Corvi e palloncini, fiocchi rosa e carri armati, fulmini e
luce pesante, sangue e occhi affilati, anfibi, nuvole bianche e prati verdi,
muschio, mandorle e proiettili infuocati, lampi viola tra stelle blu in una
notte gialla, conigli e macerie. Di qua la forma verde di un rombo di tuono, di
là esserini blu che ballano nudi e indemoniati in una scatola rettangolare
inneggiando ad una pallida luna di cartone. Una lumaca saetta nell’aria
lasciandovi uno squarcio tremolante ed impreciso, che disgregandosi pioviggina
come rugiada sulle foglie ruvide di libri scheletrici incastonati nel terreno.
Poco più in là una bolla implode con un suono marrone, e libellule librano
libere nell’aria le loro livree lattiginose. Un odore di pino si fa suono forte
e pungente di polvere da sparo compatta e pericolosa come una bomba a mano.
Piccole fate dai canini aguzzi cercano a turno di addentare al collo un clown
dal naso rosso e gli occhi lucidi che rassegnato aspetta che arrivi la fine. Pomodori
succosi pendono dai rami di viticci scarlatti, macchinine vermiglie formano una
coda che si perde all’infinito davanti alla luce di un semaforo eternamente
rosso, lucciole infuocate trovano riposo alla loro agonia quotidiana sul filo
del rasoio delle dita sanguigne di una ragazza dai profondi e vuoti occhi blu e
dalla densità di una piccola stella, che come una statua di cera resta piantata
nel terreno al centro di tutto questo. Ma forse è un attimo, o l’eternità
stessa, il momento in cui un suo sopracciglio si alza e vita ricomincia a
scorrere nei suoi occhi. Non è dato sapere cosa pensi mentre incurante delle
presenze attorno a sé si muove sconvolgendo il caos naturale delle cose, non
mentre alza la testa e si guarda intorno, non mentre lo specchio delle sue
pupille riflette gli altri interpreti di questa messinscena malata e melodiosa,
non mentre muove il primo passo, strappando zolle di realtà sotto i suoi piedi.
Forse la forza infinita di milioni di domande affolla la sua mente,
sopraffacendola ed annullandola, forse si è già allineata al caos che ha
intorno o forse è il caos stesso che si è allineato a quello della sua mente,
forse, semplicemente, si sta aggrappando ad una piccola, vera verità: Io so chi
sono. Io sono
PENANCE
Di quel che è successo prima non conserva molta memoria, e
probabilmente non le importa. I pensieri nella sua testa scorrono veloci e
guizzanti come pesciolini di fiume, un branco di idee rapide ed inconsistenti
che le riempie la mente senza alcuno schema coerente alla base, in modo tale
che è solo l’istinto animale a governare le sue azioni. I ricordi le sfuggono
ridendo divertiti mentre vanno a nascondersi dietro qualche angolo della sua
memoria, pronti ad uscire fuori quando meno se l’aspetta, e se conserva ancora
coscienza di come si sia gettata a capofitto nel varco aperto da Grace Cross
verso il Limbo non lo dà a vedere1. Per lei
solo il presente conta, solo il presente è. Eppure... nella sua mente è fissa
l’immagine di un ragazzo dalla bocca di fiamma. E’ raro che qualcosa riesca a
superare l’isolamento sensoriale che è il suo corpo, la sua prigione sia a
livello fisico che mentale, e soprattutto è raro che un pensiero, per quanto
piccolo sia, riesca a sopravvivere al maremoto della sua psiche, ma quel viso è
rimasto lì nonostante tutto, fisso come un faro sul mare rabbioso. E forse,
questo piccolo cambiamento, può significare la salvezza per la ragazza
intrappolata dentro Penance. Un frammento di passato all’interno del presente
eterno. Un pensiero razionale tra mille volatili. Ordine, nel caos.
