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Captain America - Brave New World, recensione

  • Pubblicato in Screen

Compito ingrato quello di Anthony Mackie. Sostituire Chris Evans nei cuori dei fan come nuovo Captain America sarebbe stata un’impresa complicata a prescindere dalla sua performance. Senza considerare l’inevitabile disaffezione del pubblico più generalista di fronte al quarto capitolo di un character che sembrava aver già detto tutto quello che aveva da dire. E se negli USA il film potrà probabilmente contare sul supporto della comunità afroamericana (che ha già permesso alle due – non certo memorabili – pellicole dedicate a Black Panther di ottenere eccellenti risultati al botteghino), la reazione degli spettatori del resto del mondo resta difficilmente prevedibile.

Ancora meno semplice è capire quanto le varie traversie affrontate dalla produzione influiranno sulla risposta del pubblico, dato che alcune polemiche montate durante la lavorazione del film sembrano tutt’altro che sopite. Ricordiamo, per esempio, che il sottotitolo del lungometraggio avrebbe dovuto essere New World Order (sicuramente più in linea con l’apparente impianto cospirazionista della trama), poi cambiato in corsa in Brave New World, ufficialmente per trasmettere l’ottimismo derivante dall’esordio di un nuovo Captain America, più probabilmente per evitare potenziali accuse di antisemitismo (l’idea che il popolo ebraico agisca nell’ombra attraverso fantomatiche organizzazioni segrete per arrivare a un Nuovo Ordine Mondiale è ancora oggi una tesi agitata in varie parti del mondo da gruppi complottisti di estrema destra o legati al fondamentalismo islamico). Paradossalmente, però, sono state proprio le critiche in senso opposto a far decidere ai Marvel Studios di rivisitare il personaggio di Sabra, dopo che la conferma della sua presenza nella pellicola aveva generato le proteste di alcune associazioni filopalestinesi. Sabra, infatti, nei fumetti è una mutante che lavora per il Mossad (la più nota agenzia di intelligence israeliana), ma nel film è diventata una ex vedova nera al servizio del governo americano, che non usa alcun alter ego supereroistico (viene sempre chiamata Ruth Bat-Seraph, il suo nome da “civile”). Aggiungiamo, inoltre, che le notizie di continui ritorni sul set nel corso del 2024 per rigirare intere sequenze, come risultato della pessima accoglienza del primo montaggio nelle proiezioni pilota, hanno accresciuto il timore di essere prossimi a un nuovo flop del Marvel Cinematic Universe, dopo il brutto capitombolo di Marvels. E benché sia le polemiche che le vicissitudini produttive siano argomenti che interessano maggiormente gli assidui frequentatori del web e molto meno la maggior parte degli spettatori - cioè coloro che nella realtà determineranno il successo della pellicola – è innegabile che l’atmosfera che si respirava in sala durante l’anteprima per la stampa sembrava prefigurare il classico disastro annunciato.

Basse aspettative che, forse, ci hanno permesso di affrontare la visione con una mente più aperta e di cogliere pregi del film (non molti, detto francamente) che altrimenti non avremmo nemmeno preso in considerazione. Di questi aspetti positivi la buona qualità delle principali scene d’azione è probabilmente quello di maggior rilevanza. E se l’atteso scontro tra Captain America e l’Hulk Rosso, oltre che ben girato, ha permesso agli autori di omaggiare scopertamente alcuni classici cinematografici del passato, noi abbiamo trovato più coinvolgente la lunga battaglia in volo, che occupa buona parte della fase centrale della pellicola. Poi, ci preme sottolineare un aspetto a prima vista secondario, ma, al contrario, determinante a comprendere perché, nonostante diversi passi falsi, il Marvel Cinematic Universe, in oltre quindici anni, non abbia mai avuto bisogno di un reset. In effetti, fin dall’uscita di Iron Man nel 2008, Kevin Feige e i suoi collaboratori sono stati attenti a preservare la continuity interna dell’universo cinematografico della Casa delle Idee, a dispetto di una complessità sempre crescente e delle numerosissime propaggini originatesi dalle saghe principali.

