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Luca Tomassini

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Sweet Tooth 1 - Fuori dalla foresta, recensione: il futuro apocalittico di Jeff Lemire

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Autore tra i più interessanti emersi nello scorso decennio, Jeff Lemire è stato quello che ha compiuto in maniera più disinvolta la transizione da artista “indie” a star del comicdom al servizio delle due major principali, Marvel e DC, di cui ha scritto alcune delle principali icone. Anche nei suoi lavori mainstream è spesso possibile rintracciare la sua voce più autentica, quella vena malinconica che animava lavori come Essex County, il suo esordio folgorante, o capolavori come Il Saldatore Subacqueo. Una nostalgia avvolgente per un’età dell’oro perduta, poco importa se sia mai stata effettivamente vissuta dai protagonisti e se si sia svolta solamente nelle loro speranze e nei loro desideri. Una sensibilità che accomuna tanto i supereroi “esiliati” di Black Hammer quanto i “losers” provinciali di Niente da perdere, personaggi che hanno il meglio del loro vissuto alle spalle. Non stupisce quindi che Lemire si sia cimentato anche con la fantascienza distopica con Sweet Tooth, il suo primo successo targato DC/Vertigo, oggi ristampato nella linea Black Label in occasione del debutto della omonima serie Netflix da esso tratta.

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Quando il primo numero esce nel 2009, gli Stati Uniti ed il mondo sono attraversati dalla crisi finanziaria dovuta al fallimento della Lehmann Brothers, mentre l’OMS dichiara pandemico il contagio dell’influenza suina H1N1. La certezza di un futuro sereno, patrimonio delle generazioni successive al periodo bellico, comincia seriamente a vacillare. Improvvisamente la distopia post-apocalittica appare nuovamente il genere capace di raccontare un domani carico di incertezze, invadendo i media. The Walking Dead, hit a sorpresa della Image Comics, ispirerà di li a breve una serie tv di grandissimo successo, che sarà il vessillo di questa rinnovata tendenza. La premessa di Sweet Tooth è simile a quella dell’opera di Robert Kirkman, ma con esiti diversi. Anche qui c’è un morbo che ha devastato l’umanità, che i sopravvissuti hanno ribattezzato “l’afflizione”. Una pandemia che ha ucciso milioni di persone, causando il collasso della civiltà. Sette anni dopo, il mondo è testimone della comparsa di una nuova razza ibrida, parte uomo e parte animale. Uno di questi bambini è Gus, dalle fattezze di cervo e dall’animo gentile, che vive recluso in un rifugio nei boschi del Nebraska con il padre. L’uomo ha costretto il figlio all’isolamento fin dalla nascita, vuoi perché gli ibridi sono cacciati per essere studiati in quanto immuni al contagio, vuoi per il timore di un mondo dove le leggi sono saltate e vige solamente quella del più forte.

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Un giorno Gus si sveglia e trova il padre morto nel suo letto. Il ragazzo cervo, orfano di madre già da tempo, ora è solo. Desideroso di scoprire cosa si nasconde al di là del bosco, viene sorpreso da un gruppo di cacciatori decisi a catturarlo: Gus sta per soccombere, quando viene salvato da un uomo misterioso, Jepperd, che gli promette di portarlo in un luogo in cui vivono altri ibridi, “la Riserva”, e dove potranno prendersi cura di lui. Comincia così un viaggio on the road attraverso una frontiera americana post – apocalittica piena di pericoli e di strani incontri, verso un colpo di scena finale non del tutto inaspettato ma comunque efficace.

A distanza di 12 anni dalla sua uscita, Sweet Tooth non ha perso nulla della sua forza, anzi risulta più attuale che mai a causa della tremenda prova a cui la reale emergenza pandemica ha sottoposto l’umanità intera. Troviamo mescolati in una sintesi efficace alcune delle tematiche più care all’autore e dei suoi stilemi più tipici: fantascienza distopica, racconto post – apocalittico (in molti hanno notato richiami tanto a L’Ombra dello Scorpione di Stephen King quanto a La Strada di Cormac McCarthy) ma anche romanzo di formazione in un contesto ostile, quell’America rurale già protagonista delle opere più riuscite dell’autore. Un ambiente apparentemente rassicurante che è invece lo scenario in cui si sfogano gli istinti più violenti dell’uomo, come tanta fiction dell’ultimo decennio ci ha insegnato, a partire da True Detective. Ma Sweet Tooth si legge su più livelli: è possibile riconoscervi uno degli stereotipi più caratteristici delle favole nella sequenza in cui Gus viene invitato da Jepperd ad uscire dal suo rifugio e a seguirlo grazie ad una barretta di cioccolato, che, come i dolciumi delle fiabe, lo ingolosisce e sembra promettergli un’avventura a lieto fine. Ma l’opera di Lemire può essere interpretata anche come una parabola ecologista, che ammonisce il lettore sullo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, o come semplice metafora della difficoltà di un’anima sensibile a vivere nella società di oggi.

