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Pantera Nera 1: Una nazione ai nostri piedi

Nell’iniziativa Marvel Now! sono molte le serie meritevoli di lettura, ad esempio La Visione e Moon Knight che vi abbiamo recensito di recente, e molte altre. Fra quelle che hanno ricevuto maggiori attenzioni da parte del pubblico e della critica trova posto la nuova regular di Pantera Nera, un personaggio su cui la Marvel sta puntando molto anche cinematograficamente grazie al suo esordio nel film Captain America: Civil War e alla pellicola prevista per il 2017 con protagonista Chadwick Boseman.
In particolare, la nuova serie ha fatto parlare di sé per l’esordio ai testi di Ta-Nehisi Coates, scrittore e giornalista afro-americano molto popolare in America (e non solo), noto per le sue posizioni politiche sociali e anti-razziste. E Pantera Nera è, a tutti gli effetti, una serie molto politica.

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Bisogna dirlo, la stratificazione narrativa dei vari elementi è molto consistente. Da un lato abbiamo un sovrano, T’Challa, che ha perso i contatti con il suo popolo e che deve prima di tutto riconquistare i suoi sudditi che sentono quanto mai distanti il suo re. Il tutto mentre agitatori sociali si ribellano al monarca e fanno adepti senza, naturalmente, escludere minacce provenienti dall’esterno. Insomma, il regno del Wakanda è quanto mai in agitazione e riportare la situazione alla normalità è sempre più difficile per Pantera Nera. Non entreremo nei dettagli del ricco intreccio narrativo, ma è certo che Coates tesse una trama fitta e complessa di situazioni.

Naturale che, leggendo le varie tavole, gli echi sociali anche degli eventi americani degli ultimi mesi sono evidenti, gli spunti e le riflessioni sono quanto mai attuali e interessanti e il merito di Coates  nell'aver posto la serie sotto i riflettori è palese (negli States il primo numero ha venduto 300.000 copie, in Italia è stato allegato al settimanale Internazionale). Dal punto di vista narrativo, l’autore è artefice di una convincente prima prova fumettistica, il suo è uno stile sicuramente più classico di sceneggiatura (un approccio, forse, dovuto anche alla sua scarsa dimestichezza col mezzo, ma ciò non è affatto un male). Gli albi sono densi di avvenimenti e i dialoghi intesi, e la lettura richiede un’attenzione da parte del lettore maggiore che in altre serie.

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Alle matite ritroviamo, dopo una lunga pausa dal mondo del fumetto, Brian Stelfreeze, autore di un’ottima prova. L’artista dona eleganza e possanza alla figura di Pantera Nera e mostra tutta la sua abilità sia nelle scene d’azione che in quelle più introspettive. Ricchi e curati risultano il design, i costumi e l’abbigliamento dei personaggi e la rappresentazione grafica del Wakanda è molto efficace.

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L’edizione Panini Comics viene presentata nell’ormai consueto ottimo cartonato con cover morbida, elegante e di alto pregio. Sul piatto della bilancia, però, bisogna considerare che il volume racchiude solo 4 albi, rispetto ai 5 minimi o ai 6 consueti delle altre serie. Le restanti pagine sono occupate da un’intervista a Stelfreeze e a una ricca gallery di variant cover. Se questo può essere un punto a sfavore, bisogna dire che i 4 albi presenti sono davvero densi e meritevoli e che ben valgono il prezzo del biglietto. Insomma, sicuramente un acquisto che vi consigliamo caldamente di fare.

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Chrononauts

La letteratura prima, e il cinema di fantascienza dopo, hanno insegnato che, potendo realizzare il sogno di tornare indietro nel passato, rischi e attenzioni da porre sarebbero davvero tanti. Tale assunto è la base di qualsivoglia racconto fantascientifico sui viaggi nel tempo.
Mark Millar riflette su questa base narrativa, arrivando, però, ad una conclusione diversa: e se a qualcuno non importasse delle conseguenze? Accompagnato dal disegnatore Sean Gordon Murphy, l’autore scozzese, mette in piedi una canonica storia fantascientifica: viaggi nel tempo, paradossi temporali, fantascienza ma, ancora una volta, conferma di voler giocare con la narrazione e con le caratteristiche tipiche del genere a cui fa riferimento. Se in Kick-Ass e Superior, con intenti narrativi differenti, giocava con l’idea di supereroe, in Secret Service parodiava le spy-story, con Chrononauts decide, con la tipica ironia dissacrante che lo caratterizza, di sovvertire le tipiche “regole” del genere fantascientifico.