Quindi, ecco che in Brave New World assistiamo – con notevole coerenza - al ripescaggio di temi e personaggi, provenienti non solo dalla serie televisiva Falcon e Winter Soldier (di cui questo quarto Captain America può considerarsi il seguito), ma anche dall’unico (e ormai lontano nel tempo) lungometraggio dedicato a Hulk (a meno di future sorprese – sempre possibili quando c’è di mezzo un multiverso – il film di Ang Lee non fa parte del MCU) e da quello con protagonisti gli Eterni. Richiami che aiutano a non far mai precipitare la qualità dell’opera sotto il livello di guardia e – ancora più importante - a spingere i neofiti a scoprire ciò che è venuto prima.
Infine, una menzione speciale la meritano gli attori, parecchi dei quali davvero in parte. A partire da Danny Ramirez, molto bravo a caratterizzare il suo Falcon come un giovane eroe irruento e desideroso di mettersi in mostra, e dall’inossidabile Harrison Ford, a cui non sembrano proprio pesare i quasi ottantatré anni d’età.
Molto buone anche le prove di Giancarlo Esposito, che infonde il giusto carisma in Sidewinder e di Tim Blake Nelson, un inquietante Samuel Sterns (personaggio che nei fumetti è più noto come il Capo).

Abbiamo lasciato per ultimo Anthony Mackie, perché, pur con tutte le attenuanti del caso, dobbiamo riconoscere che il ruolo di Captain America non gli si addice granché. Quasi consapevoli di questo, gli autori hanno fatto in modo che i dubbi di Sam Wilson sull’essere all’altezza di Steve Rogers emergessero chiaramente. Tuttavia, questo atteggiamento un po’ dimesso da parte del personaggio, rappresenta sicuramente uno dei punti deboli del film. 
In realtà, ci sarebbe da parlare anche di Shira Haas - che interpreta la Ruth Bat-Seraph di cui dicevamo all’inizio -, attrice di indiscutibile valore (alcuni probabilmente la ricorderanno come protagonista della miniserie di Netflix Unorthodox), che ci mette tutto l’impegno possibile per sembrare credibile nei panni di un ex allieva della Stanza Rossa. Ciononostante, essendo, purtroppo, sprovvista del necessario physique du rôle, il suo inserimento - alquanto forzato - nella trama porta inevitabilmente a chiedersi cosa sia passato per la mente degli addetti al casting quando hanno deciso di affidarle la parte.

A ogni modo, non vogliamo soffermarci più di tanto sugli aspetti negativi del film, benché, sfortunatamente, risultino determinanti a oscurare in maniera significativa le cose buone appena descritte. La sceneggiatura in particolare, che non brilla assolutamente di originalità, a cominciare dalla scena d’apertura, quasi una copia di quelle già viste in Winter Soldier e Civil War e soprattutto incapace di valorizzare i villain interpretati da Esposito e Nelson, che dopo uno spunto iniziale interessante, diventano protagonisti di un complotto dalle motivazioni e dagli esiti risibili. È probabile che un risultato così insoddisfacente sia dipeso dai vari rimaneggiamenti subiti dalla pellicola, ma questi non possono di sicuro essere considerati una scusante, semmai l’esatto contrario. Anche la regia di Julius Onah non può certo definirsi impeccabile, dato che i passaggi più “movimentati” non sono quasi mai bilanciati da pause riflessive all’altezza, essendo queste spesso prive del giusto ritmo e afflitte da una dilatazione narrativa eccessiva.
In conclusione, possiamo affermare che Captain America – Brave New World non è quella catastrofe produttiva che in molti paventavano, ma neppure il film in grado di risollevare definitivamente le sorti dei Marvel Studios, dopo l’exploit di Deadpool & Wolverine dell’estate scorsa.