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Sensibilità dimostrata da Lemire nella sua doppia veste di scrittore/disegnatore: i suoi testi, improntati ad un forte lirismo, sono accompagnati dalla sua usuale matita grezza, poco accattivante a prima vista, che caratterizza le sue opere indipendenti. Un tratto ruvido, graffiante, a volte appena abbozzato, che riesce tuttavia a trasmettere magistralmente tanto la tenerezza dei passaggi più intimisti quanto la crudezza di quelli più violenti. Le tavole sono spesso giocate su primi piani che danno risalto alle espressioni dei personaggi, trasmettendone con efficacia i sentimenti, soprattutto lo smarrimento di Gus di fronte ad un mondo che non comprende. La dimensione volutamente naif dello stile di Lemire non deve però tranne in inganno il lettore, perché l’autore canadese sciorina nel corso del volume tutte le sue notevoli doti di storyteller, grazie ad una composizione dinamica che alterna primi piani a splash-page e che esalta la sua abilità nel montaggio (si veda, a tal proposito, la concitata scena nella camera d’albergo nel penultimo episodio giocata sul montaggio alternato di zoom e primissimi piani, ottenuta dividendo la tavola in strisce orizzontali). Se i lavori concepiti da Lemire per il mercato indie sono quasi sempre in bianco e nero, Sweet Tooth può fregiarsi invece dei colori densi del veterano José Villarrubia, capaci di conferire spessore emotivo alle tavole dell’artista grazie ad una palette che spazia da colori caldi a freddi a seconda delle necessità dello script.

Panini Comics propone il primo arco narrativo di Sweet Tooth in un brossurato dall’ottimo rapporto qualità/prezzo, ideale per accompagnare la visione dell’omonima serie tv già disponibile su Netflix e per immergerci in un mondo che, seppur attraversato da suggestioni distopiche e post – apocalittiche, ci parla invero della dura realtà che ci circonda.

Loki: Agente di Asgard, recensione: vivere non è difficile, potendo poi rinascere

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La più grande curiosità tra le tante che circondava l’uscita del Thor di Kenneth Branagh, che arrivò sugli schermi nel 2011, riguardava il modo in cui il più grande interprete contemporaneo del canone shakespeariano si sarebbe approcciato ai fumetti Marvel e alla saga del Dio del Tuono in particolare. Le scaramucce asgardiane tra il tonante e il fratellastro Loki, da sempre afflitto da complesso di inferiorità nei suoi confronti, costituivano un soggetto ideale per le qualità di drammaturgo di Branagh. Il regista pagò il giusto tributo alla spettacolarità tipica di un blockbuster hollywoodiano, lasciando all’ottimo cast da lui selezionato il compito di portare in vita i conflitti di una famiglia disfunzionale di divinità norrene già raccontate su carta da Stan Lee, Jack Kirby e gli autori che ad essi si succedettero. Il più grande merito di Branagh fu quello di assegnare la parte di Loki ad un attore fino a quel momento sconosciuto, Tom Hiddleston, che seppe regalare tridimensionalità e spessore psicologico ad un personaggio che, nella sua versione cartacea, era troppo spesso relegato alla parte di villain monocorde condannato a ripetere ad oltranza il suo ruolo di perfido tessitore di intrighi.