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Forse è a causa del mutamento in corso, forse è per
essersi voltata nel momento giusto nella direzione giusta, forse era così che
doveva andare, ma davanti a sé, non sa se su un piano fisico dai contorni
sfocati o sottoforma di immagini solide e reali su quello mentale, le vede. La
sua psiche le decodifica interpretandole al più alto dei piani di significato
che può permettersi, e quel che le appare sono tre strade, o almeno il concetto
di esse.
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La prima, tortuosa e stretta, scende giù per una scarpata
cambiando direzione ed aspetto ad ogni angolo.
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La seconda, grande e diritta, è fatta da un anonimo
asfalto polveroso, all’interno del quale però si intravedono spuntare qui e là
detonatori di mine.
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La terza, avvolta nella nebbia e dalla lunghezza
indefinita, si addentra in una foresta che può essere tanto quella delle favole
che quella degli incubi.
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Con l’istinto che l’ha accompagnata fin da quando è
diventata Penance, decide. Basta un passo, o anche solo l’idea di esso, ed è
immediatamente circondata dalle sfuggenti immagini che corollano la prima.
Mentre vi si addentra, comincia a riconoscere frammenti di esse, e poi intere
sequenze le ritornano alla mente. La protagonista è sempre una ragazza. Prima
neonata in una culla dalle bianche lenzuola ricamate a mano, poi davanti ad una
gigantesca torta alla frutta con tre candeline sopra mentre facce amiche e
amate le sorridono attorno, quindi mentre volteggia in un tutù di raso davanti
ad una piccola platea che applaude compiaciuta. Assieme alla consapevolezza di
conoscerla arriva improvviso qualcos’altro. Un nome: Yvette. Yvette
Seferovich.
Sé stessa. Non sa di saperlo, non se ne rende conto pienamente, ma nel profondo
del suo inconscio una parte di sé ancora ricorda il tempo in cui era solo Yvette,
in cui la vita scorreva tranquilla e tutto sembrava bello. Prima della
distruzione di tutti i suoi sogni, prima della guerra. Ed infatti attorno a
Penance le immagini cambiano improvvisamente. Da una spensierata infanzia si
passa alla brutale iniezione di realtà dell’adolescenza. La guerra. Non erano
tempi felici per la Yugoslavia, non erano tempi felici per chi era nato serbo,
non erano tempi felici per chiunque vivesse a Sarajevo. Le immagini le scorrono
davanti sempre più veloci, sempre più violente, come pallottole sparate alla
cieca da un cecchino impazzito per la solitudine. Penance si rivede nei grandi
occhi color nocciola di Yvette, mentre rovista tra le macerie in cerca di un
pezzo di pane aspettando la notte per poter uscire e andare a saccheggiare
qualche altro rudere. E l’assenza di tutti i suoi parenti, di tutti i suoi
cari, vittime di una guerra frutto di un’irrazionale odio verso l’altro. Era
rimasta sola. Era sola. Finché non era arrivato lui. Adesso non lo ricorda
bene, non ricorda com’era lui prima e del suo aspetto odierno ha solo delle
sfuggenti immagini che ancora a volte la perseguitano nei sogni, ma allora non
esisteva nessun Emplate. Allora, per lei c’era solo Marius St. Croix, il
ragazzo che in breve tempo era diventato la sua ancora e la sua salvezza, il
suo appiglio e la sua ragione di vita. Sì, poteva dire di aver trovato l’amore
con lui. Un amore intenso, feroce, passionale, un amore che li aveva salvati
entrambi dalle attitudini autodistruttive dell’umanità, che li aveva uniti a
livelli più alti di chiunque altro. I loro poteri erano così simili... Se lui
assorbiva l’energia degli altri, lei ne assorbiva la psiche in modo tale da
fornire un valido contraltare al potere del primo. Si nutrivano l’una
dell’altro, vivevano l’una per l’altro, e non si esaurivano mai. Avrebbero
potuto continuare così per sempre, ma l’esuberanza giovanile spesso porta a
volersi confrontare con l’ignoto, anche se poteva significare affrontare
