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Valerio Coppola

Valerio Coppola

Uomini Pipistrello: Batman sullo schermo

E così siamo arrivati al momento in cui anche Christian Bale appenderà il mantello al chiodo, dopo aver interpretato il Batman di sicuro più convincente che si sia visto sullo schermo nel corso di quasi settant’anni. Ma, c’è da scommetterci, l’attore britannico non sarà certo l’ultimo a prestare il proprio volto a Bruce Wayne. D’altra parte, come è stato anche per l’altra grande icona DC, Superman, la presenza dell’Uomo Pipistrello sul piccolo o grande schermo non è mai mancata per periodi troppo prolungati, e più o meno ogni generazione ha potuto vedere il “suo” Batman in live action.

Batman (1943)

Batmen_43_BatmanRobin

Il primo esperimento avvenne nel 1943, a soli quattro anni dalla nascita del supereroe sulle pagine a fumetti. Fu la Columbia Pictures a prendere in mano le sorti del personaggio e ad avviarlo per quella che sarebbe stata la sua lunga storia cinematografica. Dietro l’operazione, che andò sotto il semplice titolo di “Batman”, non figurano nomi di particolare rilievo nel panorama cinematografico: il criterio di selezione, infatti, pare essere stato una discreta professionalità per figure come il regista (Lambert Hyllier) e gli sceneggiatori, mentre per i ruoli da protagonisti si puntò su volti poco noti, che anche in seguito non avrebbero conosciuto particolare fama.
Per essere precisi non si può parlare di vero e proprio film, quanto piuttosto di serial, o meglio ancora di sceneggiato. La struttura del racconto è infatti frammentata in 15 segmenti, in ragione della particolare fruizione cui il prodotto era destinato: ogni capitolo, infatti, veniva proiettato settimanalmente nei cinema, coprendo tre buoni mesi di “programmazione”. I diversi capitoli sono impostati come piccole unità tra loro simili nella costruzione (con la reiterazione di determinati elementi) che puntualmente si concludono con un cliffhanger di rinvio alla puntata della settimana successiva. Tuttavia, una simile divisione non comporta una netta “individualità narrativa” per ogni singolo episodio (com’è oggi con le diverse puntate di un serial): in altre parole, lo sceneggiato è scritto come un’unica storia lineare, con una trama tutto sommato molto semplice, che viene poi scandita in 15 unità narrative corrispondenti ad altrettanti piccoli passi dall’inizio verso il finale della vicenda. Ma tagliando riassunti e cliffhanger di inizio e fine puntate, e rimontandole tutte insieme, si potrebbe avere tranquillamente un unico film (certo, vagamente ripetitivo e per una durata di più di 4 ore).
Dal punto di vista narrativo vengono introdotte importanti variazioni circa il personaggio principale: Bruce Wayne è infatti ritratto come un agente segreto del Governo, e dunque Batman diviene a una sorta di divisa per le missioni sul campo, segno di una ancora scarsa istituzionalizzazione del personaggio. Ma tutto sommato, simili variazioni finiscono per non scombinare più di tanto gli elementi tipici del fumetto, come ad esempio la dinamica tra Batman e Robin. I due protagonisti sono interpretati rispettivamente da Lewis Wilson e Douglas Croft. Il primo, volto perfetto per il ruolo di Bruce, perde repentinamente di credibilità nei panni di Batman, in buona parte per via di un costume non particolarmente riuscito (esilaranti le scene in cui è costretto visibilmente ad aggiustarsi la maschera per poterci vedere qualcosa). Croft risulta invece piuttosto adatto, anche se in maniera strana a dire il vero, per interpretare Robin. A completare il cast principale figurano poi la bella Shirley Patterson nella parte della donzella e due altri nomi di media grandezza: William Austin nel ruolo di Alfred (dobbiamo a lui l’attuale look calvo e con baffetto); e il caratterista J. Carrol Naish nei panni del cattivo, il giapponese Dottor Daka, la cui nazionalità è ovviamente da collegare anche al particolare frangente storico, in piena Seconda Guerra Mondiale.
Va detto che per lo spettatore d’oggi il pregio maggiore di questa versione di Batman risiede più che altro nell’atmosfera generale, e questo al di là della vaga venatura detective/spy story condita di scazzottate. Piuttosto, è proprio la patina storica assunta dallo sceneggiato a coinvolgere: oltre al consumato bianco e nero, che già proietta in una dimensione abbastanza cupa, il vero interesse è assistere a una proposizione “pura” del personaggio, come una sorta di ritorno alle origini. Questo Batman compie davvero una fatica fisica nel corso delle proprie avventure, non è ancora quel supereroe che si è venuto costruendo nel corso dei decenni. Anche nelle sue armi, nei suoi escamotage, nelle sue ambientazioni, c’è un’artigianalità e un ancoraggio a terra che rendono molto bene l’idea di come Batman dovesse essere percepito, nella sua straordinarietà, da un ragazzino americano negli anni ’40. Pur al netto dei difetti più evidenti, insomma, non si può non sottolineare il valore che questo sceneggiato assume nel farci vedere il personaggio nel suo “ambiente naturale”, ossia in azione nel pieno del tempo che lo generò, spoglio di ogni sofisticazione successiva. E nel lavoro svolto da Christopher Nolan negli ultimi anni, pare quasi di intravedere il recupero di alcuni di questi elementi primigeni.