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Drama Queen: uno scoppiettante esordio fra tante polemiche

  • Pubblicato in Focus

Nelle ultime settimane, il Giappone è stato investito da tonnellate di critiche e disappunto da parte di un nuovo manga approdato sulle pagine online di Shonen Jump Plus, rivista settimanale che ospita le nuove opere degli autori nipponici con traduzione ufficiale.
Stiamo parlando di Drama Queen, manga esordiente di Kuraku Ichikawa, attivo già da alcuni anni ma solo con one shot di breve durata, e che a dicembre ha iniziato la pubblicazione del suo primo manga seriale.
Già dai primi capitoli, quest’opera è stata investita di una valanga di polemiche e indignazione, venendo accusata di sostenere il capitalismo, fomentare il razzismo, di promuovere l’imperialismo, e inserire il fenomeno del cannibalismo su una rivista dedicata ai ragazzi. Dall’altro lato, alcune persone pensano che non necessariamente si rafforzino stereotipi negativi sugli immigrati, ma che sia semplicemente una critica puramente satirica su una ideologia che il Giappone porta avanti già da anni: il Gaijin, il timore dello straniero. Al momento, comunque, è presto per dare un giudizio sulla questione, ma tendiamo a dare il beneficio del dubbio e a considerare l'opera come una denuncia sociale.

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La storia ci porta in un Giappone attuale ed alternativo in cui, nove anni prima, gli alieni hanno salvato il mondo dalla minaccia di un profondo asteroide che stava per annientare la terra. I giapponesi, grati e contenti di aver salvato il pianeta, celebrano ogni anno una festa nazionale che gli ricorda l’evento tramite slogan, programmi televisivi e feste di tutto punto.
Non tutti sono contenti però, una tra questi, la protagonista femminile Nomamoto e il suo migliore amico, Kitami. I due sono giovanissimi ragazzi, che lavorano per una paga misera e soffrono continuamente la fame, venendo sfruttati da quelle persone che tutti ringraziano, e che vivono ormai a contatto con loro da anni, ossia gli alieni che li hanno salvati.  Essi, non solo vivono perfettamente integrati nella società, ma ne sono anche ai vertici, possiedono società, palazzi e aziende in cui i due protagonisti lavorano.

Il sentimento di odio profondo che Nomamoto cova ogni giorno, le fa stare stretta la società in cui vive, che favorisce gli alieni ma che non le permette nemmeno di mangiare. In una profonda denuncia al mondo del lavoro, la protagonista si lamenta che già a 17 anni è vecchia per avere skill lavorative da presentare e che il suo capo non parli nemmeno la lingua. Allo stesso modo, Kitami, che fa il fattorino, soffre per il fatto che la sua famiglia sia stata uccisa da un incidente stradale, e che la colpa sia di un alieno mai identificato dalla polizia. Per mostrare quanto gli alieni vengano privilegiati, Kitami pensa addirittura che la polizia abbia insabbiato tutto volontariamente.

Inoltre l’autore ci spiega che molta gente in realtà cova un misterioso malcontento, ma che non ne parla per la paura, ed eliminandoli fisicamente verrebbero subito scoperti, dato che i loro corpi generano una sostanza maleodorante che si sente sia sottoterra che in acqua.
È così che i due amici siglano un patto: Kiseki li ucciderà furtivamente, (con un martello per la precisione) e Nomamoto li mangerà, soddisfacendo il suo appetito da un lato, e potendo eliminare gli alieni una volta per tutte almeno dalla sua città, senza farsi scoprire dall’altro.
L’autore ci mette a confronto con il pensiero di Kitami, che si deresponsabilizza dalla sua etica affermando che gli alieni possono essere uccisi se non li consideriamo come esseri umani.

