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Luca Tomassini

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Hellblazer: Ascesa e Caduta #1, recensione: il vecchio caro John Constantine

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Il 2020 appena trascorso, annus horribilis per gran parte dell’umanità, è stato prodigo di iniziative dedicate a John Costantine. Tra l’annuncio di un serial a lui dedicato dalla piattaforma di streaming Hbo Max, e il successo di critica dell’ottima, ma prematuramente cancellata, nuova iterazione di Hellblazer scritta da Simon Spurrier, non si può dire che lo stregone col trench se ne sia stato con le mani in mano. A smorzare la delusione dei fan per la chiusura della nuova testata dopo soli dodici numeri, è arrivata infine Hellblazer: Ascesa e caduta, miniserie di 3 numeri uscita per l’etichetta Black Label, linea editoriale dedicata ai prodotti della DC Comics pensati per un pubblico maturo. Scritta dall’astro nascente Tom Taylor per i disegni del veterano Darick Robertson, la mini pesca a piene mani nelle atmosfere tipiche delle avventure di Costantine, con l’ambizione di presentarlo ad un pubblico nuovo.

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Il desiderio di fornire un agevole punto d’ingresso ad eventuali nuovi lettori è evidente già dall’inizio della storia, che ripercorre la nascita traumatica di John Costantine, culminata con la morte della madre. John cresce con un padre alcoolista e, per evadere dalla squallida realtà domestica, sviluppa ben presto una fascinazione per l’occulto. È proprio durante un esperimento di magia, nel quale John coinvolge i suoi amici Billy e Aisha, che qualcosa va storto segnando irrimediabilmente l’infanzia del trio. Ed è a questo triste episodio ormai lontano nel tempo che, forse, è legata la strana catena di omicidi che sta funestando Londra ai giorni nostri. Un’inquietante serie di miliardari e personaggi politici in vista che cadono dal cielo sfracellandosi al suolo, tutti con ali d’angelo attaccate alla schiena. Toccherà ad Aisha, diventata ispettrice di polizia, indagare sulla bizzarra serie di delitti, aiutata da un John Costantine pronto, come sempre, ad emerge dall’ombra con la sigaretta accesa.

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In questa prima uscita di Hellblazer: Ascesa e Caduta, Tom Taylor dispone sul tavolo tutte le carte tipiche di quel mazzo che costituisce la quintessenza di una storia di John Costantine. Il carisma del protagonista innanzitutto, il superficiale, iconoclasta e sarcastico bastardo dal cuore tenero che tutti conosciamo, e poi la minaccia soprannaturale e la critica sociale spietata che è l’ingrediente principale di ogni storia di Hellblazer che si rispetti. L’obiettivo, piuttosto evidente, è quello di dare un vestito “mainstream” ad una serie e ad un personaggio che sono sempre stati considerati di nicchia, dotandolo  dei disegni di una star consolidata come Robertson, esaltati ulteriormente dal formato gigante della linea Black Label. Il difetto più grande di tutta l’operazione è il suo svolgimento a tratti pedissequo e didascalico, che potrebbe offrire un non indifferente senso di déjà vu ai lettori di vecchia data. Quelli nuovi, invece, non mancheranno di essere catturati dalla irresistibile caratterizzazione di Costantine fornita da Taylor, che si riallaccia alla tradizione classica di Hellblazer dando ad alcuni personaggi secondari i nomi di creativi che hanno fatto la storia della collana, come Jamie Delano e Steve Dillon.

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Sul fronte grafico, il nome di Darick Robertson non ha certo bisogno di presentazioni. Il disegnatore di cult come Transmetropolitan e The Boys si scatena in tavole intrise tanto di humor quanto di horror. L’arte di Robertson è un’aggiunta ideale al nutrito e prestigioso pantheon degli illustratori di Hellblazer, grazie ad un tratto robusto che sa coniugare registro grottesco, gusto per l’ironia e la muscolarità mutuata dalla lunga militanza dell’artista nel fumetto di supereroi. La palette di colori di Diego Rodriguez, che oscilla tra lo scuro e il livido, contribuisce ad alimentare le venature horror dell’intera vicenda.

