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Ultimate Invasion, recensione: il ritorno della nuova Marvel

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Per quanto non possa ancora vantare nessun riconoscimento di particolare importanza (nella sua quasi ventennale carriera nei fumetti, non gli è mai stato assegnato un Eisner Award né altri premi minori), Jonathan Hickman è un autore di fama internazionale, il cui nome costituisce sempre un significativo richiamo per i lettori. E benché a causa di alcune sue opere passate, caratterizzate da trame troppo cervellotiche o dall’abuso di strumenti narrativi inusuali come le infografiche, una piccola parte della critica persevera a non considerarlo allo stesso livello di altri sceneggiatori, anche i suoi più strenui detrattori faticano a negarne la notevole ingegnosità, che lo rendono un world builder di prima grandezza, capace di rigenerare ogni character che gli viene affidato. Sono probabilmente queste le qualità che devono aver convinto la Marvel a chiedergli di riportare in vita l’universo Ultimate, sulla scorta dell’ottimo lavoro svolto qualche anno fa con il mondo mutante e, in precedenza, con i Fantastici Quattro (che dopo di lui non hanno più trovato uno scrittore degno di questo nome, sebbene siano passati sotto le mani di Matt Fraction, James Robinson e Dan Slott). Per non menzionare la sua gestione degli Avengers, con i quali ha portato avanti una lunga sottotrama, che ha fatto da preludio alla cataclismatica maxiserie Secret Wars, il megaevento fumettistico dipanatosi negli USA tra il 2015 e il 2016, in cui proprio l’universo Ultimate veniva cancellato assieme a gran parte del multiverso Marvel. Hickman stesso era stato il direttore d’orchestra di quel gigantesco crossover, quindi, che ora sia lui lo sceneggiatore incaricato di rilanciare la linea Ultimate, suona quasi come un paradosso.

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A ogni modo, l’autore di East of West e Decorum non delude le aspettative e fin da Ultimate Invasion, la miniserie preposta a introdurre il nuovo universo Ultimate, fa ripetutamente sfoggio di quella grande inventiva accennata all’inizio, non limitandosi a un semplice revival dei concetti elaborati più di vent’anni fa da Brian Michael Bendis e Mark Millar, per i protagonisti delle testate Ultimate di allora, ma realizzando, come sua abitudine, qualcosa di totalmente differente e, al tempo stesso, innovativo.
Personaggio centrale della trama è il Creatore, il Reed Richards del precedente universo Ultimate, sopravvissuto alla distruzione del suo mondo, per diventare un potente avversario degli eroi di Terra Prima, cioè l’ex Terra 616 (quella delle serie Marvel tradizionali) “rinata” alla fine di Secret Wars. Hickman aveva contribuito in maniera determinante a definirne il carattere e le motivazioni, dopo che, diverso tempo prima che il suo pianeta fosse annientato, il capo della versione Ultimate dei Fantastici Quattro aveva clamorosamente preso la via del male.
All’inizio della vicenda, vediamo il Creatore usare il suo genio perverso per fuggire da una prigione di massima sicurezza di Damage Control e, successivamente, impegnato a impossessarsi degli strumenti necessari a costruire un portale spazio-temporale. Raggiunto dagli Illuminati, il criminale si sottrae ad essi scomparendo verso un altro mondo, Terra 6160 (una sorta di combinazione di 616 e 1610, il numero con cui veniva indicata la Terra del “vecchio” universo Ultimate), dove comincia ad alterare vari avvenimenti del passato, allo scopo di diventarne il padrone assoluto.

