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X-Men: dall'inizio a L'Inizio

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Nei giorni in cui X-Men: L’Inizio, la pellicola sulle origini del supergruppo mutante, approda sul grande schermo, può fare un certo effetto pensare che l'esordio cinematografico degli X-Men risale ormai a undici anni fa: un corso storico di tutto rispetto, al cinema, e che non accenna ad esaurirsi, segno di una buona vitalità del brand, ancora ricca di potenzialità e di attenzione da parte del pubblico.
Per spiegare questa fortuna, sopravvissuta ad alcuni importanti passi falsi e a certe pesanti cadute di stile, si può di sicuro fare riferimento alla solida base di fan degli X-Men formatasi a partire dagli anni ’60 e coltivata nei decenni attraverso la serie a fumetti, i cartoni animati e ogni altro prodotto derivato. Ma limitarsi a considerare il cosiddetto fandom storico dei mutanti non sembrerebbe una spiegazione sufficiente (come d’altra parte dimostrano evidenti flop commerciali di titoli altrettanto popolari tra gli appassionati, come ad esempio Watchmen). La vera spiegazione, con ogni probabilità, è invece da ricercare esattamente nelle origini della vicenda cinematografica degli X-Men e nella sua evoluzione, proprio a partire dalla prima pellicola del 2000.

X-Men (2000)

X-Men-2000X-Men, il primo film sul gruppo mutante, riveste per il settore un’importanza capitale: non solo ha introdotto questi personaggi al cinema per la prima volta, ma soprattutto ha costituito il vero e definitivo sdoganamento del genere supereroistico al cinema. Certo, c’era stata la serie su Blade che aveva per prima incoraggiato la Marvel a scommettere sugli adattamenti filmici dei propri personaggi, ma Blade non è un supereroe a tutto tondo e non poteva costituire un “rito di passaggio” per il genere supereroistico (oltre a essere, sotto il profilo tecnico, un diverso tipo di produzione rispetto a quelle che avrebbero seguito, a partire appunto da X-Men). La vera controprova che Hollywood aspettava, invece, arrivò proprio con la prima pellicola sui mutanti Marvel: caratterizzandosi in maniera chiara sotto i profili del budget, delle modalità di produzione e degli assetti distributivi, nel 2000 X-Men fu il primo film a portare con successo sul grande schermo i contenuti dei fumetti sui supereroi Marvel, senza doverli storpiare nella loro essenza. È sul successo di questa pellicola, che a sua volta era dovuto al suo livello qualitativo, che si è poi fondata la fortuna dell’intera serie fino ad oggi; ma più in generale anche la fortuna dell’intero genere supereroistico hollywoodiano, che negli anni ’70, ’80 e ’90 aveva invece vissuto gli ottimi exploit dei primi film su Superman e Batman come dei casi isolati, entrambi andati incontro a tristi declini. Nel 2000 X-Men stabilì invece un nuovo termine di paragone, dettando la nuova linea per i supereroi al cinema.

L’operazione fu un azzardo non da poco, ma proprio questa volontà di rischiare si rivelò la chiave del successo, riassumibile di fatto in un unico nome: Bryan Singer. La scelta di affidare il progetto a un regista dalla sensibilità tanto particolare poteva in apparenza cozzare con la logica da blockbuster cui si mirava, ma al contrario si rivelò l’ingrediente fondamentale per la riuscita dell’operazione. Singer dimostrò (come già aveva fatto Tim Burton con il suo Batman) che era possibile infondere un’impronta autoriale a questo genere e al contempo produrre film alla portata di tutti. Ma la vera ricchezza portata dal regista fu un’attenzione ai personaggi (non facile, vista l’ampiezza del cast), che fece di X-Men qualcosa di più del solito film d’azione: ne fece qualcosa che poteva coinvolgere lo spettatore nell’intimo, portando per la prima volta sul grande schermo i tormenti del supereroe visto come persona a confronto con il suo mondo, proprio secondo la classica ricetta Marvel del “supereroe con superproblemi”.
Da questo punto di vista, anche il tono e le tematiche trattate dalla pellicola si rivelarono di primaria importanza. Il fatto che questi personaggi si trovassero ad agire nel mondo, introdusse rilevanti elementi di carattere politico, sociale e culturale che i precedenti film del filone avevano del tutto ignorato, e che pochi altri in seguito avrebbero saputo riprendere con la stessa sensibilità. La bravura di Singer nell’includere questi aspetti fu quella di raccontarli in maniera accessibile a tutti, poggiando proprio sulla forza “metaforica” che caratterizza gli X-Men fin dai loro esordi fumettistici per mano di Stan Lee e Jack Kirby. Anche in questo senso questo film è definibile come la prima vera creatura Marvel in celluloide.
Per il resto, X-Men stabilì pressoché tutti gli elementi che avrebbero poi caratterizzato anche le successive pellicole della serie: il rapporto tra umani e mutanti e le differenti visioni di Xavier e Magneto, la centralità di Wolverine come anima del gruppo e chiave di cambiamento, l’importante inquadramento che lasciava ben intendere che la storia dei mutanti veniva da lontano e lontano sarebbe andata. L’inizio e la fine del film, con le scene nel campo di concentramento e la partita a scacchi tra Magneto e Xavier, sono probabilmente i simboli principali di questa concezione.