La riuscita di questo primo numero di Hellblazer: Ascesa e Caduta si gioca tutto sulla diversa percezione che ne avranno i lettori che vi si approcceranno. I nuovi estimatori delle gesta di John Costantine ne rimarranno sicuramente catturati, mentre i suoi vecchi supporter avranno l’impressione di essere tornati nel pub preferito della loro giovinezza per bere una birra in compagnia di un vecchio amico.

Falcon & Winter Soldier: Taglia una testa, recensione: un Buddy Movie su carta

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La sinergia tra cinema e fumetto, che dal debutto del Marvel Cinematic Universe contraddistingue la produzione della Casa delle Idee, ha fatto in modo che personaggi prima conosciuti solamente dai lettori di comics diventassero popolarissime star del grande schermo, capaci di attrarre un gran numero di spettatori. Tra i tanti eroi proposti dal MCU nei suoi 13 anni di vita spiccano sicuramente Falcon e il Soldato d’Inverno, comprimari storici delle avventure di Capitan America, di cui è da poco partito un serial a loro dedicato su Disney+. Sam Wilson e James Buchanan “Bucky” Barnes hanno accompagnato nel corso dei decenni le gesta di Steve Rogers, come alleati o addirittura sostituendolo nei periodi di indisponibilità della Leggenda Vivente.

Personaggi dalla storia editoriale ricca e simbolica: Falcon è il primo supereroe afroamericano (considerando Pantera Nera, primo supereroe di colore, residente nello stato fittizio del Wakanda e quindi africano), creato da Stan Lee e Gene Colan nel 1969. Il Soldato d’Inverno fa invece il suo debutto nel 1941 nelle vesti di Bucky, il giovane aiutante di Capitan America durante la Seconda Guerra Mondiale creato da Joe Simon e Jack Kirby ed esponente, come Robin, della tradizione dei “sidekicks” dei fumetti americani del periodo. Creduto morto da Steve (e da generazioni di lettori) durante uno scontro col nazista Barone Zemo, Bucky viene ritrovato dai sovietici, che gli praticano il lavaggio del cervello, e lo costringono ad agire come killer al loro servizio. Come “Soldato d’Inverno”, inizia quindi una carriera da agente segreto avvolta nella leggenda, spietato assassino senza rimorso immemore del suo passato. Dopo il fatidico incontro con Steve, a più di mezzo secolo dall’incidente che li aveva divisi, Bucky recupererà la memoria e cercherà di fare ammenda del suo passato macchiato di sangue indossando i panni di Capitan America dopo la “morte” di Steve successiva alla Guerra Civile dei supereroi. Dopo aver ripreso il suo posto nel pantheon degli eroi Marvel, Bucky ha vissuto nuove avventure col redivivo Steve Rogers e con Sam Wilson, che servirà a sua volta per un periodo come Capitan America. Tra i due ex aiutanti del Discobolo nasce un’amicizia speciale, esplorata nel serial The Falcon & The Winter Soldier interpretato dai volti cinematografici dei due personaggi, Anthony Mackie e Sebastian Stan.

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Per accompagnare l’uscita della serie televisiva, la Marvel ha messo in cantiere una serie di iniziative dedicate ai due personaggi, tra cui spicca la miniserie omonima scritta dal romanziere Derek Landy per i disegni dell’italiano Federico Vicentini. Si tratta di un avventura straripante di azione che vede Falcon e il Soldato d’Inverno alle prese con un lotta tra fazioni all’interno dell’Hydra, l’organizzazione terroristica più pericolosa dell’Universo Marvel. L’inizio è subito al fulmicotone, con Bucky che viene attaccato nella propria abitazione da una squadra d’assalto paramilitare decisa ad eliminarlo. Costretto alla fuga, scopre che l’agenzia governativa con la quale collabora, allo scopo di rintracciare i campi di addestramento dell’Hydra e distruggerli, è stata sgominata ed i suoi membri trucidati, tranne il suo contatto, scampato miracolosamente al massacro. L’arrivo di Natural, un giovane sicario allevato da una famiglia di fanatici di Capitan America, gli dà la conferma che qualcuno sta cercando di scalare posizioni all’interno dell’Hydra e di prenderne il controllo. Coinvolto anche Sam Wilson nelle indagini, i due non avranno altra scelta che stringere un’alleanza forzata col Barone Zemo, il capo dell’organizzazione terroristica, per stanare il misterioso avversario.