Contemporaneamente, anche nelle pagine dei fumetti Loki conosceva un’evoluzione che lo avrebbe portato ad allontanarsi dalla caratterizzazione classica di Lee, Kirby e John Buscema, quella del Dio dell’Inganno sempre dedito ad ordire complotti e congiure. Il culmine dell’evento Assedio del 2010 vide Loki morire, in una catarsi che lo riscattò dall’ennesimo piano da lui ordito ai danni di Asgard, ovvero l’invasione del Reame Dorato da parte di Norman Osborn e dei suoi Dark Avengers. Prima di morire e desideroso di sottrarsi ad un eterno ciclo di morti e rinascite che lo vede sempre nei panni di una divinità malevola, Loki stringe un accordo con Hela per cancellare il suo nome dal Libro di Hel, in modo da avere tutti i suoi peccati cancellati e poter vivere libero dal passato la successiva reincarnazione, che lo vede nei panni di una versione fanciullesca di sé stesso. Un Loki bambino, immemore della sua vita precedente, che vive a Parigi facendo il borseggiatore, ritrovato da Thor e da lui riportato al cospetto di una Asgard ancora diffidente nei suoi confronti a causa delle malefatte compiute dalla sua precedente incarnazione. La natura benevola del giovane dio finiranno invece per procurargli l’affetto degli asgardiani e del fratellastro. Le vicende di “Kid Loki” sono al centro di Journey into Mystery, acclamata serie scritta da Kieron Gillen, al termine della quale Loki guadagna un nuovo aspetto adolescenziale. È in tal guisa che lo ritroviamo in Loki: Agent of Asgard, serie del 2014 scritta da Al Ewing che Panini Comics raccoglie in volume, approfittando della contemporanea uscita, su Disney+ della serie tv in cui il Dio delle Menzogne è interpretato ancora una volta da Tom Hiddleston.

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Il significato del titolo viene spiegato fin dal primo numero: Loki ha accettato di svolgere missioni per conto della “Madre di tutti”, un triumvirato al femminile costituito da Freiya, Gea e Idunn che governa la nuova versione di Asgard denominata “Asgardia”. In cambio, uno dei peccati compiuti nella sua vita precedente verrà cancellato per ogni incarico completato. La missione principale affidatagli dalle Madre di tutti consiste nel recuperare gli asgardiani che, scampati al Ragnarok e alle successive resurrezioni, hanno scelto di vivere su Midgard (la nostra Terra) nascondendosi dallo sguardo di Asgard. Tra questi ci sono vecchie conoscenze come Lorelei, la sorella di Amora, l’Incantatrice, e Sigfrido, il primo eroe della mitologia norrena. Quello che Loki non sa, ma scoprirà presto, è che una sua versione futura e malvagia auto denominatasi “Re Loki” lo sta manipolando, in accordo con la Madre di tutti a cui ha garantito la salvezza di Asgard. La storia si svolge così su due piani: il presente, in cui il giovane Loki ricorre comunque al vecchio schema dell’intrigo, stavolta declinato a fin di bene, per poter svolgere le sue missioni, e un futuro che sembra già scritto dal suo alter-ego. Sembra, perché anche questa volta Loki combatterà per non rassegnarsi ad un destino già prestabilito.

Il tono scanzonato scelto da Ewing per il suo Loki: Agent of Asgard, in netto contrasto con quello tradizionalmente più austero delle classiche storie di Thor non deve ingannare il lettore: la run dello scrittore britannico è in realtà un raffinato trattatello di mitopoiesi a fumetti, un elogio del potere del racconto. Un percorso di redenzione che si estrinseca attraverso una nuova narrazione che l’io fa a se stesso. Cos’è una bugia se non una storia, afferma Loki nel momento clou del volume? Ecco allora che il “Dio delle Menzogne” lascia il campo al “Dio delle Storie”, in un processo di autodeterminazione del sé che sfocia nel metatestuale.