L’importanza di questo primo film per tutta la serie fu per altro stabilita anche riguardo all’aspetto puramente visivo, introducendo le maggiori novità rispetto al fumetto (che comunque a breve ne sarebbe stato influenzato di ritorno, in particolare nel fondamentale ciclo firmato da Grant Morrison). L’estetica della pellicola, dai costumi alla rappresentazione dei poteri, dalla scenografia fino alla fotografia, fu a sua volta un ingrediente preponderante nell’affermare il successo del film e nello stabilire un’asticella di cui le produzioni successive avrebbero dovuto tener conto.
Infine, bisogna ricordare anche la particolare scelta degli attori operata da Singer. Salvo Patrick Stewart (Xavier) e Ian McKellen (Magneto), solidi interpreti già noti al pubblico (per quanto non celeberrimi), il cast non è composto da attori famosi, come invece era stato fatto nelle precedenti serie di Superman e Batman. Singer preferisce invece farsi accompagnare da volti poco conosciuti, ma che sappiano portare sullo schermo gli aspetti dei personaggi cui la sua sensibilità mirava maggiormente, proprio in funzione di quell’attenzione all’intimità di cui si diceva prima. In tal senso, il caso simbolo è quello di Hugh Jackman: la sua stazza fisica fece storcere il naso a molti, per via del fatto che sarebbe risultata infedele rispetto alla classica raffigurazione di Wolverine e della sua bassa statura; tuttavia, una volta visto “in azione”, Jackman ha per lo più convinto, proprio per la sua capacità di recuperare l’anima del personaggio (sotto la sapiente direzione di Singer, come i film successivi proveranno o controproveranno).

In generale, al netto di effetti speciali discreti ma ancora da perfezionare, nonché di alcuni piccoli difetti dovuti anche alla natura “pionieristica” del film, X-Men si impone come una prima pietra di paragone per il genere supereroistico, mostrando al contempo la possibilità di una combinazione felice tra l’essenza del fumetto e il linguaggio cinematografico, con un occhio particolare al coinvolgimento emotivo del pubblico. Un coinvolgimento tanto forte che sarebbe durato ancora a lungo, determinando un capitale di “affetto” e riuscendo a prevalere sui vari inciampi che la serie avrebbe conosciuto.

X-Men 2 (2003)

X-Men-2003X-Men 2, sequel diretto del primo film, è forse da considerare il migliore dell’intera serie ad oggi, e ha contribuito non poco a rafforzare quel legame tra il brand e il pubblico che già nel 2000 si era formato. Migliora nettamente l’aspetto più tecnico del film, con effetti speciali di un altro mondo rispetto ai precedenti e un Bryan Singer più a suo agio rispetto alla prima esperienza, in grado di confezionare una storia dagli equilibri perfetti, con una carica emotiva misurata ma di grande efficacia.