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Taglia una testa (e ne cresceranno due, recita il classico adagio dell’Hydra che ogni Marvel fan ben conosce), è la versione su carta di un classico “buddy movie”, con due “caratteri” dalle personalità ben distinte che sono costrette dalle circostanze a collaborare. Falcon agisce cercando di non uscire dal perimetro che la sua posizione di eroe gli impone; Il Soldato d’Inverno, invece, quel limite lo ha superato da un pezzo. Ciò nonostante, conduce una lotta costante contro il suo lato oscuro cercando di guadagnarsi il rispetto di amici ed alleati come Sam. Su questo contrasto e sulle situazioni che ne scaturiscono, Landy costruisce una trama improntata prevalentemente all’azione, mettendo in secondo piano l’approfondimento psicologico. Le personalità dei due protagonisti sono mutuate più dalle loro controparti cinematografiche che da quelle cartacee, riproducendo le dinamiche da loro prodotte sullo schermo. Il tono è scanzonato, dominato da scambi di battute che condiscono di ironia al limite del grottesco anche le scene potenzialmente più drammatiche. La stessa caratterizzazione degli avversari è sopra le righe, si veda ad esempio il ritratto fornito dallo scrittore di un villain classico come Zemo, anche in questo caso più vicino alla versione cinematografica interpretata da Daniel Brühl che a quella cartacea. In ogni caso, la sceneggiatura di Landy svolge diligentemente il compito di fornire un supporto più che adeguato ad un’opera che non intende andare oltre i confini del prodotto d’intrattenimento, seppur di qualità. Pregio che dal punto di vista grafico è garantito dall’ottima prova del nostro Federico Vicentini, alle prese con l’incarico che lo segnala definitivamente come uno dei migliori talenti del fumetto italiano. Con uno stile che sembra nato apposta per illustrare il rocambolesco script di Landy, Vicentini imprime alla storia uno storytelling scatenato e forsennato, ricco di dinamismo e azione che esplode letteralmente da ogni tavola, grazie ad una matita tagliente capace di attribuire ai personaggi un look moderno ed accattivante.

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Panini Comics pubblica Falcon & The Winter Soldier in un bel volume della sua consolidata linea di cartonati soft-touch, accompagnandolo con un brossurato di formato tascabile e dal prezzo invitante (9,90€) dallo stesso titolo che ristampa alcune tra le storie più significative del collaudato duo, compendio necessario ad una fruizione più consapevole della serie tv.

Superman di Geoff Johns 1 - L'ultimo figlio di Krypton, recensione: Rinnovare l'Uomo d'Acciaio

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Quando nel 1999 debuttava nelle fumetterie americane Stars and S.T.R.I.P.E., recupero da parte della DC Comics di vecchi personaggi di epoca bellica aggiornati per il nuovo millennio, nessuno avrebbe immaginato che il soggettista di quella serie dalla durata effimera sarebbe diventato l’autore maggiormente associato all’editore per tutti gli anni a venire. Geoff Johns iniziava in sordina una carriera che lo avrebbe visto diventare in pochi anni l’architetto assoluto dei maggiori eventi del DC Universe, il “Re Mida” capace di trasformare in oro qualsiasi serie da lui toccata. La sua capacità di estrarre le caratteristiche iconiche di personaggi classici e un po’ datati, come la maggior parte di quelli appartenenti alla library DC, per inserirle in un contesto attuale e renderle di nuovo appetibili, aveva contraddistinto le sue lunghe e felici gestioni di Flash, JSA e Green Lantern.

