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Antonio Ausilio

Antonio Ausilio

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Ultimate Invasion, recensione: il ritorno della nuova Marvel

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Per quanto non possa ancora vantare nessun riconoscimento di particolare importanza (nella sua quasi ventennale carriera nei fumetti, non gli è mai stato assegnato un Eisner Award né altri premi minori), Jonathan Hickman è un autore di fama internazionale, il cui nome costituisce sempre un significativo richiamo per i lettori. E benché a causa di alcune sue opere passate, caratterizzate da trame troppo cervellotiche o dall’abuso di strumenti narrativi inusuali come le infografiche, una piccola parte della critica persevera a non considerarlo allo stesso livello di altri sceneggiatori, anche i suoi più strenui detrattori faticano a negarne la notevole ingegnosità, che lo rendono un world builder di prima grandezza, capace di rigenerare ogni character che gli viene affidato. Sono probabilmente queste le qualità che devono aver convinto la Marvel a chiedergli di riportare in vita l’universo Ultimate, sulla scorta dell’ottimo lavoro svolto qualche anno fa con il mondo mutante e, in precedenza, con i Fantastici Quattro (che dopo di lui non hanno più trovato uno scrittore degno di questo nome, sebbene siano passati sotto le mani di Matt Fraction, James Robinson e Dan Slott). Per non menzionare la sua gestione degli Avengers, con i quali ha portato avanti una lunga sottotrama, che ha fatto da preludio alla cataclismatica maxiserie Secret Wars, il megaevento fumettistico dipanatosi negli USA tra il 2015 e il 2016, in cui proprio l’universo Ultimate veniva cancellato assieme a gran parte del multiverso Marvel. Hickman stesso era stato il direttore d’orchestra di quel gigantesco crossover, quindi, che ora sia lui lo sceneggiatore incaricato di rilanciare la linea Ultimate, suona quasi come un paradosso.

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A ogni modo, l’autore di East of West e Decorum non delude le aspettative e fin da Ultimate Invasion, la miniserie preposta a introdurre il nuovo universo Ultimate, fa ripetutamente sfoggio di quella grande inventiva accennata all’inizio, non limitandosi a un semplice revival dei concetti elaborati più di vent’anni fa da Brian Michael Bendis e Mark Millar, per i protagonisti delle testate Ultimate di allora, ma realizzando, come sua abitudine, qualcosa di totalmente differente e, al tempo stesso, innovativo.
Personaggio centrale della trama è il Creatore, il Reed Richards del precedente universo Ultimate, sopravvissuto alla distruzione del suo mondo, per diventare un potente avversario degli eroi di Terra Prima, cioè l’ex Terra 616 (quella delle serie Marvel tradizionali) “rinata” alla fine di Secret Wars. Hickman aveva contribuito in maniera determinante a definirne il carattere e le motivazioni, dopo che, diverso tempo prima che il suo pianeta fosse annientato, il capo della versione Ultimate dei Fantastici Quattro aveva clamorosamente preso la via del male.
All’inizio della vicenda, vediamo il Creatore usare il suo genio perverso per fuggire da una prigione di massima sicurezza di Damage Control e, successivamente, impegnato a impossessarsi degli strumenti necessari a costruire un portale spazio-temporale. Raggiunto dagli Illuminati, il criminale si sottrae ad essi scomparendo verso un altro mondo, Terra 6160 (una sorta di combinazione di 616 e 1610, il numero con cui veniva indicata la Terra del “vecchio” universo Ultimate), dove comincia ad alterare vari avvenimenti del passato, allo scopo di diventarne il padrone assoluto.