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Un tema complesso che Ewing svolge con disinvoltura, nonostante la serie debba pagare l’inevitabile tributo di ben tre incroci con altrettanti eventi nell’arco di soli diciassette numeri: Original Sin, Axis e Secret Wars. Il tie-in col primo evento servì ad introdurre nell’universo Marvel Angela, il personaggio creato da Neil Gaiman sulle pagine di Spawn che lo scrittore di Sandman concesse alla Casa delle Idee dopo la vittoria della nota disputa legale contro Todd McFarlane. Si tratta di una sequenza narrativamente indipendente dal resto del volume, all’insegna di un’operazione di retcon non del tutto riuscita, che si fa notare soprattutto per le matite spettacolari del nostro Simone Bianchi, peraltro non in forma come in altre occasioni. I capitoli inseriti nel contesto di Axis sono invece i più deboli dell’intero tomo, ma sono più validi di quanto lo fosse l’evento in sé. Ewing sfrutta la trovata dell’inversione di ruoli tra buoni e cattivi per approfondire ulteriormente le motivazioni del rinnovato Loki. Pienamente funzionale al progetto dello scrittore britannico è invece l’incrocio con Secret Wars, che occupa la parte finale del volume. La fine dell’Universo Marvel orchestrata nella miniserie del 2015 da Jonathan Hickman fornisce al Loki di Ewing l’occasione di fare un reset della propria esistenza e di prepararsi al prossimo ciclo della realtà senza un passato ingombrante con cui dover fare i conti. È notevole il modo in cui Ewing sfrutta come occasione narrativa il fardello di cross-over aziendali a cui dover pagare dazio riuscendo comunque a portare in porto il suo progetto, una riflessione sul ruolo del mito nell’arte popolare, e del racconto come stratagemma salvifico che determina la vera identità dell’io, mettendolo al riparo dai pregiudizi degli altri.

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Il compito di accompagnare i testi dello scrittore inglese è affidato allo storytelling fluido del connazionale Lee Garbett, caratterizzato da un tratto muscolare tipico della tradizione del fumetto supereroistico statunitense. Garbett sforna tavole spettacolari e ricche di azione grazie ad una matita potente che, seppur non dotata di particolari guizzi stilistici, è capace di esaltare i passaggi più epici dello script di Ewing. Un comparto artistico solido, piacevolmente classico, che è un compendio ideale alle trame imbastite dallo sceneggiatore inglese.

Panini Comics presenta l’intero ciclo del Loki: Agent of Asgard di Al Ewing in un corposo volume della linea di cartonati giganti Marvel Deluxe, occasione da non perdere per riscoprire i primi passi di uno dei più acclamati sceneggiatori della Marvel attuale e per accompagnare la visione della serie tv interpretata da Tom Hiddleston.

S.W.O.R.D. 1-2, recensione: i mutanti alla conquista dello spazio

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Il viaggio nello spazio è da sempre uno dei leitmotiv tipici della saga degli X-Men. Ad inaugurare questa tradizione fu Chris Claremont, le cui sortite interstellari fungevano sempre da prologo a grandi cambiamenti nelle vite dei membri della squadra. Tutti i successori di X-Chris si sono cimentati con un avventura nello spazio, da Scott Lobdell a Grant Morrison, fino ad arrivare a Joss Whedon, che nel suo ciclo realizzato a metà degli anni 2000 in coppia con John Cassaday aggiunse un tassello molto interessante al lato “cosmico” delle vicende mutanti. Nel terzo numero della loro gestione degli X-Men debuttava infatti lo S.W.O.R.D., una sezione dello S.H.I.E.L.D. incaricata di monitorare e debellare eventuali minacce extraterrestri, guidata dalla cinica e ironica Abigail Brand. Agente segreto del tutto devota alla sua missione, figlia di un alieno e di una mutante, Abigail e lo S.W.O.R.D. fanno subito breccia nelle preferenze dei lettori, ritagliandosi in breve tempo un ruolo importante nelle vicende mutanti e del Marvel Universe in generale.

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Se negli ultimi anni il ruolo dell’agenzia e della sua leader aveva subito un ridimensionamento, a partire dall’evento Empyre sono tornati entrambi sotto i riflettori. Constatata con amarezza di non essere stata coinvolta dagli eroi terrestri nella gestione della recente crisi cosmica, Abigail accetta la proposta del Quieto Consiglio di Krakoa, la nuova nazione che ha dato asilo a tutti i mutanti liberandoli dalla status di popolo oppresso, mossa al centro della rivoluzione narrativa operata da Jonathan Hickman sulle testate X. Consolidata la propria posizione sulla Terra, i mutanti guardano alle stelle, e il compito di raccontare nuove avventure dal sapore cosmico viene raccolto della nuova iterazione di S.W.O.R.D., scritta dal lanciatissimo Al Ewing per i disegni del nostro Valerio Schiti.