La sua consacrazione definitiva avviene nel 2005, quando la DC decide di festeggiare il ventesimo anniversario della pubblicazione dell’epocale Crisis on Infinite Earths con la pubblicazione di un evento altrettanto ambizioso, Infinite Crisis. Nella mini di 6 numeri, e in una pletora di speciali e tie-in associati, Johns e gli altri autori coinvolti celebrano la tradizione immaginifica dell’editore di Burbank, riportando in scena il Multiverso che era stato cassato dalla precedente “Crisi” ed elementi classici ad esso associato. In tal senso, Crisi Infinita rappresentò il culmine di una tendenza, quello del recupero di stereotipi della Silver Age rimossi dall’universo DC ai tempi della prima “Crisi”, che era iniziato sulle collane dedicate a Superman dirette dagli editor Eddie Berganza e Matt Idelson. L’evento, scritto da Johns per i disegni di Phil Jimenez e George Pérez, ebbe un forte impatto sul pantheon di personaggi DC e ne avrebbe condizionato le vicende per gli anni successivi. L’editore decise per un rilancio “morbido” delle sue principali collane, escludendo di azzerarne la numerazione a favore di nuovi scenari narrativi e di nuovi e prestigiosi team creativi. Così, mentre Grant Morrison iniziava la sua lunga gestione di Batman, Geoff Johns prese in carico le testate dedicate all’Uomo d’Acciaio, in quello che rappresentò il punto d’arrivo della sua carriera. Si sarebbe occupato principalmente di Action Comics, mentre avrebbe aiutato a lanciare il nuovo corso di Superman lasciandola poi nelle mani del suo co-autore e esimio collega Kurt Busiek.

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Panini Comics ha iniziato a raccogliere l’intera run scritta da Geoff Johns per le collane dell’Azzurrone in prestigiosi volumi cartonati, di cui il primo raccoglie le due saghe iniziali firmate dall’autore: Su, su e via!, sceneggiata insieme a Busiek per i disegni di Pete Woods e Renato Guedes, e L’Ultimo Figlio di Krypton. Quest’ultima è il piatto forte di questo primo tomo, perché vede la collaborazione ai testi tra Johns e Richard Donner, il mitico regista del primo Superman cinematografico, per i disegni della superstar Adam Kubert.

Entrambe le saghe si svolgono un anno dopo la conclusione di Crisi Infinita. La DC infatti stabilì che le proprie collane avrebbe effettuato un salto temporale di un anno dopo la conclusione del cross-over, un lasso di tempo in cui Superman, Batman e Wonder Woman si sarebbero momentaneamente ritirati, lasciando ad altri eroi il compito di proteggere il mondo. Questo gruppo di storie sarebbero state raccolte sotto l’ombrello denominato One Year Later. Le vicende di un mondo privato della sua iconica trinità di eroi sarebbe stato invece raccontato nel settimanale antologico 52.

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Su, su e via! è il classico “starting-point” post-evento editoriale, in cui si fa il punto sull’essenza di un personaggio per poi lanciarlo verso il futuro. Ritroviamo un Superman privato dei suoi poteri, a seguito dello scontro con il malvagio Superboy – Prime nel finale di Crisi Infinita, che da un anno si limita a vestire esclusivamente i panni di Clark Kent. La carriera di giornalista e il matrimonio con Lois Lane vanno a gonfie vele, ora che i compiti di supereroe sono appannaggio dei suoi colleghi della Justice League e della Justice Society of America. Inutile dire che minacce come Lex Luthor, l’Intergang e altri villain della colorata gallery degli avversari dell’Uomo d’Acciaio non tarderanno a ritornare più temibili che mai, mettendo sotto pressione un Clark depotenziato ma determinato a ritrovare le capacità per affrontare i suoi avversari.
Su, su e via! è tanto una classica “origin story” quanto una tipica avventura di Superman, all’interno della quale l’Uomo d’Acciaio compie un “viaggio dell’eroe” in otto capitoli, dal quale esce rinvigorito e rafforzato. Johns e Busiek riescono a rivitalizzare brillantemente tutti i classici comprimari delle storie dell’azzurrone come Lois Lane, Jimmy Olsen, Perry White e Lex Luthor, e ad approfondire il loro rapporto con Clark, così come si fanno apprezzare le nuove versioni di villain classici come Kryptonite Man, Bloodsport e Prankster. I due sceneggiatori scrivono una lunga lettera d’amore al personaggio, con un trasporto che ne fa perdonare l’eccessiva lunghezza, di almeno un paio di capitoli. Sul fronte artistico, Pete Woods e Renato Guedes svolgono un lavoro diligente ma senza particolari guizzi stilistici. L’impostazione della tavola è piuttosto classica, ma il tratto di entrambi, improntato alla linea chiara e esaltato dai colori luminosi di Brad Anderson, non manca di soddisfare il palato del lettore, soprattutto nelle numerose scene d’azione.