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Un inizio incredibile già dal primo capitolo, che ricorda molto l’incipit di Tatsuki Fujimoto in Chainsaw Man. Come Denji, cosi anche Nomamoto cercava un modo per fare soldi e sopravvivere per pagare i debiti del padre, accettando soprusi e delusioni di una società che li ha messi al margine.
Anche lo stile di disegno, bisogna dire che lo ricorda molto, con primi piani ed espressioni divertenti, che giocano su sfondi molto puliti e contrasti nelle tavole molto carichi. Le splash page, liberatorie e cinematografiche, ci trasmettono una passione e una spensieratezza di due giovani ragazzi giapponesi stanchi dell’omertà della gente che da un lato ringrazia i loro salvatori, ma dall’altra paga il prezzo di questa integrazione. L’autore indugia spesso sul cielo, con tavole scure che mostrano le scie dei veicoli degli alieni, che Nomamoto guarda con una velata tristezza e rassegnazione.
Le tavole slice of life, e le fattezze stesse degli alieni ricordando anche in parte il lavoro di Inio Asano, con gli alieni rappresentati in fattezze molto buffe ed antropomorfe.

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Drama Queen è disponibile gratuitamente su shonen Jump plus dal primo dicembre 2024, esce settimanalmente ogni domenica, e ad oggi resta in cima alle classifiche dei titoli esordienti più letti. 

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G.O.D.S., recensione: la cosmogonia Marvel secondo Jonathan Hickman

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Scegliere di recensire l’ennesima serie ideata da Jonathan Hickman, pur consapevoli che negli USA non mancano le novità a fumetti meritevoli di un articolo di approfondimento, vuol dire rischiare di andare incontro a una pioggia di critiche da parte di chi – comprensibilmente - preferirebbe vederci scrivere d’altro. Tuttavia, è davvero possibile far finta di niente di fronte a un’opera imperfetta ma affascinante come G.O.D.S. (senza considerare le ambizioni dietro al progetto, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto addirittura condurre a una riscrittura della cosmogonia della Marvel)?

La risposta sembra scontata, eppure a ogni nuovo lavoro del cartoonist del South Carolina, i social e i blog di settore non perdono occasione di ospitare qualche commento negativo nei suoi confronti. C’è chi mal digerisce la sua narrazione troppo articolata e complessa. Chi trova insopportabile il suo continuo ricorrere alle infografiche (che, a onor del vero, si sono diffuse come un virus letale su varie testate della Casa delle Idee, a prescindere dalla loro reale utilità). O ancora, chi non gradisce la sua tendenza a introdurre personaggi mai visti prima, che finiscono spesso per rubare la scena ai protagonisti, per poi sparire dalla circolazione, appena passata la mano ad altri autori.
Rimproveri non del tutto campati in aria, sia chiaro, a cui aggiungiamo anche l’apparente insofferenza a lavorare su character dalla continuity molto rigida con i quali, a volte, Hickman non riesce a sfruttare appieno la sua enorme creatività (un limite - se così lo vogliamo chiamare – che potrebbe essere la motivazione che lo ha spinto ad accettare di diventare il deus ex machina del nuovo Universo Ultimate). Ciò non toglie, però, che se è ancora possibile scrivere qualcosa di buono di quello che la Marvel ha prodotto di recente, lo si deve in gran parte proprio al nostro Jonathan. Con un avvertimento: se chi ci sta leggendo, pensa di rientrare tra i “detrattori” elencati sopra, è bene che stia alla larga da G.O.D.S., dato che la miniserie in questione è – assieme a Decorum - quanto di più hickmaniano si sia visto negli ultimi anni. Pure riassumerne la storia è un’impresa decisamente complicata, nella consapevolezza che poche righe saranno giusto sufficienti a delineare in maniera approssimativa i protagonisti della vicenda e a fornire solo qualche informazione di base sugli eventi raccontati.