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Le prime due uscite della serie, che Panini Comics ha proposto da poco nella sua tipica linea di spillati da fumetteria, sono un esempio da manuale di come si debba scrivere il primo numero di una nuova testata. Ewing ci presenta prima il setting, la rinnovata base dello S.W.O.R.D. chiamata “Vertice”, per passare poi ad un’agile carrellata che ci mostra il nuovo organigramma dell’ente spaziale, costituito da vecchie conoscenze delle serie mutanti e non. Un gruppo di personaggi composito ed interessante, capitanato da una Abigail Brand carismatica come sempre, di cui Ewing comincia subito ad esplorare psicologia e motivazioni grazie alla sua capacità di scrivere dialoghi taglienti ed efficaci. Nella prima uscita troviamo una lunga conversazione tra la Brand e Magneto, arrivato in visita al “Vertice” come responsabile del programma spaziale presso il governo krakoano. Subito emergono delle differenze di vedute tra i due: mentre il Signore del Magnetismo si fa portavoce di interessi prettamente “nazionali”, Abigail ragiona in termini più grandi. La sua visione travalica i confini terrestri per farsi portavoce dell’intero sistema solare. Mentre i due duellano sul piano filosofico, Ewing ci presenta il resto del cast, composto da volti di primo piano del cosmo mutante come Kid Cable, versione “teen” di Nathan Cristopher Summers che da qualche anno ha sostituito la sua controparte più anziana e vecchie conoscenze come Frenzy e Fabian Cortez. Un ruolo importante, considerata la sua abilità da teleporta, è rivestito da Manifold, il mutante creato da Jonathan Hickman e che ha militato anche nelle fila degli Avengers.

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Fino dal primo albo, Ewing riesce a conferire alla nuova serie un’identità propria, seppur calata nel nuovo contesto delle testate mutanti rivoluzionate dalla gestione Hickman. Un’identità che non verrà smarrita neanche nelle successive uscite che, fin dal secondo numero, proietteranno Abigail e soci nel mosaico di King in Black, il nuovo evento cosmico in cui i principali eroi del Marvel Universe uniranno le forze per affrontare la minaccia di Knull, il dio extraterrestre legato alle origini di Venom creato da Donny Cates sulla testata del simbionte. Al contrario, Ewing getta i semi per le trame che animeranno i numeri futuri.

Sul versante grafico, la prova del nostro connazionale Valerio Schiti è semplicemente straordinaria. Il suo tratto pulito e ricco di dinamismo conferisce un aspetto accattivante alla serie e ne esalta la vocazione spaziale con tavole che lasciano a bocca aperta. Notevole il lavoro di design svolto sui personaggi, di cui Schiti ridisegna uniformi e look proiettandoli nella contemporaneità. I colori densi di Marte Gracia e le infografiche di Tom Muller fanno il resto, mettendo S.W.O.R.D. in continuità stilistica con le altre testate “X”.

Un ottimo debutto per una serie che si propone come anello di congiunzione tra le testate mutanti e il versante cosmico della Marvel.

Cofanetto X-Men: The Classic Collection, recensione: la nascita di una leggenda

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Quando nel fatidico 1975 fece la sua comparsa nelle edicole americane Giant Size X-Men 1 nessuno, compresi i lettori e i creativi coinvolti, avrebbe potuto immaginare quale impatto profondo avrebbe avuto questo albo speciale di lunghezza extra sulla storia del fumetto e della cultura popolare in genere. Tra tutte le serie Marvel create da Stan Lee e Jack Kirby nei favolosi anni ’60, X-Men era stata quella di minor successo, soprattutto per il repentino abbandono della coppia di creatori che aveva preferito concentrare i propri sforzi su titoli come Fantastic Four e The Mighty Thor. Nonostante alcuni numeri di straordinaria qualità realizzati da geni come Jim Steranko e Neal Adams, la serie sospese la pubblicazione di materiale inedito col numero 66 del 1970 trasformandosi in una collana di ristampe, con i mutanti di Xavier che si specializzarono in ospitate nelle testate di altri eroi. Ma l’ambizione di rilanciare il gruppo non aveva mai abbandonato le menti del Bullpen, il mitico ufficio creativo della Casa delle Idee.

