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Di complotti, pregiudizi e altro... (Eisner e non solo)

Taeterrima gens secondo Tacito, deicidi secondo i cristiani, infidi e traditori secondo la vulgata popolare, uccisori di bambini durante i sacrifici pasquali persino secondo il Chaucer dei Racconti di Canterbury, personaggi tragicomici secondo Shakespeare, usurai e venditori di lorgnettes secondo il Flaubert del Dizionario dei luoghi comuni, gli ebrei hanno subìto in ogni tempo e in ogni luogo ogni sorta di etichettatura e di epiteto, ogni sorta di infamia e di pregiudizio sia nel mondo della fiction, sia nel mondo sottratto all’effetto di reale di barthesiana memoria. Non c’è dunque da sorprendersi se ancora il XXI secolo si macchia di preconcetti e idee false, perpetuate di generazione in generazione da gente ignorante e bigotta o, e forse è peggio, da gente in malafede e manipolatrice. Le idee popolari, le convenzioni facilmente accettate senza uno scrupoloso e legittimo controllo delle fonti, amava sostenere il misantropo e illuminista Chamfort (1741-1794), sono di certo delle stupidaggini. Il problema nasce quando le dicerie, le maldicenze, le superstizioni smettono di occuparsi di gatti neri e numero di commensali a tavola e toccano invece la natura di un popolo, il destino di una nazione ormai, proverbialmente (sic!), senza casa, senza identità politica univoca, ma non per questo senza radici.

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Il lamento per la terra strappata e la terribile poesia del coro del Va’ pensiero verdiano (ora penosamente assurto a emblema della razza padana di celtica stirpe) fissano una delle tante persecuzioni e diaspore della storia nei confronti del popolo ebraico; l’imperialismo dell’impero romano porta invece il saccheggio e la violenza persino nell’interdetto e inviolabile Sancta Sanctorum di Gerusalemme, sotto i colpi di Pompeo prima, sotto le grida d’incitamento di Vespasiano e di Tito poi. La violenza viene così legittimata e l’antisemitismo nei confronti di chi ha ucciso il Messia, seppur ignorandolo, viene rinvigorito ed esasperato per l’ennesima volta. Ma, evidentemente, la religione ha in tutti questi episodi e in tutti questi attacchi di intolleranza poco da spartire con la vera natura dell’odio per i «figli d’Israele»; lo spauracchio dell’ebreo è diventato un passepartout per ogni atto di aggressione, una licenza a guerreggiare e incamerare territori e ricchezze. Una buona scusa e un motivo di forte distrazione per il popolino, altrimenti attirato dai veri problemi di politica interna. I re cattolici infatti capiranno presto la lezione degli antichi e se ne serviranno per la buona conduzione dello Stato. La Chiesa, che uscirà rinnovata dai provvedimenti adottati per la salvaguardia della fede nel IV Concilio lateranense (1215), stabilirà persino l’abbigliamento più adatto a rendere riconoscibile ogni ebreo, permettendo così implicitamente ai sovrani europei di scatenare feroci pogrom ed espulsioni coatte dai propri confini.

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Cacciati dunque da tutti i territori della futura Europa, ad esclusione di qualche isola felice, agli ebrei viene offerta una chance nella Spagna e nel Portogallo del XV secolo: la conversione. I marranos, i ‘porci’, così vennero bollati perché traditori nei confronti del proprio credo e falsi adulatori del nuovo dio cristiano, furono infine espulsi, previo avvertimento di tre mesi, dall’ultima paladina della fede cattolica, Isabella di Castiglia, e dal marito, Ferdinando d’Aragona, il 31 luglio del 1492. Durante questo felix annus la Spagna strappò ai mori, e riconquistò sotto il proprio vessillo, il regno di Granada, cacciò gli ebrei e si avviò precipitosamente a diventare grande finanziatrice delle imprese che avrebbero portato, il 12 ottobre dello stesso fatale anno, Colombo a toccare le coste di San Salvador. Questo il prezzo pagato dall’età moderna.

