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Blackhand Ironhead, recensione: L’eredità dei supereroi alle nuove generazioni

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Il rapporto da una generazione all’altra di supereroi è un tema caldo da un po’ di tempo a questa parte. Non che prima non lo fosse ma ultimamente si è smarcato dalle due major Marvel e DC Comics per approdare su altri lidi, divenendo non un escamotage narrativo ma il vero e proprio fulcro di diverse opere. Potremmo citare il famosissimo Invincible di Robert Kirkman, da poco concluso per la Image Comics, oppure Black Hammer di Jeff Lemire per la Dark Horse. La lista si allungherebbe se andassimo ancora più indietro nel tempo, quindi, questi due illustri esempi, bastano a far capire la portata del concept.

BlackHand IronHead si inserisce in questo filone, indagando l’eredità che i supereroi si tramandano, con tutto il carico di responsabilità, aspettative, emozioni, problemi e sentimenti. Scritta e disegnata da David Lopez (Capitan Marvel, New Mutants, Catwoman), negli USA è uscita per Panel Syndacate, piattaforma dove è possibile scaricare i capitoli dei fumetti facendo una donazione a piacere. In Italia l'opera è edita da Panini Comics.

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La storia ruota intorno a due ragazzine, figlie di superumani. Una è la figlia del supereroe che ha eliminato la criminalità dal mondo, Alexia, erede del grandissimo IronHead che con la sua tenacia e grazie alla creazione della Fondazione dei Supereroi, ha fatto piazza pulita dei supercriminali. Gli unici combattimenti sono quelli legali e trasmessi in tv. L’altra ragazza protagonista, è Amy, figlia della supervillain BlackHand. Alexia vuole combattere, salvare vite dalla microcriminalità che ancora gira tra le strade, pur con l’assenza dei supercriminali. Ma secondo il padre deve diventare la nuova direttrice della Fondazione e avere un aspetto rispettabile e fiero. Amy, invece, vuole vendicarsi del torto subito da sua madre da parte della Fondazione. Le due si incontreranno con il ritorno di una delle supervillain più pericolose di sempre. Per forza di cose, inizieranno a collaborare fino a scoprire verità nascoste e scheletri nell’armadio, soprattutto dei cosiddetti “Eroi”.

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Lopez si avvale di una narrazione lineare e si avverte l’influenza di Invicible, oltre che a grandi storie passate di Marvel e DC. Particolare menzione a Wanted di Mark Millar, dove il concept era il completo opposto: i cattivi avevano vinto e stavano plasmando la società a modo loro ed erano i buoni a doversi riscattare.
Per il resto, troviamo colpi di scena ben calibrati anche se lo storytelling risulta fin troppo veloce. La caratterizzazione dei personaggi un po’ perde da questa velocizzazione, restando ai margini della superficialità. Soprattutto alcuni dialoghi dovevano avere una dinamica un po’ più approfondita, mentre hanno una risoluzione repentina. Questo accade sia per le due protagoniste, che, soprattutto, per i villain di turno, questi ultimi estremamente penalizzati.
Come sceneggiatore, Lopez ha decisamente qualche lacuna: l'autore mette moltissima carne sul fuoco, ma spesso perde il filo. Inoltre, i continui cambi di ritmo e point of view a volte depistano. C’è del buono? Sì, assolutamente. Pur con i problemi sopracitati, il titolo è divertente e non annoia e risulta godibile e leggero pur nella sua imperfezione.

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Dove la sceneggiatura pecca, il disegno rende. Il tratto di Lopez unisce dinamicità e freschezza ai personaggi definiti con linee nette e decise. L’espressività è sempre molto evidenziata, modulata nel dettaglio da ricercatezza nei volti e nelle loro sfumature, soprattutto quando si focalizzano su toni ironici. Il tratto realistico dell’autore riesce a sottolineare bene la drammaticità di alcune scene mentre in quelle in cui predomina l’ironia la sua matita diventa più caricaturale. Insomma, l'artista padroneggia perfettamente le scene. I colori, affidati a Nayoung Kim, sono vivaci ma non esagerati e ombre, luci e sfumature sono bilanciate bene, adattandosi perfettamente allo stile di Lopez.