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Di più non aggiungiamo, perché le tante idee messe in campo dallo scrittore del South Carolina meritano di essere assaporate dall’inizio alla fine. E sebbene Ultimate Invasion possieda solo in parte l’afflato epico di House of X e Powers of X (le miniserie con cui Hickman ha dato il via alla cosiddetta Era Krakoana dei mutanti Marvel, giunta al suo drammatico epilogo in queste ultime settimane), l’opera ha conservato molti degli aspetti positivi, che avevano portato al successo quei due fondamentali tasselli della storia recente degli Uomini X. Ci riferiamo, in particolare, a come la narrazione complessa e a lungo respiro, che da sempre contraddistingue le trame dell’autore statunitense, non si perda mai in divagazioni fini a se stesse, a dispetto di uno scorrere degli eventi articolato e discontinuo (persino nei passaggi in cui è l’azione a prendere il sopravvento), che, come da copione, trova coerenza e significato solo nelle pagine finali. Hickman, inoltre, non lesina i colpi di scena e le rivelazioni sorprendenti, potendo anche contare sul fatto che, a differenza di quanto accaduto con i mutanti, nel nuovo universo Ultimate non ci sono decenni di continuity da rispettare, sentendosi, pertanto, autorizzato a dare libero sfogo alla sua creatività e a lasciare che i richiami alle storie di Bendis e Millar si tramutino in niente più che semplici omaggi, con la precisa intenzione di non mantenere alcuna connessione con quelle saghe passate. In altre parole, una conferma ulteriore della volontà di non fossilizzarsi su uno sterile remake e del desiderio di esplorare strade sostanzialmente inedite, che possano stimolare sia l’interesse dei lettori che il lavoro degli autori. Ed è proprio sulla base di questo assunto che Hickman costruisce una versione totalmente divergente dall’universo Marvel canonico, che si discosta pure in maniera netta dal mondo reale. Una visione distopica della società umana, che rimaneggia abilmente un tema caro a molta fantascienza contemporanea (e che, con toni differenti, aveva già fatto capolino in alcune sue opere precedenti o, per citare un fumetto recente, in Lazarus di Greg Rucka e Michael Lark) dove, comunque, non mancano gli eroi pronti a combattere per sovvertire lo status quo. Oltretutto – e inevitabilmente – è su questi ultimi che si concentra la voglia di sbalordire dello sceneggiatore americano, presentando parecchi di essi in una veste che, per quanto inaspettata, risulterà alla fine assolutamente verosimile. Senza considerare i personaggi coinvolti in un ribaltamento di ruoli, che stupirà anche i lettori più smaliziati (vedi la reale identità di Kang o l’intrigante dualismo Reed Richards-Dottor Destino) e che preannuncia sviluppi futuri non meno affascinanti.

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Passando ai disegni, ci fa piacere segnalare che Bryan Hitch sembra aver quasi ritrovato lo smalto di un tempo. Il cartoonist britannico, famoso per il suo importantissimo contributo alla prima incarnazione dell’universo Ultimate, avendo dato vita in coppia con Mark Millar agli Ultimates, la versione alternativa degli Avengers (che, notoriamente, è stata la fonte di riferimento principale degli sceneggiatori del Marvel Cinematic Universe, per trasportare gli Eroi più Potenti della Terra sul grande schermo), in anni recenti pareva, infatti, aver subito un’involuzione nello stile, che si traduceva in volti poco definiti e anatomie sproporzionate. In Ultimate Invasion, pur non raggiungendo i livelli eccelsi di The Authority o, appunto, The Ultimates, la qualità delle sue tavole è migliorata in maniera consistente. Le vignette, in particolare, sono tornate a essere ricche di dettagli, a partire dalle cosiddette “widescreen page”, vero e proprio marchio di fabbrica di Hitch. Spettacolari splash-page - che non di rado arrivano a occupare due pagine per intero - stracolme di personaggi, spesso coinvolti in impressionanti scene d’azione. Ormai lontano dal tratto morbido, ispirato a quello di Alan Davis, con cui aveva caratterizzato i suoi lavori a inizio carriera, l’artista d’oltremanica non ha perso l’abitudine di utilizzare prospettive insolite e ardite che, unite a primi piani dei protagonisti scelti con molta cura e a inquadrature estremamente cinetiche, regalano al lettore un’esperienza quasi cinematografica.

