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L’opera di Gipi è un fumetto, un graphic novel. Eppure è altro. Forse anche perché esce dalla percezione comune di graphic novel, quella stessa percezione a mio avviso sbagliata che tuttavia non impedisce alla gente di scrivere fenomenologie del romanzo grafico.

Si ha come l’impressione che il graphic novel stia subendo - e in parte abbia già subito - il processo che subisce di continuo l’animazione. Perché sono entrambe creature bastarde, fondate sull’illustrazione, ma poi declinate col cinema da una parte e con la letteratura dall’altra. L’animazione, come il graphic novel, non è un colore con cui dipingere sempre uguale a stesso, vincolante e costrittivo; al contrario, sono mezzi con cui esprimersi, lo scarto è formale, non di sostanza. Alcune strutture, alcune modalità, riescono meglio a uno piuttosto che l’altro, la storia di un divorzio funziona di più in un film dal vivo che non a cartoni, ma ciò non vuole dire che non lo si possa raccontare con quest’ultimo mezzo. L’animazione non è un genere cinematografico che racconta solo storie di alberi parlanti e fatine dei denti. Con l’animazione posso realizzare film di genere, noir, commedie, porno. Lo stesso dicasi del graphic novel. Si parla di graphic novel come genere che è riuscito a innestare nel romanzo linguaggi e strutture del fumetto ma appare evidente come già di per sé il fumetto sia letteratura che si legittimizza senza dover per forza prendere in prestito gli strumenti del novel. L’errore che viene commesso è di scambiare per spie contenutistiche invece che formali determinate convenzioni del mezzo. Il graphic novel è un genere solo nella stessa accezione di “genere” propria del romanzo (forma più lunga, individualizzazione della storia rispetto a una indistinta coralità appartenente all’epica, scenario di crisi e rinascita) e questo perimetro è ampio abbastanza per far pascolare bestie diverse per istinti e dieta. Si tende infatti a cercare stilemi comuni al graphic novel, trattandolo da sottogenere, quando in realtà più di una primordiale idea di romanzo non dovrebbe avere e spesso nemmeno ha. Ci sono romanzi di bassa lega e romanzi scritti bene. Non è che adesso i romanzi alti, considerati “di letteratura”, li chiamiamo “quadri a parole” o “esperienze letterarie”.

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Pur restando nell’ambito ristretto - nel senso quantitativo del termine - dell’opera gipiana, Questa è la stanza è tanto fumetto quanto Unastoria eppure sembrano a stento figli dello stesso padre, per contenuti e temi (la delicatezza dello sforzo continuo a cercare un’umanità migliore del primo contro la desolazione interiore di fronte al non potere recepire il Bello che sta attorno – o di recepirlo a costo di accettare il Brutto). Li accomuna il fatto di essere dello stesso autore. E di essere fumetti. Risulta quindi superfluo tentare di incasellare e mettere paletti di sorta a un mezzo che è ibrido e come tale può permettersi il lusso di tenere il piede in più scarpe. Bypassando il problema e andando in giro a piedi scalzi, Unastoria si interessa poco alla querelle e non fa che scardinare le aspettative a ogni pagina, nella sua granulosa consistenza da pellicola filmica, come fosse un rumore che assorda il lettore nelle sue parti più quiete.

