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Antonio Ausilio

Antonio Ausilio

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Hypericon, recensione: amarsi a Berlino a fine anni '90

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A vedere le numerose e disordinate file di lettori in paziente attesa di una dedica alla scorsa edizione di Lucca Comics and Games o a leggere del successo del tour promozionale che ha accompagnato l’uscita di Hypericon - il suo ultimo libro - la rivolta degli appassionati bonelliani, che avevano mal digerito le copertine con cui Manuele Fior aveva impreziosito la bella, ma effimera serie di Mercurio Loi, pare oggi un evento dimenticato, perso nelle nebbie del tempo. In realtà, il riferimento è a pochi anni fa e l’autore cesenate, a dispetto del plauso della critica e dei buoni risultati commerciali ottenuti con Cinquemila chilometri al secondo (opera che gli era valsa il Gran Guinigi a Lucca nel 2010 e il Fauve d’or al Festival di Angoulême l’anno successivo), solo di recente ha raggiunto una fama tale da garantirgli l’interesse di una platea composta non soltanto da semplici amanti della Nona Arte. Non stiamo parlando di un seguito comparabile a quello di Zerocalcare - un fenomeno unico e, per certi versi, irripetibile (almeno nell’immediato) – ma è innegabile che ogni nuovo volume che porti la firma di Fior, sia diventato un’attrattiva irresistibile per quella generazione di lettori che - cresciuta libera da antiquati cliché culturali - considera finalmente il fumetto solo un mezzo espressivo alternativo a cinema e letteratura.

In Hypericon, dopo la parentesi fantascientifica di Celestia, Fior decide di tornare a una dimensione più quotidiana, riavvicinandosi a quelle tematiche che avevano caratterizzato buona parte dei suoi primi lavori, con un esplicito richiamo nostalgico per un periodo storico che lui stesso - come ha confermato in varie interviste - ha vissuto con il medesimo ardore di Teresa e Ruben, i due personaggi principali del libro. La vicenda, infatti, è ambientata nella Berlino di fine anni Novanta, quando nella capitale tedesca, più che in altre metropoli europee, era realmente possibile assaporare l’energia e l’ottimismo seguiti alla fine della Guerra Fredda, tanto che, diventata il polo di attrazione dei giovani dell’intero continente, ansiosi di condividere con i coetanei locali libertà mai pienamente godute fino a quel momento, la città trasmetteva un’incontenibile voglia di vivere alimentando, al contempo, la speranza di un futuro aperto a ogni opportunità. Tutte sensazioni inseguite anche dal ventitreenne Fior, che ha abitato a Berlino negli stessi anni raccontati nel libro. Facile capire, quindi, perché l’autore romagnolo abbia voluto rivivere con i due protagonisti i sogni e i desideri di allora, caratterizzando entrambi con un intento dichiaratamente autobiografico.

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Ci saremmo aspettati, tuttavia, che fosse Ruben, con la sua esuberanza un po’ anarchica, tipica della post-adolescenza e di tutti coloro che possiedono un’anima artistica, a mostrare le somiglianze maggiori con il giovane Fior “berlinese”. Invece, ci è parsa la razionale Teresa il personaggio in cui l’autore abbia deciso di specchiarsi di più. Un’impressione che deriva non solo dal fatto che la ragazza si trova in Germania per l’allestimento di una mostra dedicata a Tutankhamen (l’archeologia è una nota passione di Fior e una delle occupazioni che hanno preceduto il suo ingresso ufficiale nella letteratura disegnata), ma anche per l’insonnia di cui lei soffre, un disturbo patito spesso dal fumettista, pure nel periodo nel quale ha concepito la trama di Hypericon. Se la nostra ipotesi si rivelasse corretta, la scelta risulterebbe senz’altro singolare, sebbene sia molto probabile che essa dipenda unicamente dalla maggior sintonia verso i character femminili manifestata dall’autore in tutte le sue opere. C’è anche da dire che i due ragazzi potrebbero semplicemente rappresentare il modo in cui egli vede sé stesso in due diversi momenti della vita, con Ruben a impersonare effettivamente la sua giovinezza e Teresa, all’opposto, la sua maturità.