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Tale exploit, tuttavia, è destinato a essere – a meno di futuri ripensamenti - una sorta di canto del cigno di Hitch sugli albi della Marvel, dato che l’autore ha pubblicamente dichiarato di non volersi più impegnare con personaggi di cui non detiene i diritti, entrando a far parte, assieme ad altri big del fumetto americano (Geoff Johns, Gary Frank e Ivan Reis, solo per citare i più famosi) del collettivo Ghost Machine, che svilupperà nuove serie per l’Image.
Non una bella notizia per la Casa delle Idee, che, a dispetto di decisioni discutibili, apparentemente indirizzate al semplice ritorno commerciale (tra i primi titoli annunciati abbiamo Ultimate Black Panther, nato evidentemente con l’intento di attrarre il folto pubblico afroamericano, e Ultimate X-Men, realizzato in toto da Peach Momoko, che, invece, vuole strizzare l’occhio agli appassionati di manga), sembra veramente interessata a rendere questa nuova linea Ultimate qualcosa di speciale. Una sensazione confermata non soltanto dal piacevolissimo Ultimate Universe, one shot che fa da collegamento tra Ultimate Invasion e le testate dedicate ai singoli character, ma soprattutto da Ultimate Spider-Man, che – a giudicare da quello che succede nell’albo d’esordio - oltre a essere illuminato dai disegni del nostro Marco Checchetto, può ancora vantare un Hickman per nulla restio a offrire altri imprevedibili risvolti nelle vite dei personaggi principali.

Newburn Vol. 1, recensione: il noir secondo Chip Zdarsky e Jacob Phillips

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Fin dal 2014, quando vinse il suo primo Eisner Award (al quale poi ne sono seguiti altri tre, più una pioggia di Harvey Award e diverse onorificenze minori), in veste di co-autore di Sex Criminals - premiata quell’anno come migliore nuova serie - Chip Zdarsky si è imposto come uno dei cartoonist più importanti del comicdom americano. Già pochi mesi dopo quel prestigioso riconoscimento, sono arrivate varie collaborazioni con Marvel e DC, tra le quali – limitando l’elenco a quelle che continuano tuttora – è bene ricordare il lungo ciclo di Daredevil iniziato nel 2019 (e avviato a concludersi negli USA questa estate) e Failsafe, la controversa saga di Batman che sta facendo discutere critici e appassionati da entrambi i lati dell’oceano.
Come molti altri sceneggiatori, però, Zdarsky mostra di dare il meglio di sé quando è libero di muoversi senza vincoli creativi o quando non deve preoccuparsi delle richieste di qualche editor. Ne è un chiaro esempio la recente Newburn, serie Image realizzata in coppia con Jacob Phillips, sbarcata da poco pure in Italia grazie a Saldapress.

Easton Newburn è un investigatore privato di New York al soldo di tutte le principali organizzazioni criminali della città. Temuto e rispettato, gode di una sorta di immunità presso la malavita, garantita dall’assoluta neutralità dei suoi giudizi, tesi a non privilegiare nessuna delle famiglie mafiose coinvolte e a mantenere l’equilibrio necessario a evitare sanguinose guerre tra gang. Una scomoda verità di cui è consapevole anche la polizia, rassegnata a farsi da parte pur di non intralciare le sue indagini.

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Con echi che richiamano serie televisive di successo come l’acclamata The Wire e, ancora di più, Mayor of Kingstown, Newburn possiede tutte le caratteristiche che hanno portato il noir a essere uno dei generi cardine della fiction contemporanea. La New York in cui si muove il protagonista non è la metropoli da cartolina illuminata dai grattacieli di Manhattan, visibile in molte produzioni hollywoodiane, ma una città soffocata dal crimine, che domina indisturbato su bassifondi popolati da un’umanità meschina e senza ideali. Un luogo dove la linea di demarcazione tra bene e male è sottilissima, tanto da rendere quasi naturale venire a patti con chi sta dalla parte opposta della barricata - sia in un senso che nell’altro - pur di ottenere qualcosa per il proprio tornaconto o per evitare che atti sconsiderati sfocino in tragedie peggiori, in cui nessuno sarebbe al sicuro. Di conseguenza, che in un simile scenario il protagonista possa essere un ex poliziotto cinico e disilluso, che ha deciso di arricchirsi mettendosi al servizio della malavita, non appare poi così sorprendente (sebbene non ridimensioni minimamente la brillante idea avuta da Zdarsky per il personaggio). Inoltre, ragionando in termini meramente contenutistici, difficile non prendere in considerazione come punti di riferimento fumettistici di una serie con queste caratteristiche la pluripremiata Criminal di Ed Brubaker e Sean Phillips (padre di Jacob) e diverse opere hard boiled di Greg Rucka.