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La storia racconta di due scienziati, Corbin e Danny, che, una volta stabilita la possibilità dei viaggi nel tempo, decidono di provare il primo “salto umano” nel passato. Corbin però, stanco della propria vita affettivamente disastrata e di profonda solitudine, decide di voler rimanere nel passato e, grazie alla conoscenze sulla storia, decide di voler sovvertire gli eventi per come si sono svolti: diventa re, quasi divino, della città fortificata di Samarcanda del 1504, difendendo il suo regno con elicotteri e carri armati, vuole diventare miliardario sbancando i casinò facendosi dire le puntate esatte dal se stesso passato, vuole conquistare tutte le donne famose della storia, da Cleopatra alla fidanzata di Lucky Luciano. Sprezzante del pericolo e indifferente delle conseguenze, spazia nel tempo, avanti e dietro, “vivendo” una vita piena e ricca. Danny decide presto di “folleggiare” nel tempo insieme al suo amico.
Quando si possiede una macchina del tempo, non devono esserci necessariamente ripercussioni.
L’ironia di Millar è proprio in questo: come in un film adolescenziale anni ‘80, i protagonisti vivono la loro avventura, senza, però conseguenze; ma i protagonisti non sono liceali combina-guai che, poi, imparano la morale di turno, ma sono due scienziati, belli, giovani e prestanti – non i tipici “nerd” a cui l’immaginario fantascientifico ha abituato il fruitore – che scientemente decidono di sovvertire il flusso temporale per i propri, infantili, desideri.

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L’intero volume è ricco di citazioni da Mark Twain – il nome della prima sonda temporale – a Ritorno al Futuro e Top Gun – nelle cover di Murphy – ma anche illusioni ottiche dalla difficilissima lettura, portali temporali come quelli di Stargate, palesando l’intendo di Millar di pescare nell’immaginario fantascientifico del lettore, sovvertendo le regole e giocando con tutto ciò che ha a sua disposizione. Il disegno di Murphy, “sporco”, carico di linee cinetiche, movimenta l’intera storia arricchendola di dettagli visivi che contribuiscono a immerge il lettore nelle avventure dei due scienziati.
Ancora una volta, Millar si rivela essere uno dei più “fantasiosi” e ironici scrittori contemporanei di fumetto, capace di divertire in maniera dissacrante attraverso l’utilizzo di generi ben codificati che, però, sceglie di sovvertire, aumentando così la forza parodica delle sue opere: tornando indietro nel tempo, e precisamente nell’anno 1, Corbin e Danny, regalano al piccolo Gesù Cristo appena nato, un crocifisso.

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Chrononauts è ciò che si aspettava da un autore come Millar, l'opera ha tutti gli ingredienti che solitamente utilizza nei racconti del suo Millarworld, e, proprio a causa di questo linguaggio ormai assodato, il fumetto non sorprende come fece Kick-Ass alla sua uscita, ma riesce comunque a confermarsi una lettura solida ed estremamente piacevole, forse, meno “politicamente scorretta” di come sperava di essere.

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Moon Knight 1: Lunatico

Jeff Lemire è senza dubbio una delle rivelazioni del comicdom degli ultimi anni. Fattosi notare con l’intimista Essex County, si è costruito una reputazione in casa DC Comics dove ha scritto apprezzate run di Animal Man, Green Arrow e Justice League Dark, senza disdegnare il fumetto indie con il grande successo di Descender per la Image. Il passo verso un contratto in esclusiva con la Marvel è stato breve, e la Casa delle Idee lo ha subito messo a lavorare su alcuni dei suoi progetti più attesi: l’ennesimo rilancio della saga mutante con Extraordinary X-Men. il sequel di Hawkeye dopo i fasti della serie di Matt Fraction, le avventure di un anziano Wolverine dislocato temporalmente nel nostro tempo in Old Man Logan e la nuova serie di Moon Knight. Dopo aver parzialmente fallito nel raccogliere l’eredità di Fraction sulle pagine di Occhio Di Falco, la versione di Lemire del Cavaliere della Luna era attesa al varco, considerando il fatto che gli echi dell’apprezzatissima versione di Warren Ellis e Declan Shalvey, datata 2014, non si erano ancora spenti.