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Comunque sia, Fior ha raccontato di aver imbastito la vicenda narrata nel libro durante il lockdown parigino seguito ai primi giorni di pandemia, pertanto, note autobiografiche a parte, l’aspetto della storia che emerge con più forza è il comprensibile desiderio di evadere da quella realtà claustrofobica. E non è un caso che – oltre ai bei ricordi passati - sia di nuovo l’antico Egitto a essere utilizzato per questo scopo. Prima di fare la conoscenza di Teresa e Ruben, infatti, veniamo catapultati negli ultimi mesi del 1922, quando nell’area del deserto egiziano nei pressi di Luxor nota come Valle dei Re, l’inglese Howard Carter fece una delle più sensazionali scoperte archeologiche del XX secolo, la tomba ancora intatta del faraone Tutankhamen (il quale diventa, quindi, l’anello di congiunzione tra gli eventi reali di inizio Novecento e le vicende fittizie dei due personaggi principali). Il suggestivo resoconto di quel memorabile avvenimento si ripresenta più volte nel racconto, attraverso periodiche digressioni, dove i dialoghi sono sostituiti da brevi didascalie contenenti alcuni estratti del diario di Carter, nelle cui ammalianti pagine vediamo perdersi la stessa Teresa, nel vano tentativo di combattere l’insonnia, ma anche allo scopo di prepararsi al meglio per il suo incarico nella capitale tedesca. Fior non nasconde la propria fascinazione per quei passaggi, che rappresentano forse i momenti di maggiore immedesimazione con la giovane protagonista, la cui difficoltà a prendere sonno fa assumere agli intermezzi nel passato pure una chiara valenza onirica. D’altra parte, sognare o fantasticare, sono i due modi più immediati per separare la mente dalla frustrazione derivante da qualsiasi tipo di malessere. Le atmosfere sognanti, tuttavia, sono anche uno degli elementi che compaiono con maggior frequenza nelle opere di Fior, tanto quanto le riflessioni sullo scorrere del tempo, al quale è inevitabile associare la rielaborazione dei suoi anni berlinesi compiuta con Teresa e Ruben, ma pure l’evento traumatico che interrompe il senso di spensieratezza che permeava fino a quell’istante la vicenda principale.  Un brusco risveglio, da cui ci si allontana nelle pagine finali tornando ancora una volta all’antico Egitto, quando l’autore – sempre aiutato dal testo di Carter - si concede una piccola licenza poetica, per unire romanticamente la trama dei due giovani immigrati italiani al malinconico gesto di addio di una regina per il suo sposo defunto.

Per quanto riguarda la narrazione in senso stretto, Fior, come di consueto, lascia che siano la naturalezza e la leggerezza a farla da padrone. I dialoghi sono semplici e sinceri, così come i comportamenti dei due protagonisti, persino nelle scene di sesso, sorprendentemente esplicite, eppure delicate e per nulla artificiose. Di conseguenza, difficile per i lettori più giovani non immaginarsi nelle vesti di Teresa e Ruben o, per i più anziani, non rammentare quelle sensazioni perdute.

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Inutile sottolineare, inoltre, quanto l’apporto dei disegni risulti fondamentale in questo percorso emozionale. Tolto, infatti, qualche omaggio all’architettura berlinese, il tratto sfumato di Fior non permette a chi decide di avventurarsi nelle pagine del volume di concentrare l’attenzione su qualcosa che non siano i due scenari del racconto, già a partire dalle morbide pennellate iniziali che introducono il lettore al deserto egiziano. I colori, poi, sono quasi sempre luminosi e tendono ad affievolirsi leggermente o a ingrigirsi parzialmente solo nella rappresentazione delle gelide giornate della città tedesca. Pure nelle scene notturne e nell’oscurità delle tombe egizie, i dettagli e i volti dei personaggi sono costantemente rischiarati da calde tonalità pastello. E benché le figure dei protagonisti a volte sembrino rarefarsi, mischiandosi con l’ambiente circostante, i loro occhi non perdono mai in espressività.

Un nuovo lavoro di altissimo livello per Fior, a cui la Coconino ha contribuito con una bellissima edizione del libro. Uno splendido cartonato di grande formato, realizzato con carta di ottima qualità, in grado di assicurare la massima resa possibile alle evocative tavole dell’artista romagnolo.

Crossover 1 e 2, recensione: l'opera meta-fumettistica di Donny Cates

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Il crossover, ovvero l’incrocio narrativo che porta personaggi titolari di serie diverse a essere parte della stessa storia, è uno degli espedienti maggiormente utilizzati nel mondo dell’entertainment. Nato con finalità prevalentemente commerciali, sfrutta il forte richiamo che l’incontro/scontro tra varie icone dell’immaginario popolare esercita non solo sui fan, ma pure sul pubblico più generalista. Diffusissimo nel fumetto supereroistico fin dalla Golden Age, è stato frequentemente impiegato dalla Marvel - e a partire dagli anni Ottanta anche da altri editori (DC in primis) - per cementare la propria continuity, diventando in tempi più recenti, l’asse portante dei cosiddetti “eventi”, saghe a lungo respiro che le due major americane propongono quasi a scadenza regolare, nella speranza di rinvigorire collane in declino, per riportare sotto la luce dei riflettori personaggi un po’ trascurati o, banalmente, per offrire al pubblico trame dirompenti e di ampie proporzioni che possano mantenere sempre vivo l’interesse verso determinati character.