In compagnia dell’inseparabile candelabro a sette punte, ghettizzati persino nella ‘liberale’ Venezia, gli ebrei continuarono le loro metamorfosi per sopravvivere all’ignoranza di cui il popolo si faceva scudo e ai calcoli subdoli dei regnanti di ogni tempo. E se il cristiano – intimava Sant’Agostino, facendosi forte di precedenti disposizioni canoniche – non doveva occuparsi della riscossione dei tributi e non doveva vendere o mercanteggiare, all’ebreo non restò che occuparsi delle faccende più esecrabili per il resto degli uomini toccati dalla grazia divina, e finire così per vivere latui e pregare al lume delle sette sacre candele.

La vicenda dei fantomatici Protocolli dei Savi Anziani di Sion si inserisce proprio nello stupidario scritto dalla Storia nel corso dei secoli, e dei millenni, intorno alle sinistre qualità possedute dal popolo ebraico per soggiogare le nazioni che un tempo lo avevano tenuto sotto scacco. Un complotto in tutta regola, scandito da un disegno perfido, diabolico, globale. E proprio The Plot (trad.it. Il Complotto, Einaudi 2005) è il titolo dato da Will Eisner alla sua opera postuma, una sorta di testamento su cui si deve ancora sufficientemente riflettere e scrivere. L’esigenza di dare una risposta definitiva alle alterne vicende dei Protocolli ha sempre solleticato, infatti, la volontà di uomini di non poca levatura morale e intellettuale. La storia segreta dei Protocolli dei Savi di Sion (questo il sottotitolo dell’opera) doveva quindi anche essere raccontata da un genio dell’arte sequenziale, qual è nel panorama mondiale contemporaneo lo scomparso Will Eisner (1918-2005). Figlio di immigrati ebrei, il padre di Spirit conosce in America il pregiudizio e l’ignoranza nei confronti del suo popolo e decide di volerne sapere di più e di scrivere una risposta, la sua, alla pletorica presenza dei Protocolli nelle librerie e nelle bancarelle di mezzo mondo. La loro diffusione è forse paragonabile, infatti, alla fortuna dell’hitleriano Mein Kampf che, scrive Eisner nella Introduzione al volume, era stato già da lui «relegato in un’ideale biblioteca della letteratura malvagia».

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Il ‘perfido disegno’, secondo i fautori dei Protocolli, sarebbe nato all’indomani dell’affaire Dreyfus quando Theodor Herzl, per rispondere all’ondata di antisemitismo scoppiato in Francia in seguito al caso giudiziario più celebre dell’Ottocento, organizzò a Basilea il primo Congresso sionista. Il potere intellettuale non aveva vinto, lo zoliano J’accuse rivelava retroscena politici e malaffare nazionale, ma non riusciva a mettere al riparo dagli attacchi di intolleranza né Dreyfus, né tantomeno la bistrattata figura dell’ebreo nel mondo. E allora, secondo chi crede ancora oggi alla validità di questi falsi storici, ecco che gli ebrei decidono di riunirsi a Basilea e di mettere per iscritto un programma da veri signori del male, un resoconto dettagliato della scalata al mondo e ai piani alti della finanza e della politica. Il tutto da attuarsi in una Russia in preda a profondi disagi economici e politici e retta da uno zar, Nicola II, pronto a fare dell’ebreo la testa di turco della situazione. Niente male per una sceneggiatura, ma abbastanza ridicolo e maldestro per un gruppo di sedicenti rappresentanti delle tribù ebraiche che si mettono a tavolino per discutere del mondo e del suo futuro, parlando come delle macchiette che fissano i loro movimenti scandendoli con frasi dal tono apodittico e profetico ad un tempo, e davvero troppo esplicite e adattate alla bell’e meglio per essere più comprensibili: «Il piano di comando deve sgorgare già pronto da un’unica testa […]»; «Il nostro regno sarà l’apologia dell’idolo Visnù […]»; «Voi non potete immaginare come si possano condurre facilmente i “goyim” più intelligenti a un’incosciente ingenuità, coltivando la loro autoillusione e il bisogno di incensamento. […]».