Con questa pellicola si tenta prima di tutto di espandere la storia narrata nel 2000, pur rimanendovi in totale continuità. I personaggi principali rimangono gli stessi, ma vengono introdotti o approfonditi altri personaggi noti ai fan come Nightcrawler (Alan Cumming), l’Uomo Ghiaccio (Shawn Ashmore), Mystica (Rebecca Romijn), Pyro (Aaron Stanford), Lady Deathstryke (Kelly Hu), mentre si accenna anche ad altre figure amate dal pubblico come Colosso (Daniel Cudmore). Tale espansione, inoltre, riguarda la storia in due aspetti diversi: da un lato, si continua a scavare nel passato della storia mutante, in particolare attraverso la ricostruzione del passato di Wolverine e del cattivo William Stryker (Bryan Cox); dall’altro, si approfondisce la complessità del rapporto tra alcuni personaggi, e in particolare quello tra Jean Grey (Famke Janssen) e Ciclope (James Marsden), tra l’Uomo Ghiaccio e Pyro, tra Xavier e Magneto. Quest’ultimo, in particolare, si conferma come una delle figure più affascinanti di tutta la serie, venendo qui tratteggiato in maniera ancor più ambigua e profonda, sempre più lontano dal cliché del cattivo a tutto tondo: Magneto si rivela la vera chiave di lettura della diversità dei mutanti e delle contraddizioni che tale conflitto comporta, avendo per altro una splendida spalla nel personaggio di Mystica.

Sotto il profilo tematico, X-Men 2 lascia ogni indugio e affonda le mani senza timore di sporcarsele nella questione della paura generata dall’evoluzione e dal cambiamento. L’intolleranza per la diversità e le diverse strategie per affrontarla costituiscono il fulcro attorno a cui si concentrano tutti i conflitti della pellicola. Non a caso, poiché la posta in gioco si alza in questo modo, anche la rappresentazione dei poteri e del potere si fa più grandiosa e inventiva, si espande anche questa nel pieno della propria potenzialità, pur senza mai raggiungere l’esagerazione; esplodono la furia di Wolverine e il potere di Jean Grey, si rivela in tutta la sua spaventosa potenza la telepatia di Xavier.

In generale, tutti gli elementi che hanno fatto la fortuna del primo film vengono qui riproposti e migliorati mediante un uso più consapevole e calibrato, aumentando la spettacolarità, senza mai perdere di vista l’obiettivo primario: far sentire coinvolto lo spettatore, toccando alcune corde che hanno a che fare con la sfera dell’intimo. L’attenzione ai personaggi rimane insomma il centro dell’attenzione e anzi viene approfondita, giovandosi per di più di una storia più complessa e stratificata, ricca di colpi di scena, suspense e tensione emotiva.
X-Men 2, in conclusione, raccoglie il capitale ereditato dal film precedente e lo solidifica, facendo del marchio “X-Men” una sicurezza e proiettandolo verso inevitabili sequel, pronti a essere accolti da una base di fan che, ormai, potrebbero anche non conoscere il fumetto.

X-Men: Conflitto Finale (2006)

X-Men-2006Il terzo capitolo dei mutanti Marvel al cinema segna anche, in maniera visibile, il declino della serie. La pellicola sconta una sequela di situazioni venutesi a determinare nei mesi e addirittura nelle settimane precedenti all’inizio delle riprese. In primo luogo, Bryan Singer comunica che non si occuperà della regia di questa pellicola, poiché lavorerà alla nuova produzione su Superman. Singer porta con sé anche James Marsden, facendo venir meno la figura di Ciclope, che infatti nel film fa poco più di una breve comparsata (anche se la sua sparizione verrà bene o male giustificata in maniera adeguata all’economia del film, seppure la sua presenza avrebbe giovato alla storia). Per correre ai ripari, la 20th Century Fox si rivolge a un altro giovane regista con un’impronta piuttosto personale: Matthew Vaughn, allora conosciuto per il film The Pusher (Layer Cake), e che in seguito avrebbe diretto anche il gaimaniano Stardust e Kick-Ass, adattamento dell’omonimo fumetto di Mark Millar. Tuttavia, anche Vaughn dopo qualche settimana si tira indietro, ufficialmente per motivi personali ma, come si capirà bene in seguito, per importanti divergenze di vedute con i produttori sulla direzione che il film avrebbe dovuto prendere. A complicare la situazione, anche l’attrice Halle Berry si mostra molto titubante a riprendere il ruolo di Tempesta interpretato nei due film precedenti, poiché a suo dire non abbastanza valorizzato (ragione anche di forti attriti con Singer, che però è ormai fuori dal progetto). Così, a poche settimane dall’inizio delle riprese, rimaneggiata in fretta e furia la sceneggiatura, la sedia del regista viene affidata all’ultimo momento a Brett Ratner.