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Nel ciclo di Ellis, i problemi di salute mentale di Moon Knight sono stati definitivamente chiariti: Marc Spector è realmente un agente del dio egizio Khonshu, che esiste e non è un parto della sua psiche malata, e sfrutta le sue ingenti risorse economiche per proteggere i “viaggiatori notturni” da criminali e psicopatici. Come poteva Lemire succedere al guru britannico della macchina da scrivere, che aveva fornito una delle versioni più apprezzate del personaggio? La ricetta dell’autore canadese è semplice: ribaltare completamente il tavolo da gioco, restando fedele allo stesso tempo al canone del personaggio. Il tipico concetto made in Marvel di supereroe con super-problemi viene qui portato alle estreme conseguenze, perché il super-problema è di natura psichiatrica. In apertura di volume vediamo infatti il buon Marc Spector risvegliarsi in un centro di igiene mentale, di cui è ospite suo malgrado. Folle tra i folli, la sua situazione ricorda quella di Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Con la differenza che se quest’ultimo aveva solamente cercato una via di fuga ad un aaltrimenti inevitabile spedizione in Vietnam, Spector dubita di quello che si muove davanti ai suoi occhi e di quello che si agita nei suoi pensieri. Medici ed infermieri sostegno che la sua carriera come Moon Knight è frutto della sua psiche malata, così come le innumerevoli avventure dal lui vissute. Ma di notte, la voce di Khonshu chiama ancora a sé il suo figlio prediletto, per avvertirlo di una minaccia incombente. Riuscirà Marc Spector a distinguere la verità dalla pazzia, affrontando allo stesso tempo un’antica piaga che sta per abbattersi sulla città di New York?

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Narratore di rara finezza psicologica, Jeff Lemire mette la sua arte al servizio del più tormentato degli eroi Marvel, accompagnandoci in un labirinto di ambiguità e follia dal quale non sembra esistere salvezza. L’autore di Sweet Tooth eccelle nel costruire una situazione di straniamento dove niente è come sembra e tutto quello che pensavamo di sapere potrebbe rivelarsi sbagliato: le premesse alla base della mitologia di Moon Knight vengono prese e portate alle estreme conseguenze, consegnandoci così un eroe fragile che deve agire nonostante sia privato di ogni certezza.

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La discesa agli inferi di Marc Spector ordita da Lemire viene visualizzata con sbalorditivo talento visivo da Greg Smallwood, che con questo lavoro lascerà probabilmente lo status di “promessa” per  quello di  “rivelazione dell’anno”. Una crescita esponenziale rispetto ai primi lavori su testate antologiche come A+X, che lascia di stucco per la padronanza dello storytelling e la versatilità del tratto, sporco nelle sequenze oniriche dove omaggia senza timori riverenziali l’immenso Bill Sienkiewicz (che proprio su Moon Knight si fece le ossa), mentre cesella tavole minuziosamente dettagliate nelle scene del sanatorio, dove sciorina una composizione della tavola classica e originale allo stesso tempo. Sicuro del proprio talento, Smallwood si concede anche una citazione dei Nighthawks di Edward Hopper, con la Tavola Calda che sembra emergere da una tempesta di sabbia come in un sogno. Completamento ideale al tratto dell’illustratore sono i colori di Jordie Bellaire, ormai certezza assoluta del settore, che con la sensibilità unica della sua palette conferisce stati d’animo diversi a seconda del momento, con colori più slavati all’interno del manicomio e caldi nelle scene d’azione, apporto cromatico fondamentale in una storia in cui il colore si fa paesaggio dell’anima.

Il team creativo riesce nell’intento di allontanarsi dai cliché della classica ed abusata storia di supereroi, costruendo un thriller psicologico che ricorda classici del genere come Il Corridoio della Paura e L’Esercito delle 12 Scimmie. Un debutto solido ed intenso che fa ben sperare per il prosieguo della serie e fa attendere l'uscita del secondo volume con una certa impazienza.

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La Visione 1 – Un po’ peggio di un uomo

Per leggere l'intervista a Gabriel Hernandez Walta, clicca qui.

Visione è un personaggio che ormai popola i fumetti della Marvel Comics da una cinquantina d’anni quasi, presente nelle diverse formazioni dei Vendicatori e in prima linea nella lotta contro i principali villain del MU: per ben 37 volte ha partecipato alla salvezza della Terra da pericolose minacce globali. Un sintezoide creato da Ultron, un umanoide con una struttura artificiale, sintetica, che spesso risulta più umano degli altri eroi dell’universo narrativo della Casa delle Idee, e questo prevalentemente perché la sua natura ibrida lo spaventa, non gli conferisce certezze soprattutto a livello psicologico. Visione ama, odia, soffre, prova pienamente l’intera gamma di sensazioni e sentimenti umani, ha avuto una moglie, ha dato vita ad una famiglia e a dei figli, ha perso tutto, e ora sta cercando di ricostruire la sua esistenza. Ma per farlo ha dovuto sacrificare le proprie emozioni, resettare il proprio cuore per non essere vittima delle terribili allucinazioni che lo tormentavano, eliminando parte di ciò che lo rendeva un umano tra gli umani.

