Iosif Stalin fu un dittatore paranoico, sanguinario e spietato. Accanto alla tragedia maggiore dei molti innocenti arrestati, imprigionati, deportati o sommariamente giustiziati, ce ne fu un'altra, minore, ma significativa sul piano ideologico e politico: fare scivolare la spinta liberatrice della Rivoluzione d'Ottobre in un esercizio di potere fine a se stesso, assurdo e circolare, in cui la personalità del capo diventa nume tutelare e angosciante, le procedure burocratiche santificano il travisamento della realtà e gli uomini, così avulsi da ogni forma di verità, diventano, da eroi del Popolo, pedine miopi e spaventate di un gioco perverso che non possono fare altro che subire.
Con Stalin, l'Unione Sovietica senza saperlo aveva di fatto già abdicato ad ogni suo progetto di guida mondiale del proletariato e di liberazione dell'umanità: non più (forse mai) uno statista in grado di influenzare le umane e progressive sorti, Stalin diventa feticcio, corpo e immagine di uno status quo monolitico da mantenere e preservare. Fabien Nury e Thierry Robin sembrano particolarmente interessati a sottolineare tutti questi aspetti e lo fanno con un'operazione intelligente ed elegante: restringere il campo ai momenti immediatamente precedenti e successivi alla morte del dittatore sovietico, giocando abilmente con generi e influenze diverse, dati storiografici e caratterizzazioni grafiche dei personaggi.
La prima parte della storia – Agonia – prende le mosse dall'ictus che colpisce Stalin il 28 febbraio del 1953 e dei tentativi, da parte del Comitato Centrale del PCUS di “gestirne” la possibile (e poi effettiva) dipartita. Le tavole presentano griglie estremamente varie e articolate, con vignette di dimensione medio-piccole, in cui prevalgono i primi piani, le figure intere, i piani americani e medi. Da questo impianto grafico ne scaturisce un thriller grottesco e paranoico, in cui i personaggi si muovono come se fossero incastonati o imprigionati nelle loro stesse paure. Su tutti torreggia la figura luciferina di Lavrentij Berija, il potentissimo capo della polizia segreta sovietica, la cui caratterizzazione grafica riassume ottimamente lo stile Robin: un tratto nervoso, caricaturale, che ricorda in molti punti il Tim Sale di The Long Halloween e Dark Victory. Ricchi di ampie campiture nere e di giochi chiaroscurali, i disegni sono arricchiti da colori eleganti, plumbei e tenui sui quali le figure umane sovente sfociano in vere e proprie silhouette: parodie di corpi e volti e del potere insomma, che unitamente alle poche inquadrature più ampie, spesso dall'alto, alleggeriscono l'atmosfera cupa di questa prima parte con massicce dosi di humor nero e sarcasmo.
Se il corpo di Stalin, nella prima parte è oggetto reale e quasi ripugnante, da nascondere e rinchiudere, nella seconda parte della storia – I Funerali – è simbolo artificiale da mostrare e condividere: qui le tavole respirano maggiormente. Gli autori includono inquadrature più ampie, corali, si concedono le splash-page, i campi lunghi e medi, i colori virano verso tonalità più chiare giocando sui contrasti del bianco (di Mosca, delle divise) e dei rossi: la morte di Stalin riguarda tutti, il tiranno crudele è stato anche l'amatissimo padre del popolo. Lo sceneggiatore Fabien Nury dà ritmo alla vicenda alternando abilmente scene all'interno e all'esterno dei palazzi del potere. Nel primo caso riesce a rendere credibili e mai noiosi i dialoghi da politburo delle riunioni del Comitato Centrale dove la lotta di potere per la successione di Stalin richiama per tensione e efficacia film come La parola ai giurati. Nel secondo caso Nury usando in modo creativo e funzionale alcuni episodi realmente accaduti e altri “aggiustati” per l'occasione, sfrutta le convenzioni del dramma storico per descrivere scene corali dall'effetto drammatico ed espressionistico che in più punti ricordano il cinema di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
C'è una vena profondamente sarcastica ne La Morte di Stalin: è con questo sguardo che Fabien Nury e Thierry Robin proteggono loro stessi, e soprattutto i lettori, dalle trappole più prevedibili che riguardano i giudizi su Stalin e lo stalinismo, ovvero la condanna urlata, la mesta e debole auto-critica o la disonesta apologetica. Gli autori sono partecipi alle vicende umane dei protagonisti, ma mai ciecamente schierati. Il punto di vista corrosivo, a tratti veramente feroce, lascia spazio a momenti di sentita compassione che regalano a molti dei personaggi inaspettate sfaccettature: ci scopriamo così genuinamente solidali con l'ingenua figlia del dittatore Svetlana, partigiani di Kruscev e compagni, nonostante le loro evidenti meschinità, disgustati prima e tristi poi per Vassia, l'altro figlio di Stalin; lo stesso, mostruoso Berija, ricettacolo delle ingiustizie e delle crudeltà del regime, suscita sentimenti contrastanti quando nel finale appare come l'ennesima vittima. In questo senso, nel mostrare in modo semplice e diretto il retroscena del potere assoluto e delle sue strutture come un terreno popolato da riconoscibili e umanissime debolezze e pulsioni, La Morte di Stalin è un'opera intelligente, acuta, emozionante.