qualcosa più grande di loro. E il giorno della possessione, che adesso le si
ferma innanzi fisso come a voler sottolineare quanto cruciale è stato questo
evento nella sua vita, è qualcosa di cui non potrà mai dimenticare nemmeno il
minimo dettaglio. Adesso, al vederlo davanti a sé, ricorda tutto. Ricorda il
canto dei grilli al chiaro di luna, ricorda l’odore acre delle candele accese
alle cinque punte del pentacolo, ricorda il sorriso rassicurante di Marius
mentre le spiega quale entità demoniaca dovrà intrappolare nella propria psiche
per potergli estorcere il potere con il quale tornare da vincente nella sua
famiglia. E’ tutto ancora lì, come se fosse oggi. Le parole di Marius, solenni
ma al contempo animate dalla sacra trepidazione che precede ogni momento
importante, risuonano come rintocchi di una campana nella notte. La natura
attorno a lei, che sfiora con la propria mente sentendola viva e piena di
energia, freme al sentire quella forza primigena e potente avvicinarsi come uno
squalo. Il contatto con quell’entità le invade immediatamente la mente usandola
per i propri scopi, e la consapevolezza fulminea di essere preda e non
predatore le balena come una rivelazione. Più la presenza calava nel suo corpo,
più usava le sue corde vocali per parlare con Marius, più lei si rendeva conto
che non era questo quello che volevano ottenere. Nella sua vita le era
capitato, anche incidentalmente, di intrappolare nella propria mente tracce
psichiche di ogni genere. Conosceva lo schema di una mente umana come conosceva
quella di un demone o di un’anima vagante, e a differenza delle loro
aspettative questa che avevano richiamato, seppur potentissima, non era nessuna
delle tre cose. Non aveva basi fisiche, ma non era mai morta, e non rimaneva
intrappolata nel giogo della sua forza mentale come avevano fatto tutte le
altre entità che aveva incontrato. Era pura forza mentale, libera ed impetuosa
come un fiume in piena, ed esperta quanto e più di lei nell’uso dei suoi stessi
poteri. Ma di tutto ciò, Marius non poteva accorgersi. Non riusciva a vedere
oltre il suo desiderio di riscatto, non riusciva ad oltrepassare il finto volto
demoniaco che gli fluttuava davanti e non riusciva a notare l’espressione di
muto aiuto del suo viso. Lei aveva fatto di tutto per liberarsi, ma quando
aveva tentato di avvertirlo era già troppo tardi. Il finto demone aveva già
ottenuto il sì di Marius, il finto demone aveva vinto. E lei si sentiva
bruciare in corpo. Le ultime sensazioni coscienti provenivano dalla sua pelle.
Le sembrava che si stesse ritraendo, che si stesse raggrinzendo, che si stesse
raccogliendo attorno ai propri muscoli. Percepiva come un buco nero al centro
del suo essere, e tutto quello che la costituiva stava velocemente addensandosi
su esso. Non solo la pelle, ma anche la sua mente si stava atrofizzando. I
pensieri, cristallizzati in una forma rigida e compatta, cominciavano a farsi
più rari ed indecisi, le pulsioni sensoriali le arrivavano più indistinte, più
confuse, più immediate. L’istinto era tutto ciò che le restava, l’unico mezzo
con il quale interpretare e sopravvivere nella realtà, la sua incredibile e
potente mente ormai incarcerata nello scheletro di un cervello. Ricorda di aver
chiuso gli occhi, e nient’altro. Una volta riapertili, tutto aveva perso di
senso, tutto il passato era scomparso, e solo il presente era rimasto. Non si
era mai resa pienamente conto della disperazione di Marius per averla persa
nonostante avesse ottenuto quel che voleva, non si era mai resa pienamente
conto dei due anni di prigionia nel suo castello in stato vegetativo, non si
era mai resa pienamente conto dell’intromissione di Monet nella sua psiche già
frammentata2. Aveva ricominciato a riacquistare
coscienza solo nel momento in cui il ragazzo dalla bocca di fuoco, che adesso
le immagini che ha intorno le suggeriscono chiamarsi Jono, si era spinto in fondo
dentro la sua psiche e aveva riportato a galla Yvette3.
Yvette... sé stessa.
