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Quando Muhammad Ali sfidò Superman

Era la notte tra il 3 e il 4  giugno scorso quando le agenzie di tutto il mondo hanno battuto la notizia della morte di Muhammad Ali, al secolo Cassius Marcellus Clay, il più grande boxeur della storia, “Sportivo del Secolo” per la rivista Sports Illustrated e icona della cultura pop. Il dolore di “The Greatest”, come amava definirsi con spavalda ma meritata iperbole, ha valicato i confini del mondo dello sport. Messaggi di cordoglio sono arrivati da capi di stato e da esponenti della cultura, a testimonianza della grandezza della figura di Ali, che è stato un campione della battaglia dei diritti civili prima che del ring.

La sua avventura sportiva ed umana si compie sullo sfondo di due decenni cruciali per la storia americana e mondiale, gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso: è proprio il nostro Paese a fornire a Cassius Clay la sua prima ribalta sportiva, con la vittoria della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Nel 1964, a soli 22 anni, conquista il titolo di Campione del Mondo battendo Sonny Liston in uno storico match. Poco dopo arriva la prima delle sue decisioni controverse: Clay aderisce al movimento afroamericano Nation of Islam e cambia nome in Muhammad Ali. Sono anni difficili per gli Stati Uniti: il presidente John Fitzgerald Kennedy è stato ucciso a Dallas l’anno precedente e si apre un decennio difficile, segnato dall’impegno bellico in Vietnam, evento traumatico che segna la storia americana e contro il quale il carismatico Ali non tarda a prendere posizione. Nel 1967 il Campione viene arrestato per renitenza alla leva e privato del titolo in seguito al suo rifiuto di combattere in Vietnam, posizione che gli viene dettata sia dalla sua religione, sia da una convinta obiezione di coscienza (Non ho niente contro i Viet-Cong. Loro non mi hanno mai chiamato “negro”). Ed è proprio la sua battaglia come obiettore di coscienza e per le sue posizioni contro la guerra a renderlo un’icona della controcultura di quegli anni, simbolo per eccellenza del Black Power.

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Il Campione tornerà sul ring nel 1971, a seguito dell’annullamento della sua condanna da parte della Corte Suprema. Gli anni successivi cementano definitivamente il mito di Ali, a partire dai mitici match contro Joe Frazier, il rivale per eccellenza, per arrivare al leggendario Rumble in the Jungle (“Terremoto nella Giungla”), l’incontro con George Foreman combattuto e vinto drammaticamente a Kinshasa, nello Zaire, nel 1974, e celebrato in uno straordinario documentario, Quando eravamo Re, diretto da Leon Gast. Sullo sfondo la storia americana continua a scorrere: l’innocenza ormai perduta degli anni ’60 ha lasciato il posto alle inquietudini degli anni ’70, il Vietnam è un fallimento drammatico, ma il peggio, se possibile, deve ancora venire: è lo scandalo Watergate, imputabile al presidente Nixon, a far vacillare la fiducia degli americani nelle istituzioni. La sfiducia e il disorientamento dell’americano medio viene intercettato e ben rappresentato dallo scrittore di Captain America, Steve Englehart, nella celebre Saga dell’Impero Segreto, attraverso l’immagine simbolo del buon Capitano che getta il costume alle ortiche dopo aver realizzato il livello di corruzione del sistema politico e assume l’identità di Nomad, l’uomo senza patria. La stella di Ali attraversa in pieno questi anni convulsi della vita politica e sociale americana e ne diventa uno dei simboli, grazie ad una vena polemica mai sopita e al suo indomito carattere. La sindrome di Parkinson, terribile malattia che gli viene diagnosticata nel 1984 dopo che i primi sospetti lo avevano spinto al ritiro già nel 1981, non spegne la fiamma che arde nel cuore del campione, anzi quest’ultima conosce una solenne e commovente sublimazione alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, quando un Ali ormai minato nella salute viene scelto come ultimo tedoforo nella cerimonia di apertura, commuovendo il mondo per il suo coraggio.

Non stupisce quindi, alla luce di quanto detto, che Muhammad Ali all’apice della sua fama fosse considerato alla stregua di un supereroe da milioni di afroamericani e non solo. Il parallelismo tra i colorati giustizieri della DC e della Marvel e il suo assistito non era sfuggito a Don King, rampante manager del Campione. King, che nel decennio successivo avrebbe curato anche gli interessi di un giovane Mike Tyson, era in anticipo sui tempi: era ben consapevole della potenza della comunicazione e del marketing e lo aveva dimostrato organizzando eventi come il già citato Rumble in the Jungle e il suo “sequel”, il match tra Ali e Frazier nella capitale delle Filippine, ribattezzato “The Thrilla in Manila”. Nel 1976, in un’epoca in cui i giornali non si occupavano quasi mai di fumetti, aveva destato scalpore l’incontro tra i due pesi massimi di DC e Marvel, Superman contro l’Uomo Ragno: La Battaglia del Secolo, che era stato un clamoroso successo di vendite. Il fatto non era sfuggito a King, sempre alla ricerca del colpo a sensazione, che si presentò di persona al 75 Rockfeller Plaza, sede della DC all’epoca, con un proposta folle ma intrigante: Superman avrebbe affrontato una nuova sfida contro un avversario speciale, e quell’avversario sarebbe stato nientemeno che Muhammad Ali. La dirigenza della DC sulle prime vacillò ma poi decise, nella persona del nuovo editore Jenette Kahn, di accettare la sfida. Come ricorda la stessa Kahn, nel 1976 Muhammad Ali era percepito come un’eroe popolare di proporzioni iconiche, in particolare per la sua ferma opposizione alla guerra in Vietnam e un’obiezione di coscienza che gli aveva fatto perdere quattro degli anni migliori della carriera.
Ma la storia che sarebbe nata dall’incontro tra le due grandi icone non sarebbe stata solo un occasione di puro intrattenimento, ma anche il pretesto per sviscerare il significato delle azioni e degli ideali che avevano reso, ciascuno a modo suo, Superman e Ali degli eroi.