I risultati di questa concitata fase di preproduzione sono evidenti per X-Men: Conflitto Finale. A fronte di una fattura ottima sotto il profilo più tecnico (effetti speciali, fotografia, design, ecc.), il racconto e i personaggi mostrano svariate carenze. La sceneggiatura sembra voler contenere troppi elementi in pochissimo tempo e spazio, mentre l’approfondimento dei personaggi tanto caro a Singer perde qui di sottigliezza. Ratner, d'altra parte, non fornisce al film alcuna impronta personale, dandogli invece una connotazione generale vagamente anonima, senza carattere. Dalla visione risulta quasi percepibile il lavoro di stratificazione attraversato dalla pellicola, dalle idee iniziali di Singer e della sua squadra al breve passaggio di Vaughn, fino alla precipitosa chiusura di Ratner con tutti gli aggiustamenti necessari in extremis.

Ne soffrono, a vario titolo, un po’ tutti i personaggi. I nuovi arrivati Angelo (Ben Foster) e Bestia (Kelsey Gramer), che, al pari di Nightcrawler in X-Men 2, avrebbero potuto introdurre interessanti variabili nella storia, si limitano invece a una presenza discontinua e piuttosto superficiale. Un po’ meglio va a Shadowcat (Ellen Page), che si ritaglia un ruolo un po’ più interessante a fianco dell’Uomo Ghiaccio e nel triangolo con Rogue (Anna Paquin). Triste la maggior presenza, tutto sommato inutile, di un personaggio come Colosso, mentre di pari superficialità risulta l’introduzione del Fenomeno (Vinnie Jones) e di Madrox (Eric Dane). Si giova della situazione, a modo suo, Jean Grey, assurta in virtù di sceneggiatura a personaggio centrale, ma la sua caratterizzazione rimane quasi macchiettistica, come pedante risulta a tratti Tempesta, frutto di alcune scene forzate per andare incontro alle richieste della Berry. Il vero peccato, tuttavia, è per un Wolverine sottotono rispetto alle pellicole precedenti: seppur ritratto in alcune scene molto violente, è evidente come Jackman, perdendo la guida di Bryan Singer, non trovi più alla perfezione i confini del suo personaggio, trovandosi per altro a dover ricoprire anche la parte di Ciclope nel rapporto con Jean Grey. Salvo la buona prova data ancora una volta da McKellen, Stewart e Romijn, insomma, quasi tutti i personaggi perdono di profondità e interesse, limitandosi a svolgere le loro parti in commedia.

Ratner paga inoltre, soprattutto a confronto con Singer, una difficoltà nel saper dosare la misura. In X-Men: Conflitto Finale tutto appare leggermente esagerato: le scene d’azione, le emozioni dei personaggi, persino le sensazioni che si vorrebbero suscitare nel pubblico (dicesi sensazionalismo). Anche dal punto di vista tematico, non si fa altro che riproporre il conflitto uomo-mutanti ingigantendolo, ma senza introdurvi alcuna nuova dimensione qualitativa, come X-Men 2 aveva saputo fare rispetto a X-Men: l’unico aspetto davvero interessante in questo senso, cioè il tema della cura, è qui affrontato in maniera sporadica, sempre per far spazio alla superflua ricchezza di personaggi e situazioni presenti nella pellicola. Il risultato finale è una lieve sensazione di caricatura, nel vero senso della parola.