L’occasione propizia si presentò nel 1975 quando Albert Landau, presidente tanto della Cadence, società allora proprietaria della Marvel, quanto della Transworld, agenzia che trattava i diritti di pubblicazione dei personaggi della casa editrice all’estero, suggerì a Stan Lee e a Roy Thomas di creare un gruppo con personaggi di diverse etnie, in modo da allargare il bacino di lettori a livello internazionale. Il compito venne affidato a Len Wein, giovane sceneggiatore allora in forze alla Marvel che, su The Incredible Hulk 181, aveva appena fatto debuttare un canadese dal carattere scontroso destinato ad una straordinaria carriera: Wolverine. Wein pensò bene di recuperarlo, e di inserirlo nella nuova squadra internazionale di X-Men insieme ad altri personaggi che avrebbero fatto epoca come l’africana Ororo Munroe, Tempesta, il tedesco Kurt Wagner, Nightcrawler, il russo Piotr Rasputin, Colosso, ed altri. La fortuna dello scrittore e della Marvel fu quella di trovare l’artista in grado di tradurre in immagini la fucina di idee partorite da Wein. Dave Cockrum era un disegnatore dalla fervida immaginazione, insuperabile nell’ideare il look dei personaggi, e quello dei suoi X-Men diventò iconico. Fu il lavoro della sua vita, quello per cui verrà sempre ricordato.

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Wein & Cockrum posero le basi per quella che diventerà la saga a fumetti più amata di tutti i tempi, grazie a soprattutto a Chris Claremont che prese il posto, fin dal secondo numero, di un Wein promosso ad editor in chief della Marvel. Nella sua gestione della serie, durata sedici anni, Claremont scriverà un lungo feuilleton a fumetti popolato da personaggi indimenticabili, caratterizzati in modo realistico e tridimensionale, attraversato da trame avvincenti e sottotrame portate avanti per mesi, se non anni, prima di deflagrare davanti agli occhi del lettore. Un’epopea dei nostri tempi, che Panini Comics celebra con X-Men: The Classic Collection, un cofanetto che contiene due volumi imperdibili.

Il primo, Tributo a Wein & Cockrum, è il remake del mitico Giant Size X-Men 1 offerto per gentile concessione di alcuni dei migliori talenti in forze attualmente alla Marvel. Un team di disegnatori “all-star” illustra la sceneggiatura originale di Len Wein, disegnandone una pagina a testa. Riviviamo così la prima avventura dei nuovi X-Men, reclutati dal Professor Xavier per correre in soccorso del gruppo originale, disperso durante una missione sull’isola di Krakoa. Una storia classica in cui, per la prima volta, si intrecciano i destini di reclute che diventeranno pietre angolari del team, come i già citati Wolverine, Tempesta, Nightcrawler e Colosso, e di membri fondatori come Ciclope, Marvel Girl, Angelo e Uomo Ghiaccio. Il motivo d’interesse principale del volume è costituito dalla parata di artisti accorsi per fornire il loro contributo ai festeggiamenti. Una rappresentativa dei migliori talenti oggi in forze alla Marvel: si va da maestri come Alex Ross e Kevin Nowlan a veterani come Leinil Francis Yu, Chris Samnee e Phil Noto, da giovani star come Pepe Larraz, R.B. Silva e Mike Del Mundo ad una folta schiera di artisti italiani che da anni collaborano con la Casa delle Idee come Emanuela Lupacchino, Valerio Schiti, Marco Checchetto e Matteo Lolli. Ciascuno di loro, e i molti altri presenti in una lista troppo lunga da elencare, apporta il proprio talento donando nuova vita e uno storytelling fresco allo script di Wein.

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A seguire, viene riproposta anche la versione originale, disegnata da Cockrum, per stimolare un confronto tra classico e moderno. Pagine talmente iconiche da meritare l’esposizione in un ideale museo del fumetto, che ancora oggi colpiscono per la vitalità a loro conferita da un’artista alle prese col lavoro della sua vita. Chiudono il volume un commovente ricordo degli scomparsi Wein & Cockrum da parte delle rispettive vedove e un pezzo scritto dallo stesso Chris Claremont, che rievoca l’inizio di una leggenda a cui avrebbe contribuito in maniera determinante.