Tali operazioni spesso, in realtà, non incidono più di tanto sulla “vita” dei protagonisti o addirittura tradiscono quelle che erano le premesse originali. Ciò nonostante, non si può negare che i crossover costituiscano ancora un’attrattiva irresistibile per i lettori. Non sorprende, quindi, che un vero appassionato come Donny Cates abbia deciso di dedicare proprio ai crossover una delle sue ultime fatiche, tanto da usare il termine stesso come titolo della serie. Questa – pubblicata negli USA dalla Image e raccolta in Italia dalla Saldapress in bellissimi volumi cartonati – è, tuttavia, molto più che un semplice omaggio alle iperboliche scazzottate tra eroi, villain ed esseri cosmici di smisurata potenza, che sono solite riempire le pagine di quegli albi legati tra loro, principalmente grazie alla straordinaria creatività che lo sceneggiatore texano esibisce tutte le volte che è libero di muoversi oltre i confini imposti da Marvel e DC. In questi casi, il nostro Donny si trasforma in un vulcano in eruzione da cui fuoriescono idee a ripetizione, che in parte rivelano anche la sua voglia di scardinare alcune regole della letteratura disegnata apparentemente inviolabili, pur senza rinnegare mai l’indirizzo popolare della sua scrittura, la quale resta costantemente lontana da ogni velleità autoriale e ben ancorata a uno spirito bonario, che nulla ha a che fare con l'estremismo trasgressivo di Garth Ennis o con l’acida irriverenza dell’ultimo Alan Moore.

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Eppure, le sequenze iniziali della serie potrebbero persino avere il sapore del déjà vu, dato che - evento catastrofico a parte – mostrano l’inspiegabile arrivo dei personaggi dei fumetti nel mondo reale, una trovata indubbiamente singolare, ma già esplorata da altri in passato (si pensi, per esempio, a 1985 di Mark Millar e Tommy Lee Edwards). Ciò nondimeno, quella che in principio sembra anche una stramba denuncia del razzismo e del cristianesimo oscurantista dell’America profonda, viene presto impreziosita dall’inconfondibile tocco del giovane scrittore trasformandosi in un gioco meta-testuale in piena regola dove il termine crossover cambia rapidamente di significato, passando dal suddetto incontro tra esseri umani e personaggi dei fumetti (surrealmente distinguibili dalle persone in carne e ossa perché “colorati” in bassa qualità con la tipica retinatura dei vecchi comic book), al classico incrocio tra eroi di collane diverse, fino ad arrivare all’ingresso nella trama di character di altri autori (su tutti Madman di Mike Allred, i detective Chris Walker e Deena Pilgrim protagonisti di Powers di Brian Michael Bendis e Michael Avon Oeming e un cattivone molto popolare – soprattutto grazie alla TV - di cui non riveliamo il nome per non rovinare la sorpresa a chi ancora non si è avvicinato alla serie) e, inaspettatamente, alla comparsa di Cates stesso e di alcuni suoi illustri colleghi che diventano addirittura parte del cast dei comprimari della vicenda (omaggiando e, forse, prendendo amabilmente in giro gli ultimi numeri dell’Animal Man di Grant Morrison).

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È sicuramente questa - almeno per quanto si è visto sinora – il passaggio più divertente dell’opera, sebbene il lungo preambolo iniziale, necessario a introdurre i protagonisti e a definire lo scenario, sia tutt’altro che trascurabile, essendo illuminato fin dalla prima vignetta dal brio dell’autore texano, al solito abilissimo nel dosare avventura, commedia (di frequente appannaggio dello spassosissimo Dottor Blaqk, già apparso in altri titoli di Cates e divenuto ormai molto più che una semplice parodia del Dottor Strange) e melodramma. Poi però, dopo il gustoso interludio scritto da Chip Zdarsky che, con grande autoironia, scherza sul suo pseudonimo (il cartoonist canadese si chiama in realtà Steve Murray, ma pure gli addetti ai lavori spesso se lo dimenticano), facendo prendere vita al suo alter-ego artistico, il lettore viene trascinato in una farsa delirante, in cui la vicenda perde progressivamente ogni traccia di verosimiglianza. A questo clima goliardico - che sembra voler fare il verso a quello che si respira nel dissacrante Airboy di James Robinson e Greg Hinkle - si uniscono entusiasticamente anche Bendis, Oeming e Robert Kirkman che, similmente a Zdarsky, utilizzano le loro creazioni più famose per farsi beffe di sé stessi. E, nel generale vortice autocitazionista, la parte del leone spetta ovviamente a Cates che, con la sua abituale sfrontatezza, si ritaglia un ruolo determinante nella trama. Sorprendentemente, tuttavia, il suo veniale narcisismo non penalizza assolutamente lo scorrere degli eventi i quali, anzi, finiscono per risultare persino più appassionanti agli occhi del pubblico, a dispetto di alcuni snodi narrativi che – a onor del vero - vengono parzialmente sacrificati nella seconda metà della serie.