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È pur vero, però, che, tolto il clima torbido che ammanta ogni episodio, il modo in cui Newburn arriva alla soluzione dei casi, spesso contraddice il realismo che, almeno in teoria, dovrebbe improntare la vicenda. Alludiamo al fatto che il protagonista mostra sempre di possedere un fiuto investigativo infallibile e di disporre di continui assi nella manica, anche in situazioni estremamente intricate. È questo l’unico apparente difetto della serie, benché, detto onestamente, Zdarsky non dia mai veramente l’impressione di voler replicare la formula di Criminal o di altre opere simili. Gli omaggi - forse pure inconsapevoli - a Brubaker e Rucka paiono semplicemente un tentativo di portare allo scoperto le inquietudini dei diversi character, al fine di rendere plausibile l’ambigua moralità di Newburn, per quanto essa, a dispetto del fascino che possa esercitare sugli smaliziati lettori di oggi una versione scorretta dei vari Sam Spade e Philip Marlowe, nasconda, con ogni probabilità, molto di più.
L’autore canadese, infatti, si rivela particolarmente abile nel mostrare - almeno per ora - solo i tratti essenziali del protagonista, centellinando le informazioni che lo riguardano in mezzo alle vicende private degli altri personaggi, in primis Emily, l’aiutante di Newburn, della quale, in maniera forse troppo prevedibile, scopriamo presto un passato non meno turbolento di quello dei diversi comprimari.
A ogni modo, al netto di qualche ingenuità, la lettura del volume rimane appassionante dalla prima all’ultima pagina e le scelte fatte fin qui dal buon Chip ci sembrano tutte sostanzialmente condivisibili.

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Passando al comparto grafico, se la scrittura di Zdarsky ricorda a tratti quella di Brubaker, persino più marcate sono le somiglianze tra i disegni di Jacob Phillips e quelli di suo padre Sean, tanto da rendere ancora più verosimile l’accostamento tra Newburn e Criminal. A un’analisi meno superficiale, tuttavia, risulta abbastanza evidente che, benché entrambi operino in maniera convincente sui primi piani dei personaggi, lasciando che siano le espressioni dei loro volti a parlare, piuttosto che l’eloquenza dei dialoghi, Jacob, quando prova a fare sue alcune caratteristiche stilistiche del genitore, a volte sembra mancare di spontaneità. Per esempio, se nelle tavole di Sean i giochi di ombre, il netto predominio dei dettagli e la scelta delle inquadrature concorrono in modo determinante ad arricchire la narrazione, in Newburn gli stessi espedienti “tecnici” appaiono più come una forzatura necessaria a far diventare meno anonima la costruzione delle vignette o a ridurre la staticità dei personaggi. Ciò non significa che il lavoro di Phillips Jr. sia di bassa qualità, ma è innegabile che gran parte dell’atmosfera che si respira nelle pagine del libro derivi soprattutto dall’uso magistrale dei colori, che è sempre stato il vero punto di forza dell'artista britannico (e di cui hanno spesso beneficiato anche le opere di Sean), piuttosto che dal segno essenziale – e inevitabilmente un po’ piatto – che contraddistingue le sue figure.
Probabilmente, il problema di Jacob è solo la giovane età. Il talento c’è e si vede, e con il padre a fargli da mentore non potrà che fiorire rapidamente.

Per finire, ottima, come di consueto, la confezione del volume da parte di Saldapress, per una serie che promette realmente di diventare una delle nuove hit della casa editrice.

Eternity 1 e 2, recensione: la rivoluzione elegante di Bilotta made in Bonelli

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Quando nel corso del 2018 la Sergio Bonelli Editore inaugurò la linea Audace, la decisione sembrò a molti l’inevitabile punto di arrivo di un percorso che la casa editrice di Tex e Zagor era parsa voler intraprendere più volte in passato. I tempi non erano ancora maturi, ma la monumentale Storia del West, raccontata all’interno della Collana Rodeo a partire dalla fine degli anni Sessanta o la testata dedicata a Ken Parker nella seconda metà dei Settanta già testimoniavano l’intenzione di Via Buonarroti di avventurarsi verso altre direzioni, che non fossero quelle del semplice fumetto popolare. In più, all’incirca nello stesso periodo, venne data alle stampe la prestigiosa collana Un uomo un’avventura e Sergio Bonelli non fece mancare il suo sostegno a riviste d’autore come Orient Express. Senza dimenticare che anche Dylan Dog al suo esordio fu considerato un progetto quasi rivoluzionario, tanto da far storcere il naso ai fan storici dell’editore.
Ora, dopo cinque anni di proposte alquanto variegate e il riassetto dei propri piani editoriali (vedi, tra le altre cose, l’iniziale e comprensibile scelta di non voler rinunciare all’edicola), l’etichetta sembra avere definitivamente intrapreso la strada delle fumetterie e delle librerie generaliste, forte dello spazio sempre maggiore riservato da queste ultime alla letteratura disegnata. E se alcuni titoli come Nero e La Divina Congrega seguitano a guardare a un pubblico più mainstream, una serie come Eternity si propone, invece, di catturare l’interesse di tutti quei lettori che cercano nel fumetto qualcosa che vada oltre la semplice evasione.