Nel complesso X-Men: Conflitto Finale risulta un discreto film d’azione che può giovarsi del background costruito dalle due pellicole di Singer, ma che rispetto a queste resta una buona spanna sotto. Il film fa comunque registrare incassi superiori agli altri due capitoli della serie, conferma della fiducia del pubblico, le cui file probabilmente sono state ingrossate da quegli spettatori più in cerca di pura evasione adrenalinica, vista la maggior dose di azione rappresentata sullo schermo.
Non è tuttavia un caso se il progetto di un terzo sequel sul gruppo mutante (pur previsto) sia stato messo da parte nell’immediato in favore di un cambio di rotta: la scelta cioè di rivolgere l’attenzione a un altro degli aspetti interessanti stabiliti ed esplorati dai primi due film, vale a dire la storia dei mutanti. È così partito il filone delle origini degli X-Men, che prevedeva in un primo tempo un film su Magneto (poi in parte diventato l’attuale X-Men: L’Inizio) e un secondo su Wolverine.

X-Men le Origini: Wolverine (2009)

Wolverine-2009X-Men le Origini: Wolverine può essere considerato il primo approdo della seconda fase cinematografica degli X-Men, quella appunto rivolta a riscoprire il passato dei personaggi. In un primo tempo, dalle dichiarazioni e mosse dei produttori (tra i quali figura lo stesso Hugh Jackman, che torna anche a interpretare il protagonista), il film parrebbe doversi differenziare non poco dalla precedente trilogia, e in particolare ripartire con nuovo impulso dopo il passo falso (artisticamente parlando) di X-Men: Conflitto Finale. L’interesse del pubblico c’è ancora ed è evidente, in particolare nei confronti di Wolverine, protagonista indiscusso della trilogia; ma occorre tornare a offrire un prodotto di diversa qualità. La scelta di Gavin Hood come regista sembra andare in questa direzione, vista la particolarità dei suoi precedenti film di maggior successo (Il suo Nome è Tsotsi, Oscar per il miglior film nel 2005, e Rendition: Detenzione Illegale). Dunque per la regia sembra si punti di nuovo su una dimensione autoriale, mentre secondo le parole di Jackman la storia dovrebbe avere tonalità molto oscure e scendere nelle viscere del personaggio Wolverine (anche sull’onda dell’enorme successo conquistato da Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, ennesima conferma della validità del supereroe d’autore). Tuttavia, a queste intenzioni, ottime sulla carta, segue un risultato piuttosto deludente.

Ancora una volta sembra si voglia mettere troppa carne al fuoco: in un unico film si ripercorre l’intero passato di Logan/Wolverine dalla sua infanzia (in pratica sorvolata) all’infusione dell’adamantio (già a metà film), fino al grandioso scontro finale. Ne soffre l’approfondimento di ogni singolo momento, con il risultato che la trama del film sembra ridursi a un’elencazione di scene. In due ore di film piene zeppe di avvenimenti, è inevitabile che il tutto risulti piuttosto forzato e innaturale, con sviluppi che sembrano esserci per ragion di sceneggiatura, più che per logica consequenzialità: clamorose, in tal senso, la scena in cui Logan non si accorge dell’assenza di ferite sul corpo di Silverfox, o quella in cui accetta di farsi impiantare l’adamantio. Per la presenza continua di sfondoni del genere, il film risulta poco credibile nella sua totalità.
Anche qui, poi, si ripete l’errore fatto con la pellicola precedente, riempiendo la storia di personaggi la cui presenza è per lo più inutile ai fini della trama, al solo fine di darli in pasto al pubblico (è il caso del Gambit interpretato da Taylor Kitsch). La sovrabbondanza di personaggi va a sommarsi alla forzata velocità della narrazione, con un esito ancor più caotico: per lo spettatore è impossibile riflettere su tutto quello che vede, né il film offre grandi temi su cui riflettere (a differenza dei precedenti).