Il formato utilizzato è quello orizzontale del 16:9. La costruzione della griglia resta molto classica se non per la decostruzione in alcune scene action che tagliano in maniera irregolare le vignette per creare frenesia e velocizzare così la scena e, di conseguenza, la percezione della lettura. Il cartonato è ben curato, come la Panini Comics ci ha abituati.
L’autore afferma che ha pensato a un sequel del fumetto, sempre per Panel Syndacate. Speriamo di trovarci di fronte ad un’opera un po’ più matura e altrettanto godibile.

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Fantastici Quattro 1-2, recensione: il ritorno della prima famiglia Marvel

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E dopo un’attesa durata poco più di due anni, in cui i rumor si sono rincorsi, giunge anche in Italia il nuovo mensile dei Fantastici Quattro.
Dobbiamo confessare di essere stati fra quelli che si sono ansiosamente abbeverati a ogni tipo di notizia sulla nuova serie in cantiere, ciò seppure nessuno potesse realmente credere che la Marvel, presto o tardi, non avrebbe rimesso mano ai propri personaggi più iconici (dopo l’amichevole Tessiragnatele) e una cesura nella pubblicazione del “migliore fumetto del mondo” non sarebbe durata a lungo.

Il fatto è che i Fantastici Quattro sono probabilmente uno dei fumetti supereroistici più difficili da scrivere, al pari di Superman: se per l’Azzurrone il problema principale è quello di portare il lettore ad empatizzare con un essere sostanzialmente onnipotente, per i FF è difficilissimo trovare l’equilibrio fra le quattro personalità dei protagonisti ed il giusto tono della serie. Come viene ben ricordato nel primo numero della nuova testata ciascuno ha una propria visione del quartetto (avventurieri, esploratori, immaginauti …) che resta, principalmente, una famiglia e come tale deve essere anzitutto considerata e trattata. E proprio su questo aspetto Dan Slott, fresco reduce da una delle più lunghe gestioni di Spider-Man, sembra volere puntare l’attenzione: abilmente sfruttando la scia della serie Marvel Two-in-One, la reunion dei Quattro (e non solo) non avviene nel primo numero, ma soltanto nell’ultima pagina del secondo. Il primo è invece incentrato sul coronamento di uno dei più lunghi fidanzamenti della storia dei comics, quello tra l’amabile Cosa dagli occhi blu e la bella scultrice cieca Alicia Masters: è nelle pagine finali dell’episodio che Slott dà il meglio, rendendo vivo e credibile il dolore di Johnny, giunto infine sul punto di accettare l’idea della morte dei propri congiunti che fino a quel momento aveva ostinatamente negato. Ed il suo sollievo e la sua gioia sono i nostri, nel vedere campeggiare in cielo quel 4 non è solo chiamata a raccolta di vecchi compagni di avventura, ma la promessa di un nuovo inizio. Ed è così che, nel secondo episodio, ritroviamo la First Family impegnata in quello che noi lettori già sapevamo dai tempi della fine dell’epica (e meravigliosa) saga di Secret Wars: la ricostruzione del multiverso.

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Al di là dell’impatto emotivo, direttamente proporzionale alla militanza tra i Marvel-geek, dobbiamo però dire che non tutto nel doppio albo è convincente: se ad esempio apprezzabilissima è la scelta di rendere adolescenti Franklin e Valeria (molto gustosa è la scena in cui Reed prende consapevolezza di come intorno alla figlia inizi a ronzare un alieno troppo simile per i suoi gusti di padre e marito ad un principe atlantideo dalle orecchie a punta…), nella speranza che non si giunga in seguito ad un nuovo depotenziamento/ringiovanimento, vi sono aspetti della storia trattati troppo velocemente: la sconosciuta antagonista ha un ruolo ed una potenza tali da non renderne plausibile il rango a dispetto della solo odierna comparsa; allo stesso modo viene eliminato troppo rapidamente l’Uomo Molecola, così potente da ricreare mondi in tandem con Franklin e già di tenere insieme i resti del multiverso per essere spazzato via nell’arco di una sola vignetta. Per non parlare dell’elefante in cristalleria di cui Slott non si libererà neppure nei numeri a venire (e che verrà affrontato, anche lì in modo non del tutto soddisfacente, nella serie parallela): come può Reed  avere consentito che suo cognato ed il suo migliore amico li abbiano creduti morti senza aver mai provato a raggiungerli?

