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40 anni di Lupo Alberto: intervista a Mirco Maselli

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maselli caricatMirco Maselli ha contribuito a scrivere per Lupo Alberto insieme al gruppo di autori radunati da Silver. Attivo principalmente su Cattivik, negli anni duemila ha firmato diverse storie del Lupo, finendo per diventarne uno degli autori principali. Padovano, grafico, illustratore, vignettistista e sceneggiatore, Maselli ha iniziato nel settore dei fumetti per poi spostarsi sui libri illustrati.

Con lui abbiamo discusso del successo del personaggio e di come la sua carriera di sceneggiatore sia stata plasmato dal suo lavoro sulla creatura di Silver.

Lupo Alberto compie 40 anni di attività. Cosa comporta, secondo te, un traguardo del genere?
Intanto comporta l'accensione di un cero votivo al santo protettore dei fumettari. In Italia è raro che un personaggio umoristico prodotto da un Editore di nicchia sia così longevo. Qualcosa vorrà pur dire! Per esempio che se si ha coraggio e si crede in sé stessi e nel lavoro di qualità che si svolge, sopportando e superando gli ostacoli con perseveranza, ce la si può fare anche fuori dai sentieri più battuti.

Torniamo all'inizio. Da dove nasce la passione per i fumetti e dove si possono collocare i tuoi esordi?
Nasce dalle elementari, quando inventavo e disegnavo storielline di Paperino e company per la maestra. Ricordo ancor oggi il giorno in cui, a otto anni, ho disegnato le prime due vignette e poi, guardando tutte le pagine previste, ancora bianche e intonse, mi sono chiesto: "e mo'?"
Ho continuato così, scrivendo e disegnando alla cieca e senza programmazione, fino al liceo artistico, finché mi sono imposto una certa autodisciplina, per imparare davvero (da solo) come si fa, senza limitarmi a improvvisare. A 24 anni presentai una prima storia completa al Premio Pierlambicchi di Prato, allora l'unico concorso nazionale per fumettisti esordienti. Una vetrina di una certa rilevanza quindi, dalla quale uscirono anche autori poi divenuti di fama internazionale. Ne ricordo uno fra tutti, l'amico Stefano Tamiazzo, che oggi dirige anche la Scuola Internazionale dei Comics di Padova. Insomma, nel lontano 1989 ci provai anch'io e ottenni il secondo premio. Non male come esordio di un dilettante assoluto. Cominciai a crederci davvero e di li a due anni fui notato da Moreno Burattini, talent scout allora in giuria a Prato, collega su Cattivik e oggi coordinatore di Zagor alla Bonelli.

L'incontro con Lupo Alberto, invece, quando avviene?
Come lettore già ai tempi delle scuole Medie. Furono proprio i fumetti della magica coppia Bonvi-Silver a ispirarmi la passione per il fumetto umoristico e la ricerca continua della gag ironica, che ancor oggi è una mia caratteristica, mutuata anche da tanta commedia cinematografica all'italiana dei vari Monicelli, Risi, Scola, ecc.
Poi proprio Burattini fece il mio nome a Silver, che nel 1992 mi chiamò a far parte della sua equipe di giovani fumettari. Mi occupai per una decina d'anni delle storie di Cattivik e sporadicamente delle Sturmtruppen. Entrambi lasciati a Silver dal povero Bonvi, nel frattempo mancato nel tragico incidente stradale del 1995. Passai a Lupo Alberto solo dopo la chiusura del mensile Cattivik, avvenuta nel 2004.

Tra tutti i personaggi della fattoria McKenzie secondo te qual è il più difficile da sceneggiare? E quello con cui ti ritrovi più facilmente?
Mah... Sinceramente non è stato difficile con nessuno dei personaggi. Mi sono sempre e solo divertito un sacco: "Sempre meglio che lavorare" mi dicevo!
Il passaggio da Cattivik a Lupo Alberto mi ha profondamente arricchito come autore, dandomi proprio le basi per l'elaborazione creativa di varie psicologie individuali e dei rapporti fra loro, dovuto appunto alla struttura corale del fumetto del Lupo. Basi che sono state decisive per me, consentendomi il passaggio alla letteratura per ragazzi, dove appunto si devono fare i conti con la varietà di caratteri e la costruzione di trame, situazioni e personaggi a tutto tondo. Una volta partito con la prima storia corale, ho simpatizzato presto con tutti i personaggi della fattoria. E devo dire che mi sono tutti simpatici allo stesso modo. Il più divertente però è sicuramente il buon vecchio Glicerina, poraccio!
Con Cattivik in fondo si trattava invece di vestire sempre i panni dello stesso personaggio, quasi letteralmente, e dirsi: "ecco, ora sono qui in questa situazione, come mi comporterei se fossi il genio del male sfigato?". Divertentissimo sì, ma alla fin fine sempre la stessa minestra. Ricordo che negli ultimi anni in cui facevo Cattivik, dopo aver scritto un sacco di storie, il mio maggiore assillo era: "E ora dove cavolo lo faccio andare a far danni 'sto mostriciattolo nero?".