Il fumetto di Gipi parla dell’uomo e della natura, finendo per essere dominato da quella stessa logica di dualità che governa la vita; se si vuole trascendere dalla realtà mondana l’uomo deve fuoriuscire dallo schema dicotomico e piantarsi in una dimensione dove gli opposti coincidano, situazione paradossale per la mente umana che rischia di destabilizzarla. Gipi lo fa fin da subito, con il giovane che si scopre vecchio, con le vedute contemplative della natura per frenare il lettore mentre la contessa chiede un modo per velocizzare la guerra, perché tutto deve andare più veloce, e lo fa fino alla fine, con l’immagine di un interno rurale a cui appiccica la didascalia “Ed uscirò”. E nel mezzo c’è tutto il resto, un lungo processo di risemantizzazione preteso dalla modernità, una modernità intesa non come cornice temporale, ma come atteggiamento di tensione verso l’esterno; la modernità esige il cambiamento perché ha deprivato il repertorio di segni della dimensione sacra, ha costretto all’insulto, alla volgarità chiunque lo circondasse, e questi topoi sono degradati e assunti a materiali di racconto. Quello stesso racconto che sarebbe un semplice mito svuotato di tutto (il capitolo “Niente”), ma che grazie alla letteratura ritorna materia narrativa, necessaria affinché l’uomo possa confrontarsi con la sua finitudine. Quindi, prima l’albero, locus consacratus per eccellenza, ove si manifesta il meraviglioso, generatore di vita, conoscenza, non è più nulla di ciò, è indifferente rispetto all’omicidio che viene perpetrato, è il nemico, il combattente della partita a tennis; e poi le armi create dall’uomo (la pillola di Bituprozan, la mitragliatrice Maschinengewehr, la penna), armi che dovrebbero salvarci, si rivelano invece artefici della nostra rovina, della caduta.

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Nel dipingere questo affresco, Gipi recupera un lessico essenziale, ritmico e suggestivo, una sintassi franta, dove tutto è da raccogliere e rimettere insieme, nel tentativo di trovare un cuore, un nucleo a cui abbarbicarsi, una casa a cui fare ritorno. Lo fa tanto con il testo quanto coi i disegni, figli impasticcati di Tavor di Turner e Hopper: da una parte il grande spazio dedicato al paesaggio, un paesaggio che gioca sul cromatismo e sull’indeterminatezza delle forme, dove le luci delle auto si mescolano all’asfalto in un’unica scia di luce, dall’altra il senso hopperiano di solitudine urbana e di gioco con gli spazi inumani (la stazione di servizio è una delle icone statunitensi meglio rappresentate dal pittore newyorkese).
Per quanto Unastoria mostri un Gipi mai quanto prima abile con i pennelli, la sua ultima fatica è avvolta nella scrittura, una scrittura come comunicazione, come ultimo aggancio alla sanità mentale (e, non a caso, Landi è in crisi per un blocco dello scrittore), ma anche come forma di controllo sulla vita, quasi fosse il desiderio realizzato di essere editor della propria esistenza.
In questo senso, volendo scorgere echi al passato si potrebbe guardare alla leopardiana La ginestra che più di tutte le poesie del poeta marchigiano ha portato avanti il discorso complesso sulla Natura e sulla solidarietà umana: la Natura che circonda entrambe le opere è madre indifferente, per questo crudele, e nemico comune contro cui fare gruppo. E allo stesso tempo è bella nella sua potenza e vitalità. La schizofrenia sta in questo: l’uomo non riesce ad apprezzare tanta bellezza per le brutture che ha in sé e sembrerebbe desiderare che non esistesse, che non fosse così bella, per non dover far fronte a un confronto che non può sostenere. Eppure, dove la natura viene a mancare - vedi l’albero secco, morto - anche l’uomo viene meno ai suoi principi, rendendo la prima condizione necessaria perché il secondo mantenga la caratteristica fondamentale della sua specie, l'umanità. Il cortocircuito sembra condurre a un progressivo spegnimento (il quarto capitolo “Niente” non ha l’immagine, il quinto nemmeno il titolo), a uno iato colmabile solo dall’accettazione di quelle stesse brutture: l’età che avanza da una parte, l’uccisione dall’altra. Morte, in entrambi i casi. Venirci a patti, attuare quel confronto con la propria finitudine alla base della letteratura, diventa allora la linea prospettica che conduce all’unico punto di fuga concesso, l’amore. Il sentimento d'affetto è forza vitale che viene legittimata dal suo opposto, il nulla, la morte. La dualità è completa, gli opposti sono tornati a coesistere sotto un'unica sfera di dominio, la perfezione. Una perfezione che non può più avere i connotati di un volto piano e liscio ma è scolpita nel tempo dagli scalpelli affilati dei sentimenti.

Dati del volume

  • Editore: Coconino Press
  • Autori: testi e disegnid i Gipi
  • Formato: brossurato, 21,5 x 29 cm, 126 pp., colori
  • Prezzo: 18€
  • Voto della redazione: 9
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