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La storia troverà la sua logica conclusione nei numeri successivi, preparativi dei festeggiamenti per il 650° numero della serie originale; a questi, tuttavia, non parteciperà Sara Pichelli, il cui apporto alla serie, al momento, sembra essersi esaurito con i primi due episodi. Non conoscendo le cause alla base di tale stato delle cose non possiamo che rimpiangere la inadeguata programmazione da parte della Marvel, che ha dato alle stampe una serie tanto attesa senza avere prima incamerato almeno il primo ciclo da parte della penciler titolare. Un vero peccato, perché  l'artista, come sempre abilissima nel disegno delle espressioni dei personaggi, sembrava essere la scelta più azzeccata per la serie, anche per la ben riuscita scansione del ritmo narrativo e la struttura delle tavole, con alcune soluzioni di grande impatto (anche se non abbiamo apprezzato particolarmente la scelta grafica nella raffigurazione della Torcia, né l’aspetto del Reed barbuto).

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Da ultimo va segnalata la storia di appendice del primo numero, disegnata da un Simone Bianchi in buon spolvero ed incentrata sul nuovo/vecchio ruolo di Destino nella natia Latveria; il discorso sulla opportunità e sulla riuscita dell’operazione sviluppata da Brian M. Bendis nella serie de Il Famigerato Iron Man sarebbe lungo da sviluppare in questa sede. Nondimeno si spera che Slott, seppur apparentemente orientato a far ritornare le vecchie abitudini del buon Victor, non rinneghi del tutto un percorso evolutivo che era apparso sofferto e adeguatamente motivato (e, nel caso, riesca a sviluppare con coerenza le nuove scelte di vita dell’antagonista per antonomasia dei F4).

Il rilancio dei Fantastici Quattro è una lettura certamente consigliata per tutti gli appassionati dei comics, i quali non potranno rinunziare ad essere testimoni di questo nuovo e, si spera, glorioso capitolo di quello che è stata e resta angolare dell’Universo Marvel.

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Le grandi storie western, recensione: l'epopea di Rawhide Kid by Lee & Kirby

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È curioso come un genere così profondamente americano come il western sia oggi in patria così trascurato o di come noi italiani lo abbiamo fatto nostro negli anni. Parliamo, naturalmente, di cinema (i celebri Spaghetti Western), ma anche di fumetti, dove il Vecchio West è tutt’oggi amato dal grande pubblico che continua a premiare serie quali Tex su tutte - che ricordiamo essere il fumetto più venduto in Italia - e le diverse proposte che fanno di continuo capolinea in edicola.

Se oggi i comic book americani raccontano ancora in prevalenza gesta di supereroi (ma le proposte alternative sono nettamente aumentate), il western sembra trovare davvero poco spazio. Non era così nelle epoche passate, a cominciare dalla diffusione dei Dime Novels, ovvero racconti popolari proposti a 10 cent (un dime, appunto) che narravano le gesta degli eroi del West a pochi decenni di distanza dagli stessi eventi. La nascita del fumetto, della radio, del cinema e della tv, poi, ha fatto in modo che si attingesse a piene mani da questo genere, spesso anche con crossmedialità notevoli (personaggi declinati su più media o, ad esempio, star del cinema protagoniste di serie a fumetti).