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Scritta da Alessandro Bilotta, un autore che, dopo averci regalato personaggi a dir poco insoliti (Mercurio Loi e Gli Uomini della Settimana su tutti), continua a sorprenderci per l’originalità delle sue scelte, Eternity ha per protagonista Alceste Santacroce, un gossipparo di professione, firma di punta della rivista scandalistica L’infinito. Nel suo girovagare per le strade di Roma - o meglio, di quella che dovrebbe essere Roma, dato che la mirabile fusione che compare nel fumetto tra l’ammaliante città ritratta da Paolo Sorrentino ne La grande bellezza e i magici scenari felliniani de La dolce vita, ha poco a che fare con la problematica metropoli di oggi - o nel suo presenziare agli eventi mondani più importanti, Sant’Alceste (lo pseudonimo dietro il quale si nasconde il personaggio nei suoi articoli) osserva con curiosità la realtà che gli sta attorno, affascinato da un’umanità instancabilmente dedita all’inconsistenza e alla superficialità,  ma anche fonte inesauribile di quegli “scoop” necessari a mantenere il suo stile di vita leggero e disimpegnato. Nei due volumi già arrivati in libreria (entrambi caratterizzati da titoli volutamente nonsense) facciamo la conoscenza di figure grottesche, surreali, stereotipate fino alla caricatura, tra cui - prendendo in considerazione quelle che, di fatto, dividono la scena con il protagonista - una influencer riluttante, incapace di dare un senso alla propria esistenza e una vecchia star della televisione, alla incessante ricerca di visibilità mediatica, tutti uniti a popolare un mondo di finzione, nel quale il nostro Alceste si muove con cinismo e disillusione, apparentemente indifferente a ogni avvenimento, per quanto tragico esso possa essere (un’impassibilità che sembra cedere solo nelle ultime pagine del secondo volume). A rafforzare ulteriormente questo perenne andare controcorrente, contribuisce anche l’ostentato dandismo del suo modo di vestire, un’evidente esternazione della sua volontà di tenersi lontano dalle mode vacue e passeggere e dagli insignificanti rituali contemporanei.

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Come è facile intuire dalle prefazioni ai due volumi (scritte pure queste dall’autore romano), Alceste Santacroce non è altri che Bilotta stesso, il quale si “serve” del personaggio per esprimere il suo totale disappunto nei confronti di una società dell’immagine, che pare non avere ancora dato il peggio di sé. Da qui il paradossale ritorno ai televisori in bianco e nero, una chiara iperbole dell’omologazione delle masse, continuamente disposte a farsi dominare dall’oggetto in voga in quel momento. O lo svogliato edonismo del protagonista che, assieme al suo oziare impenitente, affermano con forza il senso di non appartenenza a una collettività sempre afflitta dall’illusione di non potersi mai fermare. In più, il viscerale disinteresse di Alceste verso il pensiero comune lo induce a essere costantemente caustico - a volte persino spietato – anche con chi gli ha manifestato sincera amicizia, se non addirittura amore. Una sgradevolezza d’animo portata all’estremo che, tuttavia – come spesso succede nella fiction – anziché ingenerare l’avversione del pubblico, ne cattura la simpatia.
L’immedesimazione di Bilotta nei confronti del protagonista raggiunge l’apice quando si scopre che Alceste è un appassionato di fumetti. Un atteggiamento di distaccata superiorità o di presunta raffinatezza, che pur apparendo troppo compiacente (quasi al limite dello snobismo), è, nella realtà, un semplice atto di complicità verso il lettore.