Sotto il profilo contenutistico, infatti, il film è quasi vuoto: il protagonista non ha una vera e propria crescita, mentre si limita a essere tormentato da eventi sempre più grandi di lui. L’empatia con i personaggi che già scemava nel terzo capitolo della trilogia, qui è praticamente assente, e le poche occasioni che la storia poteva offrire in tal senso sono sacrificate sull’altare della narrazione iperaccelerata, nella fretta di arrivare all’esplosione successiva. Spariscono del tutto le tematiche tipiche degli X-Men cinematografici, e se questo poteva essere plausibile trattandosi di un film a solo su Wolverine, non è invece giustificabile il fatto che siano assenti anche tematiche tipiche di questo personaggio (la bestialità, il riscatto, l'irrequietezza, ecc.).
Gavin Hood sforna una regia del tutto anonima e per niente ispirata, mentre Jackman conferma ottima presenza scenica, ma non cattura più l’attenzione come nei primi film, ancora una volta a dimostrare che senza una guida valida non riesce a infondere pieno fascino al suo Wolverine. Degni di nessuna nota gli altri interpreti, salvo, in minima parte, Liev Schreiber nei panni di Victor Creed (Sabretooth) e Ryan Reynolds nelle battute iniziali di Wade Wilson (Deadpool).
Dal punto di vista tecnico, nonostante alcune sviste madornali (Wolverine che taglia a X una porta, con i pezzi centrali che rimangono sospesi in aria), il film è di buona fattura, ma niente che possa segnalarsi negli annali del cinema.
Il “peccato” più grande di questa pellicola, presa nella sua generalità, è quello di non avere un’anima, pur incentrandosi su uno dei personaggi più amati proprio per la sua anima. Nonostante questo, ancora una volta, il pubblico premia il film al botteghino, complici anche un’aggressiva campagna promozionale e il carisma del personaggio e del suo interprete (Jackman è in quei mesi eletto uomo più sexy del mondo, per esempio).

Tuttavia, di nuovo ai piani alti devono aver subodorato qualcosa, se è vero come è vero che per l’annunciato sequel sono stati predisposti molti cambiamenti. In primo luogo non vengono confermati né lo sceneggiatore né il regista, mentre Jackman assicura in varie interviste un importante cambio di passo per quel che attiene alle tonalità del film. A conferma di ciò, nei mesi successivi viene annunciato che alla regia della pellicola arriverà Darren Aronofsky, reduce dai trionfi de Il Cigno Nero. Il nuovo regista si affretta inoltre a precisare che il suo film non si legherà al precedente, segno ulteriore della volontà di prenderne le distanze. Infine, e siamo all’oggi, anche Aronofsky abbandona la produzione (con una scusa simile a quella usata a suo tempo da Vaughn). Attualmente il sequel intitolato The Wolverine è in via di riorganizzazione; anche se la sua realizzazione è cosa da considerare certa, va detto che se il primo capitolo avesse convinto appieno il pubblico e la casa di produzione, un sequel sarebbe andato in cantiere in maniera molto più spedita, e non si sarebbe assistito a un cambio generale della guardia (sceneggiatore, regista): segno che qualcosa decisamente non è andato.

X-Men: L’Inizio (2011)

Dopo che la pellicola su Wolverine è sprofondata ulteriormente nella curva discendente avviata da X-Men: Conflitto Finale, alla Fox devono essersi messi a ragionare seriamente sulle ragioni dello scadimento dei film legati ai mutanti Marvel. Con ogni evidenza, poi, devono aver capito la necessità di recuperare qualcosa dei primi due film, una sensibilità che si era poi persa. Non a caso, per realizzare il film intitolato X-Men: First Class (in Italia X-Men: L’Inizio) viene in un primo momento contattato proprio Bryan Singer, che torna con piacere a bordo di un progetto mutante, rimettendoci le mani e iniziando a sviluppare la sceneggiatura. Tuttavia, ancora una volta Singer deve rinunciare alla regia del film, rimanendo però in veste di produttore (quindi con un forte controllo sul prodotto finale) e passando la palla, guarda caso, a Matthew Vaughn, già da lui benedetto al tempo del terzo capitolo della prima saga. Il tentativo che si è fatto con il duo Singer-Vaughn, quindi, può essere stato quello di recuperare in qualche modo la sensibilità originale.

Per altro, si è presto compreso che il progetto “First Class” sarebbe stato a sua volta un film sulle origini, questa volta incentrato però sull’intero gruppo degli X-Men, e in particolare sul rapporto tra Charles Xavier e Erik Lehnsherr (Magneto). Dunque un ritorno alle origini su tutti i piani: dai talenti artistici e professionali coinvolti alle tematiche trattate, oltre che per gli eventi presentati nella trama.
Se questo nuovo esperimento potrà dirsi riuscito, ad ogni modo, è qualcosa che potremo valutare solo in questi giorni.

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