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Ora Visione si è creato (letteralmente) un nuovo nucleo familiare, una moglie Virginia, e due gemelli di sesso opposto, Vin e Viv, e ha deciso di trasferirsi al 616 di Hickory Branch Lane, Virginia, Stati Uniti. Un nuovo lavoro, nuove amicizie, nuove parentele e una nuova casa: i Visione sono pronti per fare il loro ingresso nel mondo. Ma come verranno accolti dai vicini, dagli altri abitanti del quartiere? Come si relazioneranno con il resto dell’umanità? Questo non ve lo sveliamo, anche perché è proprio il punto cruciale dell’intera serie creata in modo eccellente da Tom King sugli splendidi disegni di Gabriel Hernandez Walta. Perché Vision, questo il titolo originale dell’opera pubblicata da Panini Comics, è un piccolo capolavoro a fumetti, uno slice of life pungente e sofisticato che non può passare inosservato: un meraviglioso ed inquietante affresco di una famiglia (tutt’altro che) modello in un pacifico (ma non troppo) quartiere di villette a schiera tipico dell’immaginario americano a cui siamo abituati.

King realizza una sceneggiatura di carattere, che si prende il suo tempo per districarsi, procedendo solo apparentemente in modo lento e pacato, alternando tavole descrittive, statiche e panoramiche, narrativamente parlando, a rampe di tensione e sconvolgimenti atroci nella loro brutalità, nella loro schiettezza, senza mai fuoriuscire da un contesto familiare, di vita quotidiana, che viene sempre mantenuto costante, sempre presente e pressante, dilatandolo e deformandolo all’inverosimile, incrinandolo pesantemente, ma mantenendosi sempre all’interno dei suoi confini, anche in modo stonato. Ma è questo l’effetto che King vuole ottenere: mostrare come dietro alla facciata di un modello, di una perfezione lucidata per l’esposizione, per essere martoriata, commentata e invidiata dal resto del vicinato, vi sia invece un mondo pieno di paure, angosce, incapacità relazionali, incomprensioni, errori, antipatie, violenza e si, anche omicidi.

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I dialoghi propongono, poi, interessanti spunti di riflessione, pesando saggiamente i termini e le parole adottate, creando dibattiti filosofico-esistenziali che vi terranno occupati. Inoltre, vengono gettati  con nonchalance particolari sconcertanti di vicende future della trama, solo per spiazzare ulteriormente il lettore. Spesso, in alcune scene, due o più narrazioni viaggiano su piani diversi, aumentando la confusione mentale e cercando di evocare nel lettore le medesime sensazioni e i medesimi pensieri che possono fluire nella mente dei personaggi in tensione per via delle circostanze in cui agiscono. Perché in questa serie nulla è prevedibile, nulla è come sembra, e i primi a pagarne le conseguenze sarete proprio voi lettori.

Sul versante grafico, Walta traduce in meraviglia visiva quanto previsto in sceneggiatura da King. La follia e l’imprevedibilità narrative fanno da perfetto contrasto all’impaginazione spesso statica, tradizionale e rigida del layout, che si alterna a tavole illustrative di una potenza artistica allibente e scioccante. Nelle vignette troviamo spesso scene crude, violente, che minano strutturalmente quanto fatto nel fumetto mainstream negli ultimi anni. Il lavoro svolto da Walta sulle micro-espressioni, sull’incertezza che si cela nei volti dei personaggi, sull’incapacità di comprendere a priori le idee e le intenzioni dei protagonisti, sono perfette per rendere il comportamento di androidi che cercano di emulare la natura umana, di confarsi all’attuazione di una facciata che mima l’idea di perfezione da rivista patinata, da catalogo espositivo, quando invece la vera umanità sta nelle tribolazioni interne, psicologiche, comportamentali e emotive che vengono celate agli occhi degli altri, tranne a quelli del lettore. Splendida anche la colorazione autunnale, globalmente fredda ma con mirate punte di colore di un calore espressivo sensazionale, attuata da Jordie Bellaire, che deborda dai contorni definiti dalle matite di Walta, uscendo anche dalle cornici delle vignette, aumentando ancora di più il senso di sgretolamento dell’immagine, di incertezza.

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Questa serie è una delle più belle produzioni targate Marvel dell’ultimo decennio, quantomeno. Una storia forte, densa e veramente coinvolgente, che vi terrà in uno stato di tensione emotiva anche quando avrete finito di leggerla. Non lasciatevela sfuggire per alcun motivo, ne rimarrete affascinati, e non vedrete l'ora di avere tra le mani il prossimo volume, considerato come termina il sesto capitolo contenuto in quello attuale. Edizione Panini nell’ormai classico cartonato morbido che non smetteremo mai di lodare.

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