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A ogni modo, per farla breve, scopriamo che dopo una guerra durata eoni tra le Autorità Superiori (traduzione un po’ libera dell’originale The-Powers-That-Be) e l’Ordine Naturale delle Cose, due entità astrali che incarnano rispettivamente magia e scienza, l’accordo che ne è seguito ha sancito che entrambe potessero continuare ad agire sulla Terra esclusivamente tramite i propri servitori. Quello delle Autorità Superiori viene denominato Avatar, mentre per l’Ordine Naturale delle Cose opera un’intera organizzazione, il Centum, i cui membri vengono chiamati centivar. La fragile tregua ha retto fino ai giorni nostri, ma rischia di terminare a causa del matrimonio tra Wyn, l’attuale Avatar, e Aiko Maki, destinata a diventare il novantasettesimo centivar. Costei decide, inevitabilmente, di separarsi dal marito, sebbene i due, in considerazione del loro ruolo, non potranno fare a meno di incontrarsi nelle varie crisi cosmiche (tra cui l’evento Babilonia, che dà il via alla vicenda, in procinto di essere scatenato dal proto mago Cubisk Core) che mirano a compromettere la realtà per come la conosciamo.

Confusi? È probabile. E se già le premesse non incoraggiavano alla lettura, temiamo che, dopo questo scampolo di trama, anziché aumentare la curiosità verso la miniserie potremmo aver ottenuto il risultato opposto, facendo desistere anche i più temerari nell’avventurarsi alla scoperta del mondo di Wyn e soci (che – credeteci – non sono pochi!). All’inizio, oltretutto, abbiamo descritto G.O.D.S. come un’opera imperfetta e in effetti non si può negare che per gran parte degli episodi la storia sembri girare a vuoto e che i legami con il Marvel Universe tradizionale siano piuttosto labili - cosa che, verosimilmente, allontanerà i fan di lungo corso dell’editore newyorkese (le vendite non esaltanti, registrate fin dalla prima uscita, parrebbero proprio dimostrare questa ipotesi). Oppure che di parecchi personaggi non si apprenda quasi nulla, rendendo alquanto difficile entrare in empatia con essi e che siano ancora numerosi i particolari che ci sono stati celati (non ci viene nemmeno rivelato il significato dell’acronimo – o meglio “word puzzle”, come specificato da Hickman stesso in alcune interviste - che dà il titolo alla miniserie). Ciononostante, la capacità con cui lo sceneggiatore americano, partendo da pochi spunti e da qualche concetto noto anche ai frequentatori occasionali della Casa delle Idee, riesce a plasmare interi piani dimensionali, nuove realtà e scenari inesplorati, è a dir poco impressionante.

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Quello che maggiormente colpisce è la notevole coerenza con cui il tutto sembra procedere, a dispetto dei molti punti oscuri, e una solidità narrativa che non vacilla neppure quando Hickman si concede il vezzo di ripescare alcune sue creazioni passate, che – come detto sopra – dopo di lui erano praticamente finite nell’oblio (ricompaiono, per esempio, i Cigni Neri, visti per la prima volta durante la sua gestione degli Avengers). Come se ciò non bastasse, l’autore di Infinity e Secret Wars impreziosisce il racconto con dialoghi ammalianti e una prosa che ricorda, a tratti, quella del Neil Gaiman dei tempi migliori. Tanto che il numero più riuscito della miniserie, il sesto (in cui Aiko, per rimediare a un suo errore, chiede aiuto all’enigmatico Leone dei Lupi), non sfigurerebbe affatto accanto a qualche celebre capitolo di Sandman (il fumetto era stato effettivamente presentato come la versione marvelliana della collana dedicata a Morfeo, ma – esclusi alcuni passaggi sicuramente ascrivibili al fantasy o a uno dei suoi sottogeneri, tra cui proprio l’episodio appena citato – a predominare è il supereroismo fantascientifico e non il favolismo mistico/filosofico delle storie del Signore dei Sogni). Persino la cripticità della trama e degli avvenimenti descritti (confessiamo che ancora non abbiamo capito cosa sia esattamente l’evento Babilonia prima menzionato), invece che rappresentare un ostacolo, diventano uno stimolo a proseguire la lettura. Per di più, l’impiego indiscriminato di cambi di prospettiva di vario tipo, in apparente discontinuità con la vicenda principale e di frequenti digressioni nello spazio e nel tempo – che hanno l’evidente scopo di disorientare il lettore, affinché non riesca a mettere subito a fuoco tutti gli indizi relativi ai diversi protagonisti – produce la chiara sensazione di avere di fronte un maestoso affresco, ben lontano dall’essere rivelato per intero. Hickman, infine, lascia pure largo spazio al sentimentalismo, cosa abbastanza inusuale per lui, benché necessario a costruire una metafora molto originale dell’impossibilità di convivenza tra magia e scienza.