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Per dare vita a questa innocua ma piacevolissima follia, l’autore di Buzzkill e God Country si affida ancora una volta alle matite di Geoff Shaw (sostituito in brevi intermezzi da Oeming e Phil Hester), il quale ripaga l’amico con una prova più ispirata del solito, che è pure il sintomo evidente di una maturità artistica ormai prossima per il disegnatore americano. Eliminato il tratteggio spigoloso e un po’ sporco dei suoi primi lavori, Shaw fonde brillantemente il dinamismo del fumetto supereroistico moderno a un’espressività dei volti tendente al caricaturale (soprattutto quelli maschili), uno stile che esalta l’anima avventurosa della vicenda ma che, contemporaneamente, evita di far passare in secondo piano l’approccio parzialmente umoristico voluto da Cates. In aggiunta, la costruzione delle tavole è estremamente variabile e segue alla perfezione il ritmo imposto dalla trama, con un’alternanza di splash-page e di pagine fitte di vignette che separano in maniera netta i passaggi più concitati da quelli più riflessivi. L’artista di Denver, oltretutto, pare aver acquisito una maggiore dimestichezza con le ombreggiature, le inquadrature dei personaggi e i dettagli degli sfondi, il che – grazie anche all’ottimo lavoro di Dee Cunniffe ai colori - garantisce un preciso allineamento dei disegni ai frequenti cambi di registro emotivo presenti nella sceneggiatura.

Che altro dire? Nulla se non che attendiamo con ansia di leggere il prossimo story arc, il quale si preannuncia ancora più deflagrante dei due pubblicati finora. Non trattenete il fiato nell’attesa, però. Cates è impegnato in così tanti progetti, che non sembra intenzionato a tornare molto presto alla sua strampalata meta-creatura.

Startup – La Signora della Heroes Union, recensione: i supereroi secondo Sitcomics

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In tutta sincerità, quando l’estate scorsa arrivò nelle edicole italiane il primo numero di Blue Baron, mai avremmo pensato di ritrovarci un anno dopo – grazie alla recente uscita del volume dedicato alla super velocista Startup – a commentare un’iniziativa editoriale, che a prima vista potrebbe sembrare semplicemente stravagante, ma che, in realtà, merita un’analisi molto più accurata.

Innanzitutto, complimenti alla Sbam! Comics per aver creduto nelle potenzialità di questo nuovo (e singolare) universo fumettistico, di cui - almeno da questo lato dell’oceano - ben pochi erano a conoscenza.
Per la verità, la piccola, ma agguerrita casa editrice lombarda, già attiva da una decina d’anni con pubblicazioni a carattere prevalentemente umoristico, non è nuova a simili proposte le quali, però, paiono essere dettate più dalla passione, che dalla possibilità di un ritorno economico consistente. Tra queste, vanno perlomeno segnalati i monografici con protagonisti i personaggi delle gloriose Edizioni Alpe e Bianconi, i quali, purtroppo, appartengono ormai solo alla memoria dei pochi che ancora ricordano con piacere i tanti pomeriggi passati in compagnia di Geppo, Cucciolo e Tiramolla.
Lo stesso target di pubblico - o quasi - a cui, presumibilmente, sono indirizzati gli albi della Sitcomics (compresi quelli di Blue Baron e Startup, citati all’inizio), minuscola casa editrice californiana, fondata qualche anno fa dall’autore televisivo Darin Henry, della quale la Sbam! aveva già portato in edicola la miniserie Super ‘Suckers (una sorta di Archie in versione vampiresca). Non si spiegherebbe altrimenti l’estetica “vintage” che questi fumetti ostentano con orgoglio, apertamente ispirata a quella dei comics anni Settanta e dei primi anni Ottanta (o, comunque, antecedenti alla rivoluzione che di lì a poco avrebbe investito il medium per mano dei vari Frank Miller, Alan Moore e di tutti coloro che vengono generalmente inclusi nella cosiddetta British Invasion) senza la minima preoccupazione di risultare anacronistici e, soprattutto, di essere in totale controtendenza con gli stili oggi dominanti, pur sapendo di rischiare di catturare l’attenzione solo di qualche lettore di lunga data.