Per L’Ultimo Figlio di Krypton, la seconda saga contenuta nel volume e reale inizio della gestione Johns dopo il lungo prologo in tandem con Busiek, lo sceneggiatore decise di avvalersi della collaborazione di Richard Donner, il mitico regista del Superman del 1978 e suo mentore di gioventù. Ancora fresco di laurea, infatti, il giovane Geoff Johns aveva cominciato la sua carriera nel mondo dell’entertainment proprio come assistente del cineasta.
Il coinvolgimento di Donner nelle sceneggiature della collana storica di Superman, Action Comics, avviene in un momento in cui molte personalità del cinema stanno collaborando con le major dei fumetti, basti pensare alle storie di Kevin Smith per Daredevil e Green Arrow, di Reginald Hudlin per Black Panther e Spider-Man, o all’acclamato ciclo di Joss Whedon per Astonishing X-Men. Ma la presenza al fianco di Johns di colui che regalò il Superman di Christopher Reeve al mondo ha in sé un valore metatestuale e metaforico molto forte, perché l’eco di quel film epocale e spartiacque è ben presente in L’Ultimo Figlio di Krypton. Comincia qui un topos che sarà presente in molti lavori successivi dello scrittore, la rielaborazione personale delle opere fumettistiche e cinematografiche fondanti per la generazione a cui appartiene Johns, quella nata negli anni ’70. Se in questa saga lo sceneggiatore affronta il mito del Superman di Donner, nel futuro Doomsday Clock farà i conti col Watchmen di Alan Moore, mentre Three Jokers sarà un omaggio al The Killing Joke di Alan Moore con echi del Batman di Tim Burton.

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L’Ultimo Figlio di Krypton si apre con un Superman nuovamente nel pieno delle sue forze, intento ad ascoltare le registrazioni a lui lasciate dal padre Jor-El, in una Fortezza della Solitudine composta da cristalli come nel film del 1978. La routine della sua doppia vita come supereroe e giornalista viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo, in una navicella atterrata direttamente a Metropolis, di un ragazzino che sostiene di essere l’ultimo sopravvissuto di Krypton. Una rivelazione che sconvolge tutte le certezze acquisite di Clark, che non potrà perdere troppo tempo in riflessioni per salvare il bambino, insieme a Lois, dalle mire dell’esercito. Intanto fa il suo arrivo sulla terra il Generale Zod con i suoi alleati Ursa e Non, per cercare il figlio del loro antico avversario, Jor-El, che li aveva esiliati nella Zona Fantasma.

La saga imbastita da Johns e Donner è un’epopea di respiro cinematografico, un vero e proprio blockbuster su carta che esplode nelle splash-page spettacolari di Adam Kubert, che si trasferì alla DC dopo un decennio in esclusiva alla Marvel per coronare il sogno di disegnare Superman. Una permanenza effimera, durata solo un paio d’anni prima di far ritorno nei lidi più familiari della Casa delle Idee, che hanno prodotto però tavole interessanti come quelle di questo Last Son of Krypton. L’artista si trovava in un periodo della sua carriera in cui non disdegnava sperimentalismi, evidenti tanto nelle bellissime copertine dipinte in tono di seppia per Action Comics, quanto nella scelta di dare al colorista, in questo caso Dave Stewart, tavole prive di chine che producono una piacevolissima sintesi cromatica tra matite e colori.

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L’ispirazione proveniente dalle due pellicole dirette da Donner è evidente (compreso Superman II che venne girato in larga parte dall’autore ma accreditato a Richard Lester) e Last Son ne trascina nella modernità gli elementi più iconici, a partire da Zod e dai suoi alleati, qui alla prima apparizione post-Crisis (senza contare le versioni provenienti da realtà alternative come quella apparsa in For Tomorrow di Brian Azzarello e Jim Lee). L’iconico avversario interpretato da Terence Stamp non aveva ancora fatto il suo reale debutto a vent’anni dal rilancio operato da John Byrne, che aveva stabilito che Clark fosse l’unico sopravvissuto di Krypton. Ma gli echi della varie versione cinematografiche dell’Uomo d’Acciaio echeggiano in tutta la saga, dal Superman Returns di Bryan Singer allora appena uscito (vedi il rapporto padre – figlio) a, incredibile a dirsi, il Man of Steel di Zack Snyder che sarebbe stato girato solo sette anni più tardi ma il cui finale ricorda molto da vicino quello di Last Son.