Le dichiarazioni contenute nei Protocolli non possono davvero essere prese sul serio: per anni la loro veridicità è stata smentita da illustri storici o arguti professionisti della carta stampata; per anni le loro vicende sono state la cartina al tornasole della tolleranza della civile Europa, e non solo; per anni la loro falsità è stata palesemente dimostrata, ma questi documenti, questo artifizio creato ad hoc per uscire da una delicata situazione politica (russa, in questo caso), sono sempre ritornati a rinfocolare furori e fobie, marca dell’ignoranza più perniciosa. Come si può, si chiede Umberto Eco nelle pagine introduttive al volume, credere a dichiarazioni così maldestramente messe su, nella fretta del plagio e della contraffazione su ordinazione? Come si può dare fede ad una messa per iscritto di un programma politico teso a piegare i ‘gentili’ di fronte alla grandezza e alla malvagità di un intero popolo?

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La spy-story non ha mai cessato di interessare e, volta per volta, i paragrafi costituenti le mendaci dichiarazioni sono stati sottoposti ad esame e messi a confronto con le fonti manomesse che li hanno ispirati. Anche Eisner, che ha lavorato al progetto per ben vent’anni col contributo di traduttori e storici di rilievo, ha messo su un’equipe di collaboratori che ha cercato instancabilmente di dar voce ad un graphic novel che non avesse il sapore del libello didascalico (anche se in alcuni punti ne corre inevitabilmente il rischio) e che potesse dimostrare, per l’ennesima e ultima volta, quanto i Protocolli siano stati il risultato di una macchinazione fatta a tavolino non da ebrei cospiratori, ma da servizi segreti ben organizzati in sentore di rivoluzione. L’arma migliore, dunque, per svelare la contraffazione, affrettata appunto dal clima politico russo pre-rivoluzionario, è per Eisner quella della filologia e del raffronto sinottico. Il confronto puntuale con una delle fonti certe della contaminatio, Il dialogo all’Inferno tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice Joly (1894), la presa in considerazione di termini che i Savi di Sion non avrebbero potuto utilizzare, i passi più grossolanamente adattati alla situazione russa, svelano pagina dopo pagina la falsità di questi documenti e l’origine che li accomuna ai centoni medievali. Ma il ritmo concitato con cui si chiudono le ultime pagine del Complotto chiarisce poi al lettore che questo non basta, che non c’è modo di evitare la diffusione di questi Protocolli, di evitare che cadano nelle mani sbagliate, di frenare l’ondata di antisemitismo che ancora oggi, dall’Iran alla Svizzera, dalla Germania all’America, si scatena ad ogni decisione di tregua e di pace nei territori mediorientali. La denuncia contenuta ne Il Complotto non basta, certo, ma non si può non tentare almeno di agire. Eisner stesso confessa di «impiegare questo potente mezzo di comunicazione (scilicet: il fumetto) per affrontare un tema che ha un’importanza fondamentale nella mia (scilicet: di Eisner) vita», aggiungendo qualche pagina dopo che «la speranza è che questo lavoro possa contribuire a distruggere questo inganno terrificante».

Ma, emblematicamente, Il Complotto si apre con una immagine di guerra, un rogo, una ferocia metaforicamente incarnata dal fuoco che si leva e che infiamma gli animi e, altrettanto emblematicamente, l’ultima pagina si chiude in perfetta circolarità con una sinagoga in fiamme. In mezzo, la storia dei Protocolli porta le impronte della rivoluzione russa, combattuta col fuoco e con le armi. Il fuoco, la passione torbida, l’odio degli uomini. Un brutta chiusa per sperare ancora in una soluzione della Storia con le armi pungenti ma non sanguinolente della ragione. Un appello, quello di Eisner, alla lucidità e alla intelligenza dell’uomo: un’altra maniera di definire il gramsciano pessimismo della ragione unito, in maniera sempre più pervicace, all’ottimismo della volontà.

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