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Di più non aggiungiamo, perché le tante idee messe in campo dallo scrittore del South Carolina meritano di essere assaporate dall’inizio alla fine. E sebbene Ultimate Invasion possieda solo in parte l’afflato epico di House of X e Powers of X (le miniserie con cui Hickman ha dato il via alla cosiddetta Era Krakoana dei mutanti Marvel, giunta al suo drammatico epilogo in queste ultime settimane), l’opera ha conservato molti degli aspetti positivi, che avevano portato al successo quei due fondamentali tasselli della storia recente degli Uomini X. Ci riferiamo, in particolare, a come la narrazione complessa e a lungo respiro, che da sempre contraddistingue le trame dell’autore statunitense, non si perda mai in divagazioni fini a se stesse, a dispetto di uno scorrere degli eventi articolato e discontinuo (persino nei passaggi in cui è l’azione a prendere il sopravvento), che, come da copione, trova coerenza e significato solo nelle pagine finali. Hickman, inoltre, non lesina i colpi di scena e le rivelazioni sorprendenti, potendo anche contare sul fatto che, a differenza di quanto accaduto con i mutanti, nel nuovo universo Ultimate non ci sono decenni di continuity da rispettare, sentendosi, pertanto, autorizzato a dare libero sfogo alla sua creatività e a lasciare che i richiami alle storie di Bendis e Millar si tramutino in niente più che semplici omaggi, con la precisa intenzione di non mantenere alcuna connessione con quelle saghe passate. In altre parole, una conferma ulteriore della volontà di non fossilizzarsi su uno sterile remake e del desiderio di esplorare strade sostanzialmente inedite, che possano stimolare sia l’interesse dei lettori che il lavoro degli autori. Ed è proprio sulla base di questo assunto che Hickman costruisce una versione totalmente divergente dall’universo Marvel canonico, che si discosta pure in maniera netta dal mondo reale. Una visione distopica della società umana, che rimaneggia abilmente un tema caro a molta fantascienza contemporanea (e che, con toni differenti, aveva già fatto capolino in alcune sue opere precedenti o, per citare un fumetto recente, in Lazarus di Greg Rucka e Michael Lark) dove, comunque, non mancano gli eroi pronti a combattere per sovvertire lo status quo. Oltretutto – e inevitabilmente – è su questi ultimi che si concentra la voglia di sbalordire dello sceneggiatore americano, presentando parecchi di essi in una veste che, per quanto inaspettata, risulterà alla fine assolutamente verosimile. Senza considerare i personaggi coinvolti in un ribaltamento di ruoli, che stupirà anche i lettori più smaliziati (vedi la reale identità di Kang o l’intrigante dualismo Reed Richards-Dottor Destino) e che preannuncia sviluppi futuri non meno affascinanti.

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Passando ai disegni, ci fa piacere segnalare che Bryan Hitch sembra aver quasi ritrovato lo smalto di un tempo. Il cartoonist britannico, famoso per il suo importantissimo contributo alla prima incarnazione dell’universo Ultimate, avendo dato vita in coppia con Mark Millar agli Ultimates, la versione alternativa degli Avengers (che, notoriamente, è stata la fonte di riferimento principale degli sceneggiatori del Marvel Cinematic Universe, per trasportare gli Eroi più Potenti della Terra sul grande schermo), in anni recenti pareva, infatti, aver subito un’involuzione nello stile, che si traduceva in volti poco definiti e anatomie sproporzionate. In Ultimate Invasion, pur non raggiungendo i livelli eccelsi di The Authority o, appunto, The Ultimates, la qualità delle sue tavole è migliorata in maniera consistente. Le vignette, in particolare, sono tornate a essere ricche di dettagli, a partire dalle cosiddette “widescreen page”, vero e proprio marchio di fabbrica di Hitch. Spettacolari splash-page - che non di rado arrivano a occupare due pagine per intero - stracolme di personaggi, spesso coinvolti in impressionanti scene d’azione. Ormai lontano dal tratto morbido, ispirato a quello di Alan Davis, con cui aveva caratterizzato i suoi lavori a inizio carriera, l’artista d’oltremanica non ha perso l’abitudine di utilizzare prospettive insolite e ardite che, unite a primi piani dei protagonisti scelti con molta cura e a inquadrature estremamente cinetiche, regalano al lettore un’esperienza quasi cinematografica.