Al di là delle possibili ispirazioni e contaminazioni cinematografiche, il volume proposto da Panini Comics mette in luce tutto quello in cui eccelle un autore come Geoff Johns: la conoscenza assoluta dei “ferri” e dei trucchi del mestiere di sceneggiatore di fumetti, la capacità di distillare gli aspetti più complessi della lunga storia di personaggi iconici e di restituirli al lettore come nuovi e facilmente accessibili. E di trovare, in queste storie così popolari e spesso abusate, il potenziale per offrirne versioni rinnovate eppure rispettose della propria leggenda.

La Fabbrica Onirica del Suono, recensione: l'indimenticabile stagione della psichedelia e delle utopie

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Gli anni ‘70 sono stati un momento chiave della storia italiana, caratterizzati da un fermento culturale, politico e sociale senza precedenti. Il boom economico del decennio precedente e il diffuso benessere che ne era derivato, generato dalla trasformazione del Paese in potenza industriale nel dopoguerra, aveva messo in moto le giuste rivendicazioni dei movimenti operai, protagonisti della transizione dell’Italia nella modernità. I lavoratori avevano raccolto le istanze del ’68 e dei movimenti studenteschi: il movimento di protesta, partito dalle università e dalle scuole aveva attraversato tutti gli ambiti della società, dilagando nelle fabbriche. È la grande stagione delle battaglie per i diritti civili, richiesti da grandi movimenti di piazza: vengono introdotti il divorzio e il diritto di famiglia, oltre alla liberalizzazione dell’aborto. Tra tutte le arti, è la musica che più racconta gli epocali mutamenti sociali in atto. La comparsa dei Beatles negli anni ’60 ha cambiato le regole del gioco, regalando ai giovani il primo grande fenomeno di massa con cui identificarsi.

L’apparizione folgorante dei quattro di Liverpool produce, in pochi anni, una serie di epigoni. Alcuni attraverseranno il decennio come delle comete, altri, come gli Who e i Rolling Stones, riveleranno ben presto una propria specificità che li condurrà verso vette artistiche altissime. La musica Beat, nata in Inghilterra, invade il resto del mondo compreso l’Italia, a cui il boom ha assicurato un fiorente mercato discografico. Il ritmo di gruppi come l’Equipe ’84 e i Dik Dik fa da colonna sonora agli anni ’60 di un Paese che conosce un benessere generalizzato ed improvviso e vuole mettersi alle spalle gli anni bui della guerra. Una musica scanzonata che diventa di colpo inadeguata a rappresentare un clima sociale profondamente mutato col cambio di decennio. La complessità degli anni ’70 trova così una sponda nel rock progressivo di gruppi come gli Area, la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, i Goblin. Si tratta di formazioni che, sulla scia di band inglesi alfiere della musica “prog” come i Genesis e i Pink Floyd, propongono composizioni concettualmente e stilisticamente elaborate, colte e ricche di riferimenti letterari, che vanno oltre il concetto di semplice canzone riuscendo a cogliere lo zeitgeist del proprio tempo. È a queste straordinarie esperienze artistiche e all’epoca che le ha viste protagoniste assolute della scena musicale che è dedicato La Fabbrica Onirica del Suono, graphic novel scritto e disegnato da Sergio Algozzino per Feltrinelli Comics.