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D’altra parte, che Henry puntasse a creare un forte effetto nostalgia lo si poteva intuire semplicemente scorrendo la lista degli autori chiamati a collaborare con lui, a partire dal veterano Sal Buscema, apparso ancora in gran forma, nonostante i suoi ottantasei anni d’età. Basti guardare le copertine degli albi, quasi tutte opera sua, dove è facile rintracciare quelle pose dinamiche, quell’intensità drammatica delle espressioni e quegli scenari ricchi di effetti dirompenti, che già contraddistinguevano le sue tavole per Hulk, Capitan America e Spider-Man, proprio negli anni che il buon Darin ha voluto rievocare con i suoi personaggi.
Oltre a Buscema, impossibile non citare almeno Ron Frenz e Roger Stern. Il secondo, in particolare, che finora è l’unico che ha avuto l’onere di sostituire l’autore californiano alle sceneggiature, occupandosi, nello specifico, delle gesta della Heroes Union, il supergruppo del quale fanno parte gli eroi principali del “Sitcomics Universe”, tra cui anche Startup, protagonista – come detto – del volume al quale è dedicata la nostra analisi.

Venendo all’opera in questione, i testi sono, ancora una volta, di Henry che, naturalmente, prosegue con lo stesso stile con cui ha caratterizzato le precedenti uscite. Quindi, avventure leggere, animate da paladini della giustizia inevitabilmente un po’ stereotipati e da cattivi più pittoreschi che realmente minacciosi, ognuno dei quali abbigliato con costumi coloratissimi e vistosi, che oggi nessuno si sognerebbe mai - se non per qualche character storico - di proporre sugli albi di Marvel e DC. I dialoghi sono spesso roboanti e le storie lineari e con poche sottotrame, benché non manchi quel pizzico di soap opera necessario a rendere la vicenda meno prevedibile. Tutti elementi che chi ha familiarità con i comics di quarant’anni fa non faticherà ad associare a quell’epoca.

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C’è, però, una particolarità importante dei personaggi di Henry, che li distingue non solo dai loro modelli di riferimento del passato, ma anche dai supertizi che attualmente affollano edicole e fumetterie. Infatti, forte della sua esperienza in varie produzioni comedy per la TV (sue sono alcune sceneggiature di Seinfeld e Futurama), l’autore americano ha pensato bene di aggiungere alle sue trame una marcata componente umoristica. Non che l’ironia sia una novità per gli eroi in calzamaglia, come insegnano, tra gli altri, la Justice League di Keith Giffen e J.M. DeMatteis o la She-Hulk di John Byrne (cosa di cui si è evidentemente ricordata la scrittrice televisiva Jessica Gao quando è stata chiamata a sviluppare la recentissima serie per Disney+ dedicata alla Gigantessa di Giada), ma la comicità di Henry è contrassegnata da situazioni paradossali, battute demenziali, gag fulminanti, che rendono i suoi fumetti non soltanto intrisi di ironia, bensì – come già suggerisce il nome della casa editrice - quasi delle sit-com su carta. In realtà, l’effetto è a volte un po’ straniante, soprattutto perché l’autore americano mostra di essere un abile narratore a prescindere dai numerosi intermezzi umoristici, oltreché un profondo conoscitore del genere supereroistico, tanto che le sue storie risulterebbero interessanti anche se rimanessero ancorate ai binari dell’avventura tradizionale. È pur vero, però, che non è possibile ridurre l’intento comico del testo a un semplice vezzo di Henry, essendo qualcosa di realmente identitario per questi personaggi, che viene palesato fin dalla loro caratterizzazione iniziale. Anche prendendo in considerazione la sola Startup, per esempio, non si può fare a meno di notare che, tolte le scene d’azione (ma talvolta neppure quelle), ogni altro aspetto che la riguarda – a cominciare dal fatto che Renee, l’alter-ego “civile” dell’eroina, è una mamma sovrappeso, impacciata e un po’ ingenua - è stato chiaramente studiato per suscitare simpatia o ilarità nel lettore, sebbene, come in qualunque sit-com che si rispetti, la realtà assuma di tanto in tanto sfumature tutt’altro che allegre (Renee è single perché ha perso il marito in guerra).

Il risultato finale è assolutamente gradevole, essendo determinato anche dagli omaggi a Marvel e DC che Henry dissemina a ogni piè sospinto, senza che questo penalizzi in alcun modo lo scorrere degli eventi o la qualità della sua scrittura, che, malgrado le semplificazioni e i cliché associati a un soggetto del genere, spesso consente agli albi Sitcomics di elevarsi al di sopra di testate ben più rinomate.