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Tale exploit, tuttavia, è destinato a essere – a meno di futuri ripensamenti - una sorta di canto del cigno di Hitch sugli albi della Marvel, dato che l’autore ha pubblicamente dichiarato di non volersi più impegnare con personaggi di cui non detiene i diritti, entrando a far parte, assieme ad altri big del fumetto americano (Geoff Johns, Gary Frank e Ivan Reis, solo per citare i più famosi) del collettivo Ghost Machine, che svilupperà nuove serie per l’Image.
Non una bella notizia per la Casa delle Idee, che, a dispetto di decisioni discutibili, apparentemente indirizzate al semplice ritorno commerciale (tra i primi titoli annunciati abbiamo Ultimate Black Panther, nato evidentemente con l’intento di attrarre il folto pubblico afroamericano, e Ultimate X-Men, realizzato in toto da Peach Momoko, che, invece, vuole strizzare l’occhio agli appassionati di manga), sembra veramente interessata a rendere questa nuova linea Ultimate qualcosa di speciale. Una sensazione confermata non soltanto dal piacevolissimo Ultimate Universe, one shot che fa da collegamento tra Ultimate Invasion e le testate dedicate ai singoli character, ma soprattutto da Ultimate Spider-Man, che – a giudicare da quello che succede nell’albo d’esordio - oltre a essere illuminato dai disegni del nostro Marco Checchetto, può ancora vantare un Hickman per nulla restio a offrire altri imprevedibili risvolti nelle vite dei personaggi principali.

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Newburn Vol. 1, recensione: il noir secondo Chip Zdarsky e Jacob Phillips

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Fin dal 2014, quando vinse il suo primo Eisner Award (al quale poi ne sono seguiti altri tre, più una pioggia di Harvey Award e diverse onorificenze minori), in veste di co-autore di Sex Criminals - premiata quell’anno come migliore nuova serie - Chip Zdarsky si è imposto come uno dei cartoonist più importanti del comicdom americano. Già pochi mesi dopo quel prestigioso riconoscimento, sono arrivate varie collaborazioni con Marvel e DC, tra le quali – limitando l’elenco a quelle che continuano tuttora – è bene ricordare il lungo ciclo di Daredevil iniziato nel 2019 (e avviato a concludersi negli USA questa estate) e Failsafe, la controversa saga di Batman che sta facendo discutere critici e appassionati da entrambi i lati dell’oceano.
Come molti altri sceneggiatori, però, Zdarsky mostra di dare il meglio di sé quando è libero di muoversi senza vincoli creativi o quando non deve preoccuparsi delle richieste di qualche editor. Ne è un chiaro esempio la recente Newburn, serie Image realizzata in coppia con Jacob Phillips, sbarcata da poco pure in Italia grazie a Saldapress.

Easton Newburn è un investigatore privato di New York al soldo di tutte le principali organizzazioni criminali della città. Temuto e rispettato, gode di una sorta di immunità presso la malavita, garantita dall’assoluta neutralità dei suoi giudizi, tesi a non privilegiare nessuna delle famiglie mafiose coinvolte e a mantenere l’equilibrio necessario a evitare sanguinose guerre tra gang. Una scomoda verità di cui è consapevole anche la polizia, rassegnata a farsi da parte pur di non intralciare le sue indagini.

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Con echi che richiamano serie televisive di successo come l’acclamata The Wire e, ancora di più, Mayor of Kingstown, Newburn possiede tutte le caratteristiche che hanno portato il noir a essere uno dei generi cardine della fiction contemporanea. La New York in cui si muove il protagonista non è la metropoli da cartolina illuminata dai grattacieli di Manhattan, visibile in molte produzioni hollywoodiane, ma una città soffocata dal crimine, che domina indisturbato su bassifondi popolati da un’umanità meschina e senza ideali. Un luogo dove la linea di demarcazione tra bene e male è sottilissima, tanto da rendere quasi naturale venire a patti con chi sta dalla parte opposta della barricata - sia in un senso che nell’altro - pur di ottenere qualcosa per il proprio tornaconto o per evitare che atti sconsiderati sfocino in tragedie peggiori, in cui nessuno sarebbe al sicuro. Di conseguenza, che in un simile scenario il protagonista possa essere un ex poliziotto cinico e disilluso, che ha deciso di arricchirsi mettendosi al servizio della malavita, non appare poi così sorprendente (sebbene non ridimensioni minimamente la brillante idea avuta da Zdarsky per il personaggio). Inoltre, ragionando in termini meramente contenutistici, difficile non prendere in considerazione come punti di riferimento fumettistici di una serie con queste caratteristiche la pluripremiata Criminal di Ed Brubaker e Sean Phillips (padre di Jacob) e diverse opere hard boiled di Greg Rucka.