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Riguardo ai comics, il successo dei supereroi negli anni '40 mise un po’ in ombra il genere western, che tornò in auge proprio grazie al declino degli eroi con super-poteri negli anni ’50 e alla crisi del settore dopo la pubblicazione del libro La seduzione degli innocenti, con cui si scatenò una caccia alle streghe contro il fumetto, soprattutto di genere horror o thriller, molto in voga all’epoca.
Il ritorno del fumetto supereroistico, grazie agli eroi Marvel, fece maturare l’intero mondo dei comics grazie agli eroi con super-problemi, influenzando così anche il western, spingendo ad affrontare il genere con maggiore introspezione. In particolare, da tempo, vigeva anche un certo revisionismo che vedeva una maggior attenzione al problema razziale, con i ruoli degli indiani e dei messicani rivisti e non più mostrati come semplici malvagi da sconfiggere. Nonostante questo, il predominio del fumetto supereroistico portò a un lento declino del genere.

In tutto questo movimento, la Marvel (e le sue precedenti incarnazioni Timely e Atlas) ebbe i suoi eroi western con diverse testate ben accolte dal pubblico. Fra questi ricordiamo Kid Colt, Two-Gun Kid, Black Rider e Rawhide Kid. Quest’ultimo, in particolare, il cui nome reale è Johnny Bart, un giovane di sani principi spinto a spostarsi di città in città dopo la morte dello zio Ben da parte di due malviventi (sì, l’espediente verrà ripetuto più avanti da Stan Lee). Per un malinteso, in seguito, Johnny verrà perseguitato dalla legge diventando temuto in tutto il West, nonostante la sua indole pacifica e la sua volontà di far del bene agli altri.
Il personaggio nasce nel 1955 con la prima incarnazione della testata che durerà solo 16 numeri. Riprenderà le pubblicazioni solo nel 1960, proseguendo la numerazione originale, fino al numero 151 del 1979. In questa seconda vita, inizialmente Lee si occupa dei testi insieme a Jack Kirby, con l’artista che resterà a bordo fino all’albo numero 32 del febbraio 1963, quando lascerà per i troppi impegni sulle testate supereroistiche.

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A differenza del precedente volume della collana Panini Comics che sta riproponendo le storie anni ’50 dell’Atlas, dedicato l’horror, in Le Grandi Storie Western si è deciso di selezionare avventure provenienti da una sola collana, appunto Rawhide Kid, escludendo dunque le altre dello stesso genere e di conseguenza gli altri personaggi. Una scelta che rende il titolo del libro un po' fuorviante e non in linea con l'intento originario della collana; dispiace non aver goduto di una panoramica più ampia, e dunque una selezione più antologica. È da comprendere se questa scelta, comunque, sia avvenuta in base alla reperibilità delle avventure originali e alla loro rimasterizzazione in digitale.
Le storie presenti che vedono protagonista Rawhide Kid, sono tutte ad opera di Lee e Kirby, qui per la prima volta insieme su una testata dedicata a un singolo personaggio. Tuttavia, per pochi numeri (il tomo contiene Rawhide Kid #17-28), non viene presentato l’intero ciclo dei due autori, che poteva entrare nella foliazione escludendo la selezione di brevi storie dedicate a protagonisti casuali. Una vero peccato che avrebbe, quantomeno, giustificato la monotematicità della proposta. Inoltre, come per gli altri volumi della collana, non è stata inserita una selezione di storie successive agli anni ’50, che ci avrebbero mostrato incarnazioni più recenti di Rawhide Kid.