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Ha scritto e illustrato fumetti, libri per l'infanzia (tra cui La storia dell'immondizia, una cronistoria comica sulla spazzatura prodotta dall'uomo). Come cambia il linguaggio e il tuo modo di lavorare nei vari ambiti?
Devo dire onestamente che, nel cambiare il settore e il linguaggio creativo, mi sono portato appresso il metodo e gli strumenti che mi ero costruito durante la lunga permanenza nella "bottega del fumetto". Quando mi frulla in testa un'idea per un libro, faccio esattamente come facevo per le storie a fumetti. Cerco una ambiente tranquillo, per esempio il bellissimo parco vicino a casa mia, dove alterno passeggiate e sedute su tavoli improvvisati, per fantasticare e muovere personaggi, prima mentalmente e poi scribacchiando e scarabocchiando su foglietti volanti, per fermare il flusso di idee che prima o poi arriva inarrestabile (se non arriva cambiate mestiere, non l'ha ordinato il dottore!). Poi a casa cerco di decifrare quel coacervo di segni e "simboli esoterici" e sistemarli in modo più chiaro e codificato nel computer. E così via, in vari passaggi, di testo e disegno, sempre più raffinati, fino a ottenere qualcosa di presentabile a un editore. Personalmente quindi non è cambiato molto, se ci mettiamo anche il fatto che io unisco sempre, anche nei progetti di libro, scrittura e disegno in modo complementare. La narrazione procede insieme e in forma armonica, dal testo al disegno e viceversa. Proprio come prima nel fumetto.

In un lavoro creativo c’è sempre questa alchimia tra il “flusso di idee” di cui parli e un metodo di lavoro più rigoroso. Secondo te, quindi, la costanza, la pratica, il mettersi sul tavolo e sforzarsi di scrivere può bastare a crearsi una carriera o è necessario quella scintilla di talento innato?
No, è assolutamente necessaria la scintilla! Poi è ovvio che c'è anche mestiere, tecnica, metodi empirici, individuali o mutuati da altri, per fare in modo che le idee escano e prendano forma. Ma le idee devi averle prima. Devi sentirle scalpitare dentro di te, stimolate da quella sorta di reminiscenza che qualche elemento esterno ha ispirato. È un pescare nel pozzo del tuo inconscio un elemento che ti contraddistingue: quell'essenza, quel qualcosa che è solo tuo e che ti permette di dare a un lavoro creativo quel pizzico di originalità che distilla una nuova alchimia, anche se stai trattando temi e motivi trattati da migliaia di artisti prima di te. Io non riduco la costruzione di un'opera creativa allo strutturalismo, non sono uno che parte dalla tecnica per assemblare nuove opere, come se stessi shakerando un nuovo cocktail. No, l'ho fatto in passato... E anche spesso, per esigenze di mercato e per i tempi di lavorazione che imponevano ritmo e velocità. Molte mie storie di Cattivik sono nate così, per esempio.
Ma io credo nelle idee innate e nella loro forza, che è la sola che si può definire davvero arte. Arte secondo me è quando si fa qualcosa permeandola di un elemento innato, una sorta di additivo spirituale che appartiene solo all'autore. La tecnica è alla portata di tutti (certo in modi individuali e diversificati) e viene dopo.