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Così com’erano iniziate le immagini si dissolvono,
lasciandola davanti ad un bivio. Le strade sono due, adesso, la prima è
scomparsa. Seguendo questa volta un esile filo logico, la sua psiche si
protende verso la seconda, ed istantaneamente forme rigide e squadrate la
circondano. Avviene tutto in fretta. Sente un ringhio, un fruscio, e riesce
solo a proteggere il volto con le braccia prima che la creatura le sia addosso.
Rotolano per svariati metri sul terreno di secca sabbia grigia cercando di
colpirsi a vicenda. Qualche colpo va a segno, qualche altro no, ma ciò che in
quell’istante stupisce Yvette è che gli artigli dell’avversario non solo
strappano lembi di latex nero dalla tuta protettiva che indossa, ma anche che
aprono sottili ferite sulla pelle sottostante. E questo non è possibile, a meno
che non si trovi a combattere con qualcuno i cui fendenti siano affilati almeno
quanto i suoi. Facendo leva con gli avambracci sul terreno, Yvette punta le
ginocchia nel petto dell’avversario e rotolando su sé stessa si dà la spinta
per scaraventarla dietro di sé, lontano. Quindi con uno scatto si rialza
spalancando contemporaneamente gli artigli delle sue dita, in posizione di
attacco. I suoi occhi vuoti studiano la creatura che l’ha attaccata, ma basta
un attimo per riconoscerla. La pelle rossa, le cinghie nere della tuta, un paio
di occhi azzurri che ricambiano il suo sguardo con la stessa diffidente
curiosità. Yvette sta affrontando sé stessa. Yvette, sta affrontando Penance.
Con uno scatto ferino improvviso Penance scarta a destra per poi affondare una
mano artigliata al fianco di Yvette, che come rispondendo ad un ordine non
detto della sua stessa natura animale salta sulla sinistra evitando per pochi
millimetri una profonda ferita. Atterra pochi metri più in là, e con la coda
dell’occhio scruta Penance rialzare lo sguardo su di lei ringhiando
minacciosamente. Nella sua mente primitiva questa si è appena resa conto di
stare combattendo contro colei che meglio la conosce, e pur non capendo
esattamente cosa comporta sa che quella su di lei non sarà una vittoria facile.
Dal canto suo, Yvette vede per la prima volta cosa era, cosa è diventata, cosa
Marius l’ha resa, ed in un attimo lascia prendere il sopravvento ad una cieca
rabbia animale. Si lancia contro l’altra, e l’altra la imita. I due corpi si
incontrano a mezz’aria, dita feroci e muscoli affilati affondano spietati in
entrambi i corpi. Cadono, si rialzano, la lotta continua sul terreno. Per la
prima volta dopo molto tempo gocce di sangue scuro trovano libertà dalle
arterie del corpo corazzato di Penance, per la prima volta dopo molto tempo
riesce a sentire dolore fisico. Sembra paradossale, ma è un po’ un sollievo per
Yvette. Significa che può ancora provare qualcosa. Significa che è viva.
Scrutando negli occhi dell’altra sé stessa invece, non vede niente di tutto
questo. C’è solo cieca ira, rabbia animale, puro istinto. Ed era quello che le
serviva sapere. Scansando un fendente diretto alla giugulare, Yvette compie un
salto mortale all’indietro togliendosi dalla traiettoria dell’altra. Ora la
vede, sta digrignando i denti dai quali cola giù bava schiumosa, i muscoli del
volto contratti in un’espressione che ormai di umano non conservano niente. Ora
capisce in cosa si era trasformata, quale animale era diventata. E il solo
fatto di esserne consapevole le basta per rendersi conto di aver superato tutto
ciò. Di essere migliore. Di essere di nuovo umana.
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Penance attacca di nuovo, ma stavolta i suoi gesti sono
visti da Yvette come al rallentatore. Lei ha un’arma in più dalla sua parte.