Ad X-Chris sono dedicate invece tutte le luci della ribalta del secondo volume presente nel cofanetto, la versione estesa di un altro classico che non ha bisogno di presentazioni: Dio ama, l’uomo uccide. Si tratta di una delle storie più celebri degli X-Men e di una prova d’autore di qualità assoluta da parte di Claremont, giunta al culmine di una fase importante della vita degli Uomini X. Sulla serie regolare, infatti si stava consumando la fine del secondo ciclo di Dave Cockrum come disegnatore, tornato su Uncanny X-Men dopo l’addio della superstar John Byrne che, in coppia con Claremont, aveva lanciato la testata verso vette qualitative inarrivabili grazie a classici come la Saga di Fenice Nera e Giorni di un futuro passato. Il ritorno di un Cockrum meno ispirato coincise con un momentaneo calo qualitativo del comparto grafico, che riprese quota grazie all’arrivo del giovane e talentuoso Paul Smith.

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Intanto, la Marvel aveva varato una linea di graphic novel, albi di grande formato ispirati al modello francese che ospitavano storie di maggiore ambizione autoriale rispetto a quelle che apparivano nella gran parte delle testate regolari. Gli X-Men, all’epoca, erano il più grande successo dell’editore, quindi apparve del tutto logico dedicare anche a loro un’uscita speciale della nuova linea a vocazione d’autore. Claremont, suggestionato dall’ondata conservatrice e reazionaria portata dal governo Reagan e dalla proliferazione di predicatori televisivi retrogradi e bigotti che cominciavano ad imperversare nelle emittenti tv americane, scrisse l’opera che meglio di ogni altra definisce la grande metafora della lotta all’intolleranza che è alla base della saga degli Uomini X. In Dio ama, l’uomo uccide, i pupilli di Xavier non affrontano robot sterminatori come le Sentinelle o nemesi venute dallo spazio come la Guardia Imperiale Shi’ar, ma avversari dotati del peggiore dei poteri: l’odio. Odio puro, quello distillato dal reverendo William Stryker nelle sue dirette televisive, nei confronti dei mutanti presi a paradigma di tutto ciò che è diverso e che, quindi, suscita paura nell’uomo della strada. Una paura cavalcata da Stryker e dal gruppo di assassini da lui segretamente finanziato, i Purificatori, che non esitano ad uccidere bambini che hanno la sola colpa di essere mutanti. Un confronto che dovrà essere risolto dagli X-Men non tanto sul piano fisico quanto su quello filosofico, in un finale drammatico che vedrà Ciclope, Wolverine e soci allearsi col nemico di sempre, Magneto, per mettere fine alla minaccia rappresentata da Stryker.

Si prova un senso di forte disagio a rileggere dopo tanti anni Dio ama, l’uomo uccide. Se all’epoca della sua uscita  rappresentava un monito affinché alcune pagine buie della storia non si ripetessero, oggi il capolavoro di Claremont risulta attuale più che mai. Attraversato da una narrazione tesa, cupa e a tratti disperata, questa classico del fumetto sembra ora solo un pallido riflesso del rigurgito di intolleranza che popola il nostro tempo, segnato da crisi di ogni tipo che favoriscono l’ascesa di seminatori d’odio e di cattivi maestri. Opera senza tempo, al cui risultato finale contribuì anche il tratto grezzo di Brent Anderson, costretto ad una sintesi del suo stile dai tempi di consegna molto stretti. Ne scaturirono invece pagine suggestive, dominate da un’energia nervosa che si sposò perfettamente con la sceneggiatura vibrante di Claremont. Dal 1982, anno della sua uscita, Dio ama, l’uomo uccide è una delle storie degli X-Men più celebri e ristampate, grazie alla sua capacità di riassumere nell’arco della sua durata le qualità migliori della grande epopea mutante di Chris Claremont. Non a caso è la fonte d’ispirazione principale per una delle migliori pellicole dedicate agli X-Men, il secondo capitolo della saga cinematografica mutante firmata da Bryan Singer.

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Il volume presente nel cofanetto ne presenta una versione estesa, con una cornice aggiuntiva firmata dagli autori originali che non aggiunge però nulla a un’opera che era già perfettamente compiuta. Molto interessanti sono invece gli extra, che presentano interviste agli stessi Claremont e Anderson, e le pagine a matita, mai mostrate prima, disegnate dall’artista originariamente previsto per la graphic novel, il grande Neal Adams. Adams completò solamente sei pagine prima di abbandonare il progetto, e la loro pubblicazione contribuisce a fare del volume una chicca imperdibile, come il cofanetto che lo ospita, per tutti gli appassionati della saga leggendaria degli X-Men.

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