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Unica differenza significativa rispetto alle altre collane dell’editore californiano è il disegnatore, il poco noto Craig Rousseau, di cui si ricordano solo alcune storie di Harley Quinn e Impulse per la DC e qualche serie minore per la Dark Horse e l’Image. Il suo tratto, che richiama vagamente quello di Walter Simonson, si discosta in maniera sostanziale da quello classicheggiante di Buscema e Frenz. Tuttavia, l’impronta cartoonesca che lo contraddistingue si sposa piacevolmente con l’umorismo di Henry più di quanto siano riusciti a fare finora i suoi due illustri colleghi, che nella loro carriera hanno sempre mostrato di preferire trame dai risvolti maggiormente drammatici.
Forse si può rimproverare a Rousseau una cura per gli sfondi non proprio esemplare, ma non che gli manchi il senso della narrazione o la capacità di modulare la costruzione delle tavole a seconda del tono impartito alla vicenda.

Un’ultima nota relativa all’edizione Sbam! A parte la miniserie di Blue Baron, che è uscita sotto forma di agili brossurati da edicola, le avventure della Heroes Union e di Startup sono state raccolte in due volumi più corposi e di buona fattura che, sebbene non possano essere accostati ai cartonati di pregio di altri editori, rappresentano l’unica scelta percorribile per mantenere il prezzo degli albi alla portata di tutti. Soluzioni differenti non permetterebbero agli eroi di Henry di farsi strada nelle nostre fumetterie, ormai invase da ogni sorta di pubblicazione, e di venire intercettati da quei lettori costantemente alla ricerca di proposte insolite e originali. Una categoria a cui, secondo noi, Startup e soci meritano senz'altro di appartenere.

Strange Adventures 1 e 2, recensione: la definitiva decostruzione dell'eroe spaziale Adam Strange

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Apparso per la prima volta nel 1958 sulle pagine dell’antologica Showcase, Adam Strange fu creato dall’editor Julius Schwartz in un periodo in cui la DC stava cercando di allargare sempre di più la sua offerta per i giovani lettori, che erano tornati in massa a leggere fumetti, grazie al profondo rinnovamento nei contenuti che investì il medium a partire dal 1956, anno nel quale Barry Allen divenne il nuovo Flash, dando il via a una seconda età dell’oro per i comics americani, oggi nota come Silver Age.
 
Dopo che Murphy Anderson ne ideò il costume, il personaggio fu lasciato nelle abili mani di Gardner Fox, con Mike Sekowsky a occuparsi dei disegni. Di lì a poco, tuttavia, Adam Strange venne trasferito su un’altra testata, la fantascientifica Mistery in Space, e le matite passarono al grande Carmine Infantino. Lo spostamento su Mistery in Space aveva una sua ragione ben precisa. Il personaggio, infatti, non possedeva le tipiche caratteristiche di un supereroe - sebbene presto entrò a far parte della Justice League - ma sembrava piuttosto appartenere a quel filone letterario generalmente identificato con il nome di planetary romance, divenuto molto popolare agli inizi del Novecento grazie allo scrittore Edgar Rice Burroughs e ai suoi eroi John Carter di Marte e Carson di Venere e che vide successivamente importanti epigoni nei fumetti come Buck Rogers e Flash Gordon.

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Nella sua prima storia da protagonista, il nostro Adam è un archeologo che – mentre cerca di sfuggire ad alcuni discendenti degli inca, furiosi per averlo sorpreso a trafugare un antico tesoro perduto – viene improvvisamente investito da un’energia misteriosa, che lo trasporta istantaneamente sul pianeta Rann. Qui viene condotto nella città di Ranagar, dove apprende dagli scienziati del luogo che il suo arrivo è stato determinato dal cosiddetto Raggio Zeta, concepito in realtà come un mezzo per comunicare con la Terra, ma poi trasformatosi in un raggio di teletrasporto a causa di interazioni impreviste con radiazioni spaziali sconosciute. Su Rann, Adam vive da subito avventure mirabolanti, che lo vedono spesso contrapposto ad altre razze aliene, sempre intenzionate a conquistare quello che diventerà il suo pianeta adottivo, dove presto – e in maniera alquanto prevedibile - troverà anche l’amore della bella principessa Alanna. L’effetto del Raggio Zeta, tuttavia, tende a esaurirsi e nel momento in cui questo succede, l’eroe viene trasportato indietro sulla Terra, costretto ad aspettare che l’emissione energetica si manifesti un’altra volta, per poter tornare alla sua nuova casa.