Suggestioni e personaggi immaginifici che, per prendere forma, non potevano trovare un disegnatore migliore di Valerio Schiti. Il cartoonist romano ha raggiunto una maturità artistica tale, da essere ormai ritenuto una garanzia dai vertici della Casa delle Idee. Non è un caso che egli venga ripetutamente preso in considerazione in occasione di grandi eventi (Empyre e A.X.E.: Judgement Day, giusto per citarne un paio) e Schiti, anche - e principalmente - in G.O.D.S. ripaga questa fiducia con tavole spettacolari e un character design di altissimo livello, che arriva pure a ridefinire alcuni storici comprimari dell’Universo Marvel (su tutti, il Tribunale Vivente). Per quanto Stuart Immonen sia tuttora il suo nume tutelare, il suo stile sta gradualmente evolvendo verso nuove direzioni, senza, però, rinnegare la morbidezza e l’eleganza del tratto, la perfezione delle anatomie e l’espressività dei volti. I progressi maggiormente evidenti sono nello storytelling – sempre più efficace - e nella composizione delle vignette (magnificate, oltretutto, dagli splendidi colori di Marte Gracia, con cui il fumettista capitolino pare quasi aver costituito una coppia artistica di fatto), che aiutano in maniera determinante a evitare che i testi di Hickman scadano nella didascalia.

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Alla fine, comunque, la domanda che dobbiamo porci è: vedremo mai un seguito di G.O.D.S.? Difficile a dirsi, anche guardando ai dati di vendita a cui abbiamo accennato in precedenza. Da orfani della versione esoterica dello S.H.I.E.L.D. – primo magistrale tentativo di Hickman di uscire dai canoni marvelliani di cui, purtroppo, sembrano essersi perse le tracce – ci viene spontaneo fare gli scongiuri. Tuttavia, sarebbe francamente inconcepibile chiudere l’operazione così presto dopo aver profuso tanto impegno nel promuoverla (si pensi, in particolare, alle tavole introduttive comparse in fondo alle testate dei personaggi principali della casa editrice, qualche mese prima dell’uscita della miniserie o la presentazione di quest’ultima già durante il San Diego Comicon del 2022). Inoltre, ci viene pure il sospetto che G.O.D.S. sia l’oggetto di scambio chiesto dallo sceneggiatore alla Marvel, per apporre la sua firma su opere più mainstream (come l’imminente Aliens vs. Avengers). Se così fosse, dovremmo solo armarci di pazienza e aspettare che Hickman concluda i non pochi lavori in corso e i progetti annunciati nelle ultime settimane. Sappiamo, tra l’altro, che ci sarà lui dietro Imperial, uno dei maxi eventi della Casa delle Idee del 2025 e, benché al momento non si conosca nulla della trama, tutto lascia presagire che si tratti di una saga di grandi proporzioni. Che possa anche trovare il tempo di regalarci a breve una nuova scorribanda tra centivar e avatar è onestamente alquanto improbabile. Cionondimeno, è pur vero che stiamo parlando di un autore che in passato ha mostrato di poter gestire più serie contemporaneamente senza perdere in qualità di scrittura. Che riesca a sorprenderci ancora una volta?

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