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L’autore non è nuovo al racconto di momenti storici che hanno segnato la cultura italiana. Se l’autobiografico Memorie a 8 bit era dedicato alla generazione del Commodore 64 e delle merendine del Mulino Bianco, il nuovo lavoro si concentra su un periodo storico entrato nel mito, caratterizzato si da luci e ombre, ma attraversato da una energia giovanile e da una spinta propulsiva verso il futuro che il nostro Paese non avrebbe più conosciuto. Attraverso la storia di una band fittizia, Algozzino ripercorre la storia della musica di quegli anni e dei grandi mutamenti politici e sociali avvenuti in contemporanea. Il cartoonist siciliano mette in scena la vicenda umana di Nunzio e Patrizio, la cui amicizia attraversa la storia italiana. Il primo è di estrazione proletaria, lavora in fabbrica ed è politicamente impegnato. Il secondo viene da una famiglia borghese, che lo sostiene economicamente e gli paga gli studi. Diversi in tutto, sono uniti dall’amore per la musica: entrambi suonano come turnisti in uno studio di registrazione. Stufi di sentire la propria musica suonata da altri o sfruttata in musicarelli di poco conto, i due approfittano dell’esplosione del Beat in Italia per fondare con altri ragazzi una propria band, i Jokers, che conoscono un successo travolgente, partecipando ai più noti Festival dell’epoca come il Disco per l’Estate di Saint-Vincent.

La musica dei Jokers è un’alchimia vincente tra le melodie composte da Patrizio e i testi scritti da Nunzio che parlano ai giovani mettendoli al centro del grande rinnovamento sociale in atto. Ma per il membro più impegnato della band tutto questo non è sufficiente.  Mentre l’epoca d’oro del Beat si avvia alla conclusione con la fine degli anni ’60, la complessità storica del decennio successivo necessita di un nuovo approccio all’arte e alla musica. È così che i Jokers cambiano pelle, e si trasformano ne La Fabbrica Onirica del Suono mettendosi sulla scia della grande ondata del rock progressivo di quel periodo. La composizione musicale si fa più complessa e di ampio respiro, sfociando in suite sperimentali e psichedeliche di lunga durata. I testi si fanno più colti e pieni di riferimenti letterari. Ma nel momento di massimo splendore artistico, le strade di Nunzio e Patrizio iniziano a dividersi. Il primo è sempre più coinvolto nei movimenti di protesta e strizza l’occhio ai gruppi eversivi, chiedendo alla Fabbrica un maggior coinvolgimento politico che Patrizio non intende concedere. Irrompono così gli anni di piombo che metteranno fine alle utopie sognate in quegli anni, portando al tramonto delle ideologie.

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Con La Fabbrica Onirica del Suono, Sergio Algozzino si pone su un solco molto frequentato dalla fiction italiana, sia cinematografica che cartacea, come La Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana e L’ora X di Erri De Luca, Cosimo Damiano Damato e Paolo Castaldi, di cui abbiamo parlato in precedenza. Un racconto intimista, in questo caso di una grande amicizia, che si sovrappone alla rievocazione di una stagione veramente irripetibile. Un lavoro appassionato, quello dell’autore, a cui si deve certamente perdonare la foga con cui cita praticamente tutti i protagonisti della scena musicale dell’epoca (oltre ai già citati beaters e musicisti prog, anche gli esponenti del cantautorato come Fabrizio De André, Francesco Guccini e Lucio Dalla). Questa scelta da una parte inquadra perfettamente il periodo in cui si svolge la narrazione, dall’altra finisce per rallentarne lo svolgimento. Si tratta però di un peccato veniale, che nasce dalla passione di Algozzino per la materia trattata e che farà felici i cultori del sound di quegli anni. Molto ben tratteggiata è invece l’amicizia tra i due protagonisti, opposti che si attraggono per amore della musica.

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A livello grafico, ci troviamo di fronte ad un lavoro felicemente riuscito, dove una gradevole semplicità compositiva lascia spazio improvvisamente a soluzioni più ardite. Si passa dai colori pastello e dalla linea chiara delle scene di dialogo, a sperimentalismi lisergici, carichi di colori acidi, che ricordano la psichedelia del periodo; felicissime anche le citazioni d’epoca con pagine cariche di copertine di dischi chiave del periodo. Le pagine più oniriche, ricche di neri, sono paradossalmente quelle che riportano il lettore alla realtà del nostro presente carico di inquietudini, con i personaggi invecchiati persi nel ricordo delle utopie ormai spente. Algozzino sembra dirci che nulla è più reale e vivido del sogno, consegnando ai lettori un’opera generosamente imperfetta. Un lavoro appassionato che a tratti sembra soccombere sotto il peso dei numerosi spunti proposti, salvo poi riemergere come omaggio gioiosamente caleidoscopico ad un’epoca andata che sapeva però parlare di futuro.

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