Batman and Robin (1949)

Batmen_49_BatmanRobinA questa prima esperienza, fortunata dal punto di vista della ricezione del pubblico, seguì sei anni dopo un secondo sceneggiato, nello stesso formato a puntate del primo, intitolato “Batman and Robin”.
Se è vero che si comincia male (la sigla iniziale crea un impatto decisamente inferiore, con un girato un po’ ridicolo e musiche di minor effetto rispetto alla versione del ’43), bisogna riconoscere che la qualità generale dello sceneggiato del 1949 rimane leggermente superiore rispetto al precedente. Di certo, il prodotto rivela una maggior ambizione, a partire dalle ambientazioni e dalla differenza interna di situazioni (aeroplani, sottomarini, ecc.: probabile che il budget messo a disposizione fosse decisamente superiore rispetto a sei anni prima). A realizzare i 15 nuovi segmenti, sempre per conto della Columbia, vennero chiamate in questo caso due persone i cui lavori avevano già dato buoni ritorni per gli Studios: alla produzione Sam Katzman (allora già noto per diversi film western, horror e avventurosi), alla regia Spencer Gordon Bennet. Entrambi, in effetti, avevano già lavorato l’anno precedente alla prima versione live action di Superman, un altro fortunato sceneggiato a puntate interpretato da Kirk Alyn e Noel Neill (che avrebbe poi ripreso il delizioso ruolo di Lois Lane anche nello show televisivo al fianco di George Reeves).
Ma anche di fronte alla cinepresa cambiarono i volti e i nomi coinvolti nella seconda riproposizione di Batman. Wilson e Croft furono sostituiti rispettivamente da Robert Lowery (Bruce Wayne/Batman) e John Duncan (Dick Grayson/Robin), anch’essi non particolarmente conosciuti. In questo caso, va detto che la dinamica tra i due protagonisti non è riuscita come nella precedente versione, più che altro per una scelta nel casting di Robin non troppo azzeccata: eccessivamente nerboruto, Duncan non dà certo l’idea di essere un ragazzino, soprattutto a fianco di un Lowery che, pur disponendo di un buon fisico, deve nuovamente scontare un costume migliorato ma non ancora all’altezza di un Batman credibile (terribili le orecchie a cono, ereditate per altro dalla precedente versione). In ogni modo la loro interpretazione si imposta sulla classica linea dei “duri”, con una discreta resa da parte di Lowery nei panni di Bruce. Infine, mentre anche il volto di Alfred cambia, assunto da Eric Wilton, si affacciano alla scena due personaggi tratti dai fumetti: la giornalista Vicki Vale, con le fattezze di Poni Addams, e il commissario Gordon, ruolo affidato al noto Lyle Talbot (che avrebbe interpretato anche Lex Luthor nel secondo serial di Superman, l’anno successivo).
Come si diceva, rispetto al primo sceneggiato la produzione del ’49 gode di un netto miglioramento dal punto di vista della varietà interna, diversificando maggiormente le situazioni. Così, al carattere detective/spy se ne sovrappone un altro spiccatamente avventuroso, offrendo allo spettatore un’esperienza più dinamica, per certi versi anche più simile al fumetto. Se qualcosa della prima versione si perde, in effetti, è proprio la sua qualità più grossolana e verace, lasciando già intravedere maggiori elementi di sofisticazione e raffinatezza, ma allontanando i personaggi da quella dimensione “originaria” ben presente nel “Batman” del ’43.