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È pur vero, però, che, tolto il clima torbido che ammanta ogni episodio, il modo in cui Newburn arriva alla soluzione dei casi, spesso contraddice il realismo che, almeno in teoria, dovrebbe improntare la vicenda. Alludiamo al fatto che il protagonista mostra sempre di possedere un fiuto investigativo infallibile e di disporre di continui assi nella manica, anche in situazioni estremamente intricate. È questo l’unico apparente difetto della serie, benché, detto onestamente, Zdarsky non dia mai veramente l’impressione di voler replicare la formula di Criminal o di altre opere simili. Gli omaggi - forse pure inconsapevoli - a Brubaker e Rucka paiono semplicemente un tentativo di portare allo scoperto le inquietudini dei diversi character, al fine di rendere plausibile l’ambigua moralità di Newburn, per quanto essa, a dispetto del fascino che possa esercitare sugli smaliziati lettori di oggi una versione scorretta dei vari Sam Spade e Philip Marlowe, nasconda, con ogni probabilità, molto di più.
L’autore canadese, infatti, si rivela particolarmente abile nel mostrare - almeno per ora - solo i tratti essenziali del protagonista, centellinando le informazioni che lo riguardano in mezzo alle vicende private degli altri personaggi, in primis Emily, l’aiutante di Newburn, della quale, in maniera forse troppo prevedibile, scopriamo presto un passato non meno turbolento di quello dei diversi comprimari.
A ogni modo, al netto di qualche ingenuità, la lettura del volume rimane appassionante dalla prima all’ultima pagina e le scelte fatte fin qui dal buon Chip ci sembrano tutte sostanzialmente condivisibili.

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Passando al comparto grafico, se la scrittura di Zdarsky ricorda a tratti quella di Brubaker, persino più marcate sono le somiglianze tra i disegni di Jacob Phillips e quelli di suo padre Sean, tanto da rendere ancora più verosimile l’accostamento tra Newburn e Criminal. A un’analisi meno superficiale, tuttavia, risulta abbastanza evidente che, benché entrambi operino in maniera convincente sui primi piani dei personaggi, lasciando che siano le espressioni dei loro volti a parlare, piuttosto che l’eloquenza dei dialoghi, Jacob, quando prova a fare sue alcune caratteristiche stilistiche del genitore, a volte sembra mancare di spontaneità. Per esempio, se nelle tavole di Sean i giochi di ombre, il netto predominio dei dettagli e la scelta delle inquadrature concorrono in modo determinante ad arricchire la narrazione, in Newburn gli stessi espedienti “tecnici” appaiono più come una forzatura necessaria a far diventare meno anonima la costruzione delle vignette o a ridurre la staticità dei personaggi. Ciò non significa che il lavoro di Phillips Jr. sia di bassa qualità, ma è innegabile che gran parte dell’atmosfera che si respira nelle pagine del libro derivi soprattutto dall’uso magistrale dei colori, che è sempre stato il vero punto di forza dell'artista britannico (e di cui hanno spesso beneficiato anche le opere di Sean), piuttosto che dal segno essenziale – e inevitabilmente un po’ piatto – che contraddistingue le sue figure.
Probabilmente, il problema di Jacob è solo la giovane età. Il talento c’è e si vede, e con il padre a fargli da mentore non potrà che fiorire rapidamente.

Per finire, ottima, come di consueto, la confezione del volume da parte di Saldapress, per una serie che promette realmente di diventare una delle nuove hit della casa editrice.

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