Riguardo la qualità delle storie, non aspettatevi le complesse e articolate vicende di Tex (che in genere hanno uno sviluppo superiore alle 300 pagine). Le avventure di Rawhide Kid si svolgono nel giro di 6-7 pagine, come tradizione dell’epoca, ma spesso le storie raddoppiano o triplicano il loro spazio dando vita a una trama più vasta. Nella maggior parte dei casi vediamo il protagonista coinvolto in combattimenti e duelli e, sia il suo modo di agire che il tono stesso delle avventure, più che il western ricordano proprio il genere supereroistico dove tutto si basa sull’abilità del protagonista di superare sfide o uscire da situazioni improbabili. L’intento principale degli autori è quello di sorprendere il lettore mettendo l’eroe in situazioni di inferiorità e mostrare come riuscirà a ribaltare la situazione.
Riguardo la selezione di storie senza fisso protagonista, presenti anche queste nella testata di Rawhide Kid, altro non sono che brevi avventure con tanto di morale finale che cercano di far leva sui buoni sentimenti e sulla netta distinzione fra bene e male e buoni e cattivi.

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Le Grandi Storie Western offre un interessante scorcio sulla produzione di genere firmata Atlas/Marvel di inizio anni ’60, per questo il suo valore storico è notevole, anche in considerazione della rarità del materiale proposto. La presenza di Lee e Kirby garantisce un’ulteriore punto di interesse e una certa qualità di base ad avventure, tuttavia, molto semplici e figlie del loro tempo.

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1985, recensione: Quando i criminali Marvel invasero il nostro mondo

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Il fumetto è una passione che riempie la vita di grandi e piccini e, nel caso di Toby Goodman, protagonista di 1985, questa non è solo una metafora. 1985, saga in sei parti di Mark Millar e Tommy Lee Edwards, pubblicata per la prima volta nel 2008 e riproposta da poco in volume da Panini Comics, esplora il sogno segreto di ogni amante dei fumetti: come sarebbe la nostra vita se i personaggi dei fumetti prendessero vita nel mondo reale? E cosa succederebbe se, invece, a prendere vita fossero solo i supercriminali? Partendo da questa variazione sul tema dei supereroi che irrompono nella vita reale, già sperimentata in forme diverse in Marvels di Kurt Busiek e Alex Ross, gli autori creano un'avventura che ha l'intento di celebrare l'arte del fumetto, i supereroi Marvel e la bellezza di un passatempo che molti bollano superficialmente come uno svago da nerd,  ma che in realtà è molto di più poiché, come scoprono i protagonisti del racconto, un comic-book può cambiarti la vita.

Toby è un ragazzino nel 1985. La sua vita si divide  tra la scuola e la sua unica passione: i fumetti Marvel. Il suo hobby è un porto sicuro in cui rifugiarsi ed è un bene che ci sia, perché la sua vita non è delle più semplici: i suoi genitori sono separati e al ragazzo tocca vivere con una madre che non approva il suo amore per i comics e col suo nuovo compagno, un tipo che non potrà mai sostituire nel suo cuore il suo più grande eroe, cioè suo padre. Jerry Goodman, ritratto con la fisionomia di Jeff Bridges ne iI Grande Lebonsky, condivide col protagonista del grande film dei Fratelli Cohen l’indole pigra: è un uomo dalle grandi doti, ma ama vivere alla giornata e si perde dietro i suoi demoni d'infanzia. Vuole un gran bene a suo figlio Toby e gli ha trasmesso il suo amore per i fumetti, nato molti anni prima e condiviso col suo amico di infanzia, Clyde Wyncham. Proprio quest'ultimo e la sua casa nascondono un oscuro segreto di  cui Jerry è rimasto unico custode. Clyde, invece, ha avuto un terribile incidente che lo ha reso un vegetale.

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Così, proprio nel momento in cui esce Secret Wars, il primo crossover della casa delle idee pubblicato a metà degli anni '80 e la sua esaltazione per il suo hobby arriva all'apice, tutti i nodi della vita di Toby vengono al pettine: infatti, nella sua città partono strani avvistamenti di uomini vestiti di verde che volano con ali enormi sui tetti e lo stesso Toby si accorge della presenza di strani personaggi che osservano dalla finestra della casa di Clyde e sembrano tramare nell'ombra. L'unico che capisce cosa sta succedendo è il protagonista: i criminali dell'universo Marvel stanno prendendo vita proprio nella sua città, solo che nessuno crede ad un ragazzino con la testa tra le nuvole. Toby dovrà, quindi, intraprendere un viaggio - aiutato da suo padre- che lo porterà ad esplorare, letteralmente, nuovi mondi, per salvare il suo, risolvere i misteri del passato di Jerry e Clyde e scendere a patti con i problemi della sua famiglia, entrando cosi, in una maniera che mai avrebbe immaginato, nell'età della maturità.

Mark Millar, autore di cicli memorabili tra cui citiamo su tutti Ultimates e Civil War, si cimenta con 1985 in un progetto diverso da tutto quello che aveva proposto fino a quel momento  (che, nell’idea iniziale dell'autore, doveva essere molto più sperimentale, ovvero sotto forma fotoromanzo) per la Casa delle Idee: siamo di fronte ad una storia volutamente leggera, che esplora il senso di meraviglia e di avventura presente nell'essenza dell'universo e dei personaggi della Marvel, ad un racconto lontano dalle tematiche politiche, di critica sociale ed, in generale, da quell'approccio più maturo al media del fumetto, da sempre cifra stilistica dei lavori dell'autore scozzese.
La mano di Millar però c'è eccome: la si nota bene nello stile decompresso della narrazione, nei dialoghi taglienti, nella costruzione delle scene in modo che potrebbero essere adatte all'inquadratura di una cinepresa, oltre che alla penna di un disegnatore, nell’uso sapiente di colpi di scena e di dettagli realistici che lasciano il lettore col fiato sospeso e in attesa del numero successivo.

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Tommy Lee Edwards dal canto suo, come si è accennato prima, salito a bordo del progetto dopo che la Marvel non ha avallato le prime prove del fotoromanzo che Millar aveva in mente, pare sforzarsi particolarmente per rimanere fedele all’idea originaria dell'autore scozzese: le sue tavole non sono mai particolarmente dinamiche  e sembrano volersi concentrare soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi, in particolar modo sui primi piani, piuttosto che sulla costruzione di scene di azione che rimangano impresse nella testa del lettore, proprio come se i soggetti fossero cristallizzati in fotografie. Questo effetto è aumentato dall'uso di una colorazione sfumata (arricchita da un giusto dosaggio dei chiaroscuri) che sembra realizzata con i pastelli e cambia di tonalità a seconda del mondo in cui è ambientata la storia (più cupa nella realtà priva di supereroi di Toby, più illuminata nella realtà dell’universo Marvel, quasi a simboleggiare la capacità dei personaggi di quell'universo di portare luce nella vita delle persone) e dal frequente utilizzo delle splash-page per presentare i personaggi (soprattutto i cattivi) dei fumetti, ritratti in pose statiche, che sembrano destinate a solennizzare la loro figura, come fossero delle statue.

Da ultimo, si sottolinea come i due autori si siano divertiti ad inserire easter egg  e a citare scene e personaggi storici dei fumetti, con l'intento di aumentare l’effetto nostalgia del senso di meraviglia e ingenuità che si respirava nelle storie dei primi anni '80 della Casa delle Idee, rimasto immutato nonostante il passare degli anni e il cambiamento delle modalità di narrazione delle storie a fumetti e del gusto dei lettori.

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1985 è un graphic novel che, pur non raggiungendo le vette delle opere migliori di Millar, di certo non può scontentare né i fan dell'autore scozzese né i fan della Marvel, a cui è  esplicitamente rivolta: oltre a costituire una lode splendidamente confezionata al fumetto e a chi ne è innamorato, contiene anche un significato di fondo, che si coglie proprio alla fine del racconto, una lunga avventura di formazione dei due protagonisti, Toby e Jerry. Così, alla fine, proprio come i due personaggi, capiamo che il segreto della felicità, forse, è crescere rimanendo un po' bambini: il modo più giusto di scendere a patti con la vita adulta è tenere vive le passioni e le gioie di quando si era bambini, tra le quali, naturalmente, trova un posto speciale l'amore per il fumetto.

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