Nota: “Batman” (1943) e “Batman and Robin” (1949) non sono disponibili per il mercato italiano né, a quanto ci risulta, in codifica per la regione 2. Dei cofanetti DVD sono invece disponibili in regione 1, ovviamente solo in lingua inglese.

Batman (1966-1968)

Batmen_66_BatmanRobinPassarono più di quindici anni prima che Batman tornasse sullo schermo, grande o piccolo che fosse. Ma nel 1966 fu proprio la televisione la nuova terra d’approdo del Cavaliere Oscuro. Che però si rivelò proprio per niente oscuro…
Prodotta da William Dozier e scritta da Lorenzo Semple Jr., la nuova avventura partì con il più classico degli esperimenti, vale a dire un film pilota della durata di quasi due ore. Rispetto alle precedenti versioni, non si può parlare neanche di novità, quanto piuttosto di vero e proprio capovolgimento, di stravolgimento dei vecchi canoni. Certo, va considerato che in primo luogo il contesto era del tutto differente, e sotto una molteplicità di profili: la televisione, con i suoi linguaggi specifici, era diventata il mezzo principe attraverso cui raggiungere il pubblico; il colore aveva già da tempo fatto irruzione negli schermi, apprestandosi a diventare la norma; gli anni ’50 avevano visto nei fumetti di supereroi – anche in quelli di Batman – uno sviluppo sempre più naif, orientato a un pubblico molto giovane e comunque adagiato su formule tutt’altro che dirompenti (almeno fino a Stan Lee). Questo a considerare solo i cambiamenti per così dire “interni”, e senza soffermarsi in questa sede a ragionare degli enormi mutamenti attraversati dalla società americana nel suo complesso. Ma anche pensando solo a quei fattori interni, è chiaro come essi influenzarono il nuovo prodotto. Rivolto con tutta evidenza a un pubblico giovanissimo, questo Batman, accompagnato ancora una volta da Robin, introduce a un mondo brillante, ordinatissimo, colorato di tinte vivaci, rassicurante finanche nella catalogazione delle armi dei cattivi. Il linguaggio stesso del film è particolarmente semplice e didascalico, ma la sua caratteristica saliente è un’altra: l’evidente volontà dei realizzatori di introdurre una vena comica nel nuovo Batman, attraverso la proposizione di scene assurde, di ragionamenti apertamente sconclusionati, di comportamenti troppo sciocchi, incoerenti e volubili per non essere il risultato di una scrittura intenzionale. Tutto ciò viene poi confezionato in un’estetica giocosa figlia degli anni ’60 e dalle ispirazioni pop art, in cui tutto appare come di levigata plastica coloratissima, racchiuso dentro inquadrature morbide e diagonali che tanto hanno dato alla immediata riconoscibilità di questa interpretazione dell’Uomo Pipistrello. Era nato il cosiddetto Batman “camp”, destinato negli anni a diventare anche “cult”.
Buona parte del successo dell’operazione, che subito si risolse in una prima stagione cui ne sarebbero seguite altre due, va ricondotto anche al cast. Anche in questo caso, per il ruolo dei due protagonisti, si optò per nomi pressoché sconosciuti. Bruce/Batman assume così il volto pulito e compassato di Adam West, maestro nel raffigurare un personaggio del tutto sicuro di sé, compiaciuto della propria (molto supposta!) impareggiabile intelligenza, arguzia e perspicacia, che agli occhi dello spettatore portano irrimediabilmente un vivo senso del ridicolo; è lo stesso fisico dell’attore, asciutto ma non certo prestante, ad