Le storie del personaggio vanno avanti fino a metà degli anni Sessanta, ripetendo costantemente lo stesso schema: arrivo su Rann, combattimento contro la minaccia di turno, rientro sulla Terra. Dopodiché, Adam Strange comparirà solo in veste di comprimario, almeno fino ai primi anni Ottanta quando torna a essere protagonista di nuove avventure, che, però, continuano a seguire il canovaccio delle precedenti. Poi, nel 1987, durante la sua celebre gestione di Swamp Thing, Alan Moore decide di offuscare l’alone di purezza di quelle storie, rivelando che il Raggio Zeta aveva avuto fin dall’inizio come scopo il trasporto su Rann dei terrestri, affinché essi potessero sopperire alla quasi totale infertilità della popolazione maschile del pianeta (una sorta di Handmaid’s Tale all’inverso, in altre parole). Tale scomoda verità segna la fine dell’innocenza per Adam Strange, le cui imprese successive verranno di frequente intervallate da avvenimenti più cupi e drammatici. Fino ad arrivare al maggio del 2020, allorché nelle fumetterie americane esce il primo numero della miniserie Strange Adventures (che riprende il nome della collana dove, tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, furono ristampate le apparizioni del personaggio su Showcase e Mistery in Space), in cui la decostruzione dell’eroe spaziale viene portata al suo definitivo compimento.

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Autore dei testi è l’ormai lanciatissimo Tom King, che, come in altri suoi lavori, imbastisce una trama poco lineare sebbene, questa volta, riesca brillantemente a contenerne la complessità narrativa, a dispetto di una vicenda sviluppata su due piani temporali differenti. Più precisamente, nel presente vediamo Adam e Alanna abitare sulla Terra, dopo aver guidato, in una guerra lunga e dolorosa, il popolo di Rann alla vittoria sullo spietato Impero dei Pykkt. Nel passato, invece, assistiamo proprio all’arrivo dei Pykkt sul pianeta e alle fasi più importanti del conflitto. Le due storyline procedono in parallelo, scambiandosi lo scenario di continuo, dando l’impressione, all’inizio, di essere solo due momenti diversi del medesimo racconto. Presto, tuttavia, gli eventi del presente cominciano a prendere una piega del tutto inaspettata e molte certezze, anche le più solide, vengono apertamente messe in discussione.

Strange Adventures rappresenta per lo scrittore americano la nuova tappa di un percorso avviato con Omega Men e proseguito – pur con intenzioni e toni differenti – nell‘ottimo Sheriff of Babylon. L’assunto di base è sempre lo stesso: quando c’è di mezzo la guerra, la realtà non è mai come sembra (un’affermazione apparentemente ovvia, ma – pensando alla triste attualità del conflitto russo-ucraino - spesso minimizzata) e per far sì che questo messaggio non possa essere frainteso, King decide di tornare a impiegare ambientazioni di fantasia, perché consapevole che riferirsi ad accadimenti reali – come è stato per la guerra in Iraq in Sheriff of Babylon – potrebbe in qualche modo limitare la sua libertà di azione, con il rischio di non riuscire a trasmettere fino in fondo, le lezioni indigeste apprese durante i suoi anni trascorsi alla CIA. E, in effetti, far apparire così inadeguata la figura classica del supereroe, aiuta a evidenziare con maggior forza quanto sia difficile, in determinate circostanze, tracciare un confine tra buoni e cattivi o a far risaltare, in tutta la loro sgradevolezza, le controverse decisioni da prendere per ribaltare le sorti di un conflitto. In aggiunta, per portare allo scoperto ogni forma di ambiguità e drammi ancora più laceranti, o per cercare di spiegare come alcune scelte deplorevoli siano, a volte, tragicamente inevitabili, l’autore statunitense non circoscrive questo trattamento ai soli protagonisti – tutte figure di secondo piano dell’Universo DC e, quindi, facili da rimodellare – ma lo estende a comprimari di lusso del livello di Batman, Lanterna Verde e Superman. Emblematici, in proposito, due incontri tra Adam e quest’ultimo: uno nel passato, all’inizio dell’invasione, dove l’Uomo d’Acciaio decide pragmaticamente - ma anche con molto cinismo - di restare sulla Terra, invece che andare in soccorso di Rann. Il secondo nel presente, quando Adam rinfaccia all’amico la sua scelta, che lo ha costretto a compiere atti terribili, pur di non lasciare nelle mani dei Pykkt il pianeta di sua moglie.

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Come era logico attendersi, King non manca di sottolineare quanto la percezione di un determinato avvenimento possa sembrare totalmente diversa in relazione al contesto, ai punti di vista, alle persone coinvolte o alle informazioni fatte circolare, denunciando esplicitamente il processo di semplificazione - se non di vera e propria mistificazione - in atto nei media contemporanei. Nei passaggi maggiormente drammatici, la sua prosa è asciutta, schietta e radicale e si manifesta attraverso dialoghi molto realistici, che – Mr. Terrific a parte, dato il suo ruolo all’interno della vicenda - ci restituiscono personaggi più umani di quello che sarebbe lecito aspettarsi da superuomini in calzamaglia (o in tuta spaziale) abituati a ergersi come difensori di interi pianeti. D’altronde, la capacità di saper descrivere con estrema naturalezza i rapporti interpersonali, arricchendoli di poesia o tragicità a seconda delle situazioni, è una delle qualità più importanti della scrittura di King, che in Strange Adventures trova, forse, la sua massima espressione.

Naturalmente, mentre le differenze tra presente e passato cominciano a farsi evidenti, assistiamo anche a un progressivo cambio di stile nella narrazione. E se la guerra su Rann – benché non ci vengano risparmiate le brutalità di entrambi gli schieramenti - continua a essere dipinta come l’eroica resistenza di un popolo contro la ferocia degli invasori, nel presente veniamo coinvolti in una lenta discesa nell’oscurità, che fa emergere ferite profonde, ancora lontane dal rimarginarsi. Alla fine, la separazione è netta: da un lato abbiamo la vittoria sui Pykkt che, nonostante il suo enorme carico di sacrifici e orrori, pare preannunciare - con spirito quasi hollywoodiano - un futuro pieno di speranza. Dall’altro, abbiamo una realtà segnata dall’ipocrisia e dall’inquietudine, che King decide di raccontare seguendo le regole del thriller investigativo, esattamente come aveva già fatto in Omega Man e in Sheriff of Babylon (o nella recente miniserie dedicata a Rorschach), ottenendo, però, un esito ancora più dirompente, determinato non tanto dal registro mutevole dei salti cronologici, ma piuttosto dalla notevole tensione che si crea non appena la cospirazione comincia a palesarsi. King calibra i tempi scenici alla perfezione e il risultato è un autentico pugno nello stomaco del lettore, totalmente impreparato a gestire la scomoda verità che si apprende negli ultimi capitoli.

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Tale contrasto trova una completa corrispondenza anche nei disegni, dove gli stili dissonanti di Mitch Gerards ed Evan Shaner, i due validissimi artisti (entrambi - pur se in misura diversa - già collaboratori dello scrittore americano in altre sue opere) chiamati a dar vita rispettivamente agli eventi ambientati nel presente e a quelli nel passato, esaltano le crescenti divergenze della sceneggiatura. Gerards, rinunciando del tutto a ogni forma di schematizzazione, tarando con precisione le espressioni e facendo un uso magistrale del colore, ci regala personaggi autentici, desiderosi di abbandonarsi alla loro quotidianità, ma pure incapaci di reprimere le ombre che li tormentano o di nascondere il loro vero essere. Shaner, per contro, con il suo tratto pulito e classicheggiante è perfetto nel rappresentare il valore, lo spirito di sacrificio e la determinazione dell’eroe, così come la bellezza di Alanna o le differenze "somatiche" dei vari popoli di Rann. Tutti elementi che, persino nei momenti più intimi, trasportano il lettore all’interno di quell’epopea avventurosa con cui King ha scelto di raccontare il passato.

Anche la costruzione delle tavole rispecchia questa asimmetria: sebbene entrambi i disegnatori utilizzino nella maggior parte dei casi una gabbia a tre vignette orizzontali, Gerards a volte ritorna alla divisione a nove riquadri - che aveva già sperimentato con successo in Mister Miracle – allo scopo di mettere in evidenza i dettagli, di allungare i dialoghi, di raffreddare le emozioni, mentre Shaner fa un largo uso delle splash-page, più idonee per mostrare gli scontri tra gli eserciti, i grandi spazi, la fisicità dei protagonisti o, in generale, per imprimere un ritmo accelerato alla narrazione o per amplificare la drammaticità degli avvenimenti. Il fatto sorprendente, tuttavia, è che spesso la differenza di stile si nota appena perché i due autori sono molto bravi a scambiarsi di ruolo, mantenendo una sorta di continuità nella luminosità e nella gradazione dei colori. È solo la discordanza nei toni a far intuire il mutamento dello scenario, prima che intervenga la trama a darcene una conferma. Il medesimo effetto, benché in forma più estrema, è ampiamente percepibile nelle copertine degli albi, di cui sono state realizzate due versioni – una da Gerards e l’altra da Shaner - per ognuno dei dodici numeri che compongono la serie. Molte ritraggono la stessa scena, ma vista da due prospettive diverse, quasi come uno specchio che riflette un’immagine distorta di quella – almeno in apparenza - reale.

Strange Adventures 5

Affondando le sue radici nel revisionismo che diede un forte scossone al genere supereroistico negli anni Ottanta, Strange Adventures si configura come un’ulteriore evoluzione di quei concetti, oltre a essere una continua fonte di riflessione e un’analisi lucida e spietata dell’incertezza che domina i nostri tempi. Un’opera che si pone ai vertici del fumetto americano contemporaneo, assolutamente imprescindibile per ogni appassionato e che Panini Comics ha degnamente valorizzato con un’elegante edizione in due volumi cartonati.

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