Non tutti gli autori di fumetti ne leggono a loro volta. Tu che genere di lettore sei? Leggi molti fumetti? Se sì, cosa ti ha colpito ultimamente della produzione del settore?
Touché! In effetti non sono un grande lettore di fumetti. Ho avuto in passato le mie preferenze. Inizialmente, come già ho detto, i vari Cattivik, Sturmtruppen, Lupo Alberto, Nick Carter, Alan Ford... Ma dal punto di vista linguistico, direi che i fumetti che mi hanno segnato di più e insegnato il mestiere, sono stati quelli della scuola franco belga. Asterix innanzitutto. Il mitico René Goscinny è stato davvero una sorta di maestro virtuale per me. La sua raffinata ironia mi è entrata dentro e la sua emulazione è sempre stata la mia più grande ambizione d'autore. Ma in generale ho imparato molto dalla scuola della "linea chiara", dai grandi maestri del passato Hergé e Jacobs, per finire al funambolico Lewis Trondheim, che ho letteralmente divorato negli anni '90. Anche la sola lettura delle loro storie è una vera scuola di fumetto che consiglio vivamente a chi si vuole cimentare seriamente nella nona arte. Oltre a questo non ho seguito altro in modo così intenso da poterlo citare. Da quando faccio libri poi, davvero, leggo e mi procuro solo opere di questo genere, degli scrittori e illustratori che più mi ispirano. In particolare i grandi Roald Dahl e Quentin Blake. Fumetti non ne leggo più da anni, ahimè!

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È un paradosso interessante; ho sempre pensato che una volta entrati in un settore si acquisisce la prospettiva del professionista che vede gli altri prodotti come concorrenti. Hai mai sentito questa competizione, anche solo rispetto ai tuoi lavori passati o a quelli degli autori del Lupo?
Non ho mai sentito il senso della competizione. Certo riconosco che ci sono autori bravi e meno bravi. Ma per me è una sorta di confraternita. Siamo come sacerdoti che servono umilmente la stessa dea: l'arte. Con molta umiltà e con spirito di collaborazione, osservo e imparo da molti, e a mia volta spero di dare qualche spunto a qualcuno. Ma non è questo che conta. Conta solo esprimere sé stessi, come si è capaci. L'arte è una bambina che se la sai prendere per il verso giusto, ti invita a danzare con lei in una allegro girotondo. È più semplice di quanto si pensi, secondo me! Basta volerlo. Al diavolo la competizione, quella appartiene all'ego. E l'ego è un tappo che non permette il flusso potente e spensierato delle idee innate.

Quali sono le ragione che ti hanno spinto a passare dal fumetto, Lupo Alberto nello specifico, ai libri illustrati?
Da una parte è stata anche la necessità, lo ammetto. Nel senso che è finito il ciclo di vita dei mensili legati a Lupo Alberto e Cattivik e quindi mi sono dovuto riciclare in un altro settore creativo. Ma in tutta sincerità sentivo già da tempo una sorta di insofferenza per il linguaggio del fumetto. Non soddisfaceva più in pieno le mie esigenze di autore. Contemporaneamente la scoperta (e riscoperta) di autori della letteratura per l'infanzia mi ha aperto un mondo che sentivo più mio... Un richiamo della foresta, se vuoi. Quando facevo fumetti mi divertivo. Oggi, invece, facendo libri illustrati, sono felice! Ogni volta che finivo un fumetto ero contento. Oggi, ogni volta che finisco un libro, provo una gioia profonda, che mi commuove. È sottilmente diverso, non trovi?

C'è un gran fermento nel mondo dei fumetti per un progressivo allargamento verso il pubblico generalista, grazie anche alla riscoperta del "graphic novel" da parte dei reparti di marketing. Come trovi l'attuale panorama fumettistico italiano?
Ecco vedi, sono la persona meno adatta a dire qualcosa che abbia un senso compiuto su questo aspetto. Dico solo che, in fondo, il mio modo di fare libri per ragazzi somiglia molto a quella che viene definita oggi la "graphic novel". Un ibrido tra fumetto e letteratura che, per la verità, aveva già messo radici molti anni fa con le grandi opere di Hugo Pratt e Moebius, tanto per citare due mostri sacri. Ma se una cosa devo dirla su quanto vedo nel fumetto contemporaneo italiano, è che non posso non rimanere colpito dalla straordinaria perfezione stilistica dei disegnatori. Davvero oggi ci sono degli autori che disegnano come dei dell'Olimpo... Io li invidio visceralmente per la loro mostruosa bravura, non hanno nulla di umano. Mi fanno paura! Ma da quale pianeta provengono?

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