Per il resto, benché lo scrittore di Nomentano giochi ancora a carte parzialmente coperte e nonostante una narrazione perennemente in bilico tra dramma e farsa – aspetto, quest’ultimo, esaltato dalla consueta abitudine di Bilotta a ricorrere a nomi stravaganti e ricercati per i suoi personaggi – Eternity è una serie che mostra già di avere un’identità ben definita. Lo stesso dicasi per la caratterizzazione del protagonista (ma anche di parecchi comprimari), così nitida e precisa da non lasciare spazio a ulteriori approfondimenti. Pertanto, al di là di trame a lungo termine, di cui, per il momento, si intravede poco o nulla – e che, con ogni probabilità, avrebbero solo lo scopo di mantenere l’interesse nei lettori tradizionali della casa editrice – i temi che all’autore romano importa seriamente far emergere, sono presenti fin dalle prime pagine. A sorprendere, piuttosto, è la libertà creativa di cui egli ha goduto, che lo hanno convinto a spingersi verso direzioni impensabili solo pochi anni fa in un albo di Via Buonarroti. Sicuramente tutto ciò ha giovato alla qualità della sua scrittura, mai tanto acuta e sferzante, sebbene il politically incorrect di questi due volumi sia così diffuso, che più di una volta abbiamo avuto la tentazione di controllare nel frontespizio del libro che alla voce editore ci fosse realmente il nome Bonelli.

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Anche sul versante grafico, si percepisce con chiarezza la voglia degli autori di uscire da schemi preconfezionati e di offrire un’esperienza visiva diversa dal solito. Oltretutto - anziché con i disegni, come d’abitudine - per una volta è giusto iniziare dai colori (opera della vincitrice del Premio Coco Adele Matera, con la supervisione di Emiliano Mammucari), i quali si dimostrano subito non solo in grado di valorizzare il tratto dei due artisti che si sono alternati finora (Sergio Gerasi nel primo volume – che è pure il copertinista della serie - e Matteo Mosca nel secondo, entrambi già complici dello sceneggiatore capitolino in passato), ma di costituire una parte essenziale del racconto. In effetti, Bilotta ha confermato in varie interviste che l’idea avuta durante la gestazione di Eternity è stata proprio quella di creare attraverso i colori un amalgama in perfetto equilibrio tra modernità e vintage, facendo convivere nelle tavole le tecniche di colorazione contemporanee con dettagli tipici del passato (frequenti fuori registro, effetti geometrici). In più, anche la luminosità differente e il prevalere di determinate tonalità, sono tutti espedienti studiati per entrare in sintonia con un particolare momento della vicenda o con lo stato d’animo dei protagonisti, che trovano il loro massimo compimento nel glamour dei party e nel bagliore psichedelico delle discoteche oppure, per quanto possa risultare strano, nelle non così rare divagazioni sentimentali.

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Riguardo i due disegnatori, invece, chi per adesso ci ha convinto di più è Gerasi, il quale con un tratto che indugia su inquadrature e prospettive poco convenzionali, su figure anatomiche dinoccolate (che a volte si distorcono in maniera innaturale e paiono attestare una leggera influenza crepaxiana, riscontrabile anche in altre opere recenti dell’artista milanese) e - nei passaggi dove lo spirito satirico di Bilotta cresce d’intensità - su espressioni facciali tendenti al cartoonesco (in cui il suo stile sembra, all’opposto, una versione scorretta di quello di Grazia Nidasio), riesce concretamente a trasferire nei personaggi la creatività destabilizzante dello scrittore romano. Mosca, al contrario, appare spesso un po’ ingessato e attento a non increspare le sue linee uniformi e pulite, offrendo un lavoro che, pur non mancando di eleganza, lascia la sceneggiatura parzialmente priva di energia.
 
Con il terzo capitolo in dirittura d’arrivo, resta ora da capire se Eternity sarà in grado di mantenersi a questi livelli pure in futuro, benché Bilotta e soci un obiettivo lo abbiano comunque raggiunto. Era da tempo, infatti, che un fumetto italiano non suscitava un’attesa così spasmodica per l’uscita dei nuovi episodi. In realtà, l’ultima affermazione non è del tutto vera dato che, a ben pensarci, qualcosa del genere ci era già capitata pochi anni fa con una serie quasi altrettanto ardita ed eccentrica. Il titolo? Mercurio Loi.

Hypericon, recensione: amarsi a Berlino a fine anni '90

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A vedere le numerose e disordinate file di lettori in paziente attesa di una dedica alla scorsa edizione di Lucca Comics and Games o a leggere del successo del tour promozionale che ha accompagnato l’uscita di Hypericon - il suo ultimo libro - la rivolta degli appassionati bonelliani, che avevano mal digerito le copertine con cui Manuele Fior aveva impreziosito la bella, ma effimera serie di Mercurio Loi, pare oggi un evento dimenticato, perso nelle nebbie del tempo. In realtà, il riferimento è a pochi anni fa e l’autore cesenate, a dispetto del plauso della critica e dei buoni risultati commerciali ottenuti con Cinquemila chilometri al secondo (opera che gli era valsa il Gran Guinigi a Lucca nel 2010 e il Fauve d’or al Festival di Angoulême l’anno successivo), solo di recente ha raggiunto una fama tale da garantirgli l’interesse di una platea composta non soltanto da semplici amanti della Nona Arte. Non stiamo parlando di un seguito comparabile a quello di Zerocalcare - un fenomeno unico e, per certi versi, irripetibile (almeno nell’immediato) – ma è innegabile che ogni nuovo volume che porti la firma di Fior, sia diventato un’attrattiva irresistibile per quella generazione di lettori che - cresciuta libera da antiquati cliché culturali - considera finalmente il fumetto solo un mezzo espressivo alternativo a cinema e letteratura.

In Hypericon, dopo la parentesi fantascientifica di Celestia, Fior decide di tornare a una dimensione più quotidiana, riavvicinandosi a quelle tematiche che avevano caratterizzato buona parte dei suoi primi lavori, con un esplicito richiamo nostalgico per un periodo storico che lui stesso - come ha confermato in varie interviste - ha vissuto con il medesimo ardore di Teresa e Ruben, i due personaggi principali del libro. La vicenda, infatti, è ambientata nella Berlino di fine anni Novanta, quando nella capitale tedesca, più che in altre metropoli europee, era realmente possibile assaporare l’energia e l’ottimismo seguiti alla fine della Guerra Fredda, tanto che, diventata il polo di attrazione dei giovani dell’intero continente, ansiosi di condividere con i coetanei locali libertà mai pienamente godute fino a quel momento, la città trasmetteva un’incontenibile voglia di vivere alimentando, al contempo, la speranza di un futuro aperto a ogni opportunità. Tutte sensazioni inseguite anche dal ventitreenne Fior, che ha abitato a Berlino negli stessi anni raccontati nel libro. Facile capire, quindi, perché l’autore romagnolo abbia voluto rivivere con i due protagonisti i sogni e i desideri di allora, caratterizzando entrambi con un intento dichiaratamente autobiografico.

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Ci saremmo aspettati, tuttavia, che fosse Ruben, con la sua esuberanza un po’ anarchica, tipica della post-adolescenza e di tutti coloro che possiedono un’anima artistica, a mostrare le somiglianze maggiori con il giovane Fior “berlinese”. Invece, ci è parsa la razionale Teresa il personaggio in cui l’autore abbia deciso di specchiarsi di più. Un’impressione che deriva non solo dal fatto che la ragazza si trova in Germania per l’allestimento di una mostra dedicata a Tutankhamen (l’archeologia è una nota passione di Fior e una delle occupazioni che hanno preceduto il suo ingresso ufficiale nella letteratura disegnata), ma anche per l’insonnia di cui lei soffre, un disturbo patito spesso dal fumettista, pure nel periodo nel quale ha concepito la trama di Hypericon. Se la nostra ipotesi si rivelasse corretta, la scelta risulterebbe senz’altro singolare, sebbene sia molto probabile che essa dipenda unicamente dalla maggior sintonia verso i character femminili manifestata dall’autore in tutte le sue opere. C’è anche da dire che i due ragazzi potrebbero semplicemente rappresentare il modo in cui egli vede sé stesso in due diversi momenti della vita, con Ruben a impersonare effettivamente la sua giovinezza e Teresa, all’opposto, la sua maturità.

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Comunque sia, Fior ha raccontato di aver imbastito la vicenda narrata nel libro durante il lockdown parigino seguito ai primi giorni di pandemia, pertanto, note autobiografiche a parte, l’aspetto della storia che emerge con più forza è il comprensibile desiderio di evadere da quella realtà claustrofobica. E non è un caso che – oltre ai bei ricordi passati - sia di nuovo l’antico Egitto a essere utilizzato per questo scopo. Prima di fare la conoscenza di Teresa e Ruben, infatti, veniamo catapultati negli ultimi mesi del 1922, quando nell’area del deserto egiziano nei pressi di Luxor nota come Valle dei Re, l’inglese Howard Carter fece una delle più sensazionali scoperte archeologiche del XX secolo, la tomba ancora intatta del faraone Tutankhamen (il quale diventa, quindi, l’anello di congiunzione tra gli eventi reali di inizio Novecento e le vicende fittizie dei due personaggi principali). Il suggestivo resoconto di quel memorabile avvenimento si ripresenta più volte nel racconto, attraverso periodiche digressioni, dove i dialoghi sono sostituiti da brevi didascalie contenenti alcuni estratti del diario di Carter, nelle cui ammalianti pagine vediamo perdersi la stessa Teresa, nel vano tentativo di combattere l’insonnia, ma anche allo scopo di prepararsi al meglio per il suo incarico nella capitale tedesca. Fior non nasconde la propria fascinazione per quei passaggi, che rappresentano forse i momenti di maggiore immedesimazione con la giovane protagonista, la cui difficoltà a prendere sonno fa assumere agli intermezzi nel passato pure una chiara valenza onirica. D’altra parte, sognare o fantasticare, sono i due modi più immediati per separare la mente dalla frustrazione derivante da qualsiasi tipo di malessere. Le atmosfere sognanti, tuttavia, sono anche uno degli elementi che compaiono con maggior frequenza nelle opere di Fior, tanto quanto le riflessioni sullo scorrere del tempo, al quale è inevitabile associare la rielaborazione dei suoi anni berlinesi compiuta con Teresa e Ruben, ma pure l’evento traumatico che interrompe il senso di spensieratezza che permeava fino a quell’istante la vicenda principale.  Un brusco risveglio, da cui ci si allontana nelle pagine finali tornando ancora una volta all’antico Egitto, quando l’autore – sempre aiutato dal testo di Carter - si concede una piccola licenza poetica, per unire romanticamente la trama dei due giovani immigrati italiani al malinconico gesto di addio di una regina per il suo sposo defunto.

Per quanto riguarda la narrazione in senso stretto, Fior, come di consueto, lascia che siano la naturalezza e la leggerezza a farla da padrone. I dialoghi sono semplici e sinceri, così come i comportamenti dei due protagonisti, persino nelle scene di sesso, sorprendentemente esplicite, eppure delicate e per nulla artificiose. Di conseguenza, difficile per i lettori più giovani non immaginarsi nelle vesti di Teresa e Ruben o, per i più anziani, non rammentare quelle sensazioni perdute.

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Inutile sottolineare, inoltre, quanto l’apporto dei disegni risulti fondamentale in questo percorso emozionale. Tolto, infatti, qualche omaggio all’architettura berlinese, il tratto sfumato di Fior non permette a chi decide di avventurarsi nelle pagine del volume di concentrare l’attenzione su qualcosa che non siano i due scenari del racconto, già a partire dalle morbide pennellate iniziali che introducono il lettore al deserto egiziano. I colori, poi, sono quasi sempre luminosi e tendono ad affievolirsi leggermente o a ingrigirsi parzialmente solo nella rappresentazione delle gelide giornate della città tedesca. Pure nelle scene notturne e nell’oscurità delle tombe egizie, i dettagli e i volti dei personaggi sono costantemente rischiarati da calde tonalità pastello. E benché le figure dei protagonisti a volte sembrino rarefarsi, mischiandosi con l’ambiente circostante, i loro occhi non perdono mai in espressività.

Un nuovo lavoro di altissimo livello per Fior, a cui la Coconino ha contribuito con una bellissima edizione del libro. Uno splendido cartonato di grande formato, realizzato con carta di ottima qualità, in grado di assicurare la massima resa possibile alle evocative tavole dell’artista romagnolo.

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