuti ottimamente amalgamati e reinterpretati dai due autori che riescono, oltre a farci appassionare alla vicenda, a farci riflettere sul tema della privacy e sulla storica contrapposizione tra libertà e sicurezza, così tanto pregnante nel nostro presente alla luce delle nuove possibilità date dai media e dalle nuove tecnologie.

Ritornare a casa non è mai stato così difficile, la recensione di Southern Bastards 3

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“Uomo del sud è meglio che tu non perda la testa”, così Neil Young nel 1970 faceva iniziare la sua Southern Man, apertamente critica nei confronti della mentalità razzista e violenta diffusa in alcuni stati del sud degli Stati Uniti. Quel “non perdere la testa” , che risuona come un monito a non superare un limite pericoloso, sembra perfetto per introdurre un’opera che fa della sua aura marcatamente sudista, dei suoi personaggi borderline e delle inaspettate esplosioni di violenza, i sui marchi di fabbrica. Il terzo volume di Southern Bastards, serie Image Comics scritta da Jason Aaron e disegnata da Jason Latour, pubblicata in Italia da Panini Comics, ci riporta, infatti, a Craw County in un Alabama disperata e brutale, dove sembra che l’umanità abbia lasciato spazio a un folle vortice di pulsioni primitive e ferali.

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A Craw County è la settimana dell’Homecoming, la festa “del ritorno a casa”, dove gli ex allievi del Liceo tornano per ricordare e celebrare la loro vecchia scuola. La contea si prepara dunque ad accogliere i suoi vecchi studenti in uno spirito di grande fibrillazione e, a tutto questo, si aggiunge la partita di football più importante dell’anno per i Runnin’ Rebs del deplorevole coach Euless Boss: il derby contro Wetumpka. In questo clima di grande tensione (emotiva e non solo), resa ancora più nervosa e tragica dal suicidio di Big, lo storico stratega del Coach, si incrociano i vissuti di un cosmo di personaggi alle prese con una terra che non perde occasione per mostrare la sua ferale crudeltà.
 
C’è lo sceriffo Hardy, ex promessa del football, per cui l’Homecoming è soltanto una tortura psicologica che si ripete, un’occasione per il ripresentarsi di fantasmi passati e di immagini di un presente che sarebbe potuto essere e invece non è. Poi c’è Esaw, criminale violento, dissoluto e schizoide al servizio del Coach Boss, alle prese con il tentativo maldestro di sostituire Big e gestire i propri traffici illegali. Poi abbiamo Boon, cacciatore solitario e intransigente, mosso da una morale cristiana di stampo fondamentalista ed intenzionato a “liberare” la contea dal “serpente del male”, ovvero il Coach Boss. C’è Cocciavuota, braccio armato del Coach insieme ad Esaw, in preda ai sensi di colpa per aver contribuito al pestaggio di un ragazzino. Infine c’è Roberta, figlia di Earl Tubb, che vuole fare chiarezza sulla morte del padre brutalmente ucciso proprio dal Coach Boss alla fine del primo volume.

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Il "ritorno a casa" è quindi un evento reale e metaforico che sconvolge un equilibrio e obbliga ogni personaggio a ripiegare su se stesso per tornare alle proprie radici e scegliere che strada intraprendere per il futuro. C’è chi lo fa interiormente come lo sceriffo Hardy, chi fisicamente come Roberta, chi è deciso ad intervenire per cambiare le cose come Boon o chi cerca di venire a patti con la sua coscienza per poi tentare di salvare una realtà ormai in frantumi come Cocciavuota. Ognuno, comunque, è costretto a fare i conti con la propria esistenza e con il luogo in cui essa affonda le proprie radici. Quell’equilibrio basato sulla forza e la violenza, già messo in crisi con il primo ritorno a casa di Earl Tubb nel primo volume, crolla definitivamente con il conseguente suicidio di Big e nelle contea iniziano ad aprirsi crepe profonde che lasciano affiorare un abisso magmatico di istinti violenti e pulsioni primitive. I personaggi di Southern Bastards sono dei falliti, socialmente analfabeti, contraddittori, crepuscolari, incapaci di dominare una realtà che sembra sempre più caotica e inadatta a qualsiasi tentativo di redenzione. Le intenzioni e la morale si appiattiscono nei modi, mentre il sangue scorre inevitabile senza che si riesca mai a tracciare un vero confine tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi. Quello che ci viene sbattuto in faccia è un inferno in terra, uno spaccato di America selvaggia, popolata da persone che assomigliano più a cani rabbiosi e famelici (immagine ricorrente in ogni volume) che a individui dotati di ragione. I dialoghi sono costantemente incisivi, ficcanti e violenti con un lessico hard-boiled pienamente adatto al contesto e alle vicende, che ricordano da vicino serie tv come True Detective e Sons of Anarchy o alcune opere di Joe R. Lansdale.

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Dal punto di vista visivo Latour mette in mostra uno stile grezzo e nervoso di forte impatto emotivo, pienamente adatto ad esprimere la violenza e le pulsioni bestiali dei personaggi. Il tutto è rafforzato dall’uso sapiente dei colori, capaci di imprimere un’atmosfera plumbea e disperata nelle parti narrative più riflessive con tonalità di blu, grigi e marroni per poi esplodere in incendiarie e cruente sequenze dove domina il rosso acceso.
Southern Bastards continua, anche in questo terzo volume, a mantenere un livello altissimo sia dal punto di vista narrativo che visivo. Una serie capace di unire intrattenimento, riflessione e grande coinvolgimento emotivo, il tutto condito da una violenza verbale e visiva che restituisce al lettore l’anima più viscerale e abissale di una nazione.

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