Lei... ha l’intelligenza. Si conosce bene, e sa come schivare gli artigli della
creatura. Solo che stavolta non si limita a stare sulla difensiva. Le sue dita
afferrano il braccio di Penance, usando la sua stessa inerzia contro di lei. Il
corpo rovina pesantemente sul terreno, ma non fa in tempo a voltarsi che una
nube di polvere la colpisce negli occhi accecandola momentaneamente. E’ così
che non vede Yvette arrivare, ed è così che non può far niente per impedirle di
afferrarla per i capelli e sbatterla contro il grosso tronco di un albero
presente ai margini della piccola radura in cui si trovano. Gli occhi di Yvette
penetrano per un secondo lo sguardo di Penance. Dentro di esso, non un barlume
di umanità. La mano artigliata di Yvette si solleva, e due secondi dopo è
conficcata dieci centimetri dentro il collo di Penance. Il suo ringhio si
abbassa di tono, diventa gutturale, fino a svanire. La sua testa cade per
terra, e tutto finisce.
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Adesso, la strada è una sola. Scegliendo razionalmente
questa volta, decide di percorrerla. Come nella prima, delle immagini
cominciano ad apparirle tutt’intorno, ma sono sfumate ai bordi stavolta, più
confuse, indefinite. Un colore le vola sulla nuca e si trasforma nel suo
contrario, un si acuto muta in un do grave. Niente di tutto quello che sta
vedendo è mai accaduto, ma forse un giorno potrà. O dovrà. Facendo appello alla
razionalità che ha appena conquistato con le unghie, Yvette si avvicina di più
alle visioni. Non capta tutte le immagini, non comprende il senso di tutto
quello che stanno cercando di dirle, ma qualcosa le rimane. Stanno per
avvicinarsi tempi bui, tempi in cui tutti i dubbi irrisolti, tutte le questioni
in sospeso, tutti i destini dei giocatori coinvolti troveranno le risposte che
aspettavano da molto tempo, forse a caro prezzo. Tradimento, amore, coraggio, e
morte. E lei è il perno di tutto questo. Yvette si inoltra nella variante di
possibilità relativistiche assorbendo quanto più può, e sa che una scelta andrà
fatta di lì a qualche istante. Con una mano sfalda delicatamente le immagini
che ha davanti, ed esce a testa alta, camminando sulle proprie gambe come una
donna, e avviandosi verso il punto suggeritole dalle visioni. Intorno a lei,
ogni oggetto animato o inanimato che aveva affollato quel posto ora è fermo e
tace guardandola. Sul suo volto l’espressione grave di chi sa cosa accadrà e
non può fare niente per impedirlo. Nella sua mente, ancora fisso il viso di chi
tradirà i suoi compagni e darà inizio all’ultima storia. E quel che può fare
lei, è solo avanzare in quel territorio spoglio, fino a che...
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Un bagliore compare a qualche metro da lei, ed
immediatamente dopo da un varco azzurro compaiono due figure. La prima è alta,
la pelle rossa e tagliente come quella di Yvette e un grosso respiratore alla
bocca. La seconda, bassa, scheletrica e dal pallido colorito azzurro, ha un
ghigno costante sul viso i cui occhi sono in parte oscurati dalla visiera di un
cappello con su scritto D.O.A.
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Yvette li conosce entrambi, in altre occasioni sarebbe
subito scattata verso di loro e li avrebbe fatti a pezzi. Ma è diversa adesso,
ed ha uno scopo, per quanto ingiusto possa essere.
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L’uomo simile a lei si volta verso il nano e dice:
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“Avevi ragione D.O.A., era qui.”
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Quindi si volta verso di lei e le avvicina una mano, come
richiamandola. Yvette la scruta un attimo diffidente, poi si cala a quattro
zampe e con circospezione si avvicina. Annusa la mano timidamente, quindi vi poggia
sopra la testa accoccolandosi sulla gamba di Emplate, il quale la carezza sulla
fronte un paio di volte prima di voltarsi verso il nano e di fargli un cenno.
Questo annuisce e preme un pulsante sul grosso telecomando che ha tra le mani.
Un altro bagliore azzurro, e i tre scompaiono.
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Ed è così che tutto
comincia.
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