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Per realizzare un compito così arduo c’era bisogno del  miglior team  creativo possibile. Fortunatamente, la DC lo aveva in casa. E così il dinamico duo formato dai testi di Denny O’Neil e dai disegni di Neal Adams venne messo all’opera. La coppia era reduce dal successo delle storie in coppia di Lanterna Verde e Freccia Verde, testata per la quale avevano affrontato per la prima volta in un fumetto mainstream problemi spinosi come la questione razziale e la diffusione delle droghe tra i giovani; inoltre, dopo la sbornia camp del decennio precedente, O'Neil e Adams avevano riportato Batman alle sue origini di detective e vendicatore notturno, come immaginato in origine da Bob Kane. La coppia partiva sotto i migliori auspici, e il Dio del Fumetto fu dalla loro parte. Il risultato fu all’altezza delle aspettative, anche se le difficoltà non mancarono, tra l’improvviso abbandono di O’Neil, che lasciò ad Adams anche l’onere dei testi e la pressione dello staff di Ali che pretendeva il controllo creativo (si mormora che il pugile avesse riscritto alcune battute dalla sua controparte cartacea).

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L’opera, prevista per l’autunno del 1977, vide la luce nella primavera del 1978. La storia prendeva le mosse dalla minaccia di un invasione della Terra ad opera della razza aliena Scrubb: per evitarla un campione terrestre avrebbe dovuto affrontare in un match il campione degli Scrubb, Hun’ya. Superman e Muhammad Ali si propongono come difensori della Terra, ma tra i due si accende un litigio su chi debba rappresentarla. Superman sostiene, in virtù dei suoi poteri, di essere il prescelto. Ali, dal canto suo, fa notare all’Uomo d’Acciaio di non essere nativo della Terra. La diatriba viene diramata da un emissario Scrubb, che priva momentaneamente Superman dei suoi poteri, al fine di poter affrontare Ali in un match alla pari e stabilire chi sarà la sfidante di Hun’ya. È lo scontro del secolo, trasmesso in tutto l’universo. L’Uomo d’Acciaio ha la peggio e Ali viene scelto come sfidante. Al termine di un match emozionante il Campione Terrestre batte Hun’ya. Ma Rat’lar, capo degli Scrubb, livido di rabbia per l’esito della sfida, decide di attaccare lo stesso la Terra: sarà fermato da un recuperato Superman e dallo stesso Hun’ya, deluso dal comportamento scorretto del suo leader. Superman e Ali possono dunque tornare sulla Terra: il Campione rivela all’Uomo d’Acciaio di aver compreso la sua identità segreta e, stringendogli la mano, chiude la rivalità decretando che entrambi sono “i più grandi”.

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La storia risente molto delle atmosfere da space opera che nel 1978, grazie al successo di Guerre Stellari dell’anno precedente, erano di gran moda. Ma dietro l’apparato fantascientifico è evidente lo sforzo di Adams e O’Neil di tradurre in fiction i valori di cui Ali era convinto sostenitore: il bando ad ogni forma di razzismo, la collaborazione tra bianco e nero, la lotta all’oppressione e all’ingiustizia, il valore del coraggio e del sacrificio, il rispetto nei confronti dell'avversario, che va trattato con onore anche se sconfitto. Un inno alla libertà che risuona ancora oggi, tra le pagine magnificamente illustrate da un michelangiolesco Neal Adams in stato di grazia, autore di anatomie muscolose ma agili e snelle allo stesso tempo, che qui realizzò uno dei suoi lavori migliori. A partire dalla splendida e iconica cover, che ritrae, tra gli spettatori del match tra Superman e Ali, alcuni volti celebri della politica, dello spettacolo, dello sport e della cultura dell’epoca: i Jackson 5, Pelé, Frank Sinatra, Ron Howard, Raquel Welch, Liberace, Christopher Reeve, Lucille Ball, Sonny Bono, Cher, Jimmy Carter, Gerald Ford, Andy Warhol, Kurt Vonnegut, insieme ai vari Batman, Lex Luthor e altri eroi DC nelle loro identità borghesi come Oliver Queen, Hal Jordan e Barry Allen.

Superman Vs. Muhammad Ali è un super-classico che va letto e riletto, un omaggio ad un campione indimenticabile e un’opera che cattura in modo unico lo spirito di un’epoca… quando eravamo Re.

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