acuire il senso di ingenua inadeguatezza di questo supereroe, il cui vigore mascolino, pur affermato, rimane un’idea del tutto surreale. Un simile Batman sarebbe forse troppo anche per uno show immaginato in questi termini, se a fargli da contrappunto non fosse il suo Robin. Burt Ward porta in scena il contrasto perfetto rispetto a West: atletico e guizzante, il Ragazzo Meraviglia svolge rispetto all’Uomo Pipistrello non solo il ruolo di spalla, ma anche quello di chiave di lettura, introducendo note sarcastiche e ironiche che il serioso Batman non potrebbe esprimere, sottolineando che tutto è in realtà solo un grande scherzo. Di pari stupidità rispetto a Batman sono poi altre due figure tipiche del telefilm: il pomposo e inutile commissario Gordon interpretato da Neil Hamilton e il buffo capitano O’Hara portato in vita da Stefford Repp. Alfred, la figura relativamente più seria dell’intero show, è invece impersonato da Alan Napier, mentre viene introdotto anche l’improbabile personaggio di contorno di zia Harriet (Madge Blake, che a dirla tutta non si capisce neanche di chi sia esattamente zia). In seguito verrà introdotta anche Barbara Gordon/Batgirl, portata sullo schermo da Yvonne Craig.
Batmen_66_villainsParte forte dell’intero cast sono tuttavia, neanche a dirlo, i cattivi. In questo caso si torna a grandi nomi, sia per quanto riguarda i personaggi (per la prima volta quasi tutti i pesi massimi del fumetto), sia rispetto ai loro interpreti, tutti caratteristi di discreta fama: così Cesar Romero è Joker (occasionalmente ribattezzato “Jolly” in Italia), Burgess Meredith il Pinguino, Frank Gorshin l’Enigmista, mentre una sensualissima Julie Newmar presta volto e corpo a Catwoman (ruolo ricoperto da Lee Meriwether nel pilota e dalla cantante Ertha Kitt nella terza stagione). Fanno alcune puntate nello show anche altri villain importanti come Mister Freeze e il Cappellaio Matto, ma vengono introdotti pure nuovi personaggi creati ad hoc, tra i quali i più importanti sono Re Tut (Victor Buono) e Testa d’Uovo (interpretato niente meno che da Vincent Price). A ben guardare, comunque, nessuno di questi personaggi riceve mai una caratterizzazione particolarmente articolata (salvo in minima parte Catwoman): tutti, bene o male, seguono lo stesso modus operandi, contraddistinto da piani assurdi eseguiti da scagnozzi vestiti a tema, trappole mortali per i due eroi (utilizzate come snodi tra coppie di puntate, con relativo cliffhanger) e follia allo stato puro – appena una spanna al di sopra degli altrettanto sconclusionati Batman e Robin. Nel complesso, a differenziare tra loro tutti i vari cattivi rimane di fatto solo un set di tic, vezzi, ossessioni estetiche e tematiche, ben portati in scena dall’abilità attoriale dei rispettivi interpreti.
Altro elemento estremamente importante della serie è il ricorrente uso di cliché che nel tempo divennero riti, e successivamente vere e proprie icone oggetto di innumerevoli citazioni. Oltre agli improbabili ragionamenti logico-deduttivi dei protagonisti, cui è demandata per intero tutta la componente detective delle storie, è impossibile non ricordare le grandi scazzottate finali che facevano da climax a ogni puntata, con la sovrapposizione grafica di onomatopee e “flash” tipici del linguaggio fumettistico. Ma la stessa funzione svolgono anche le ormai proverbiali e strampalate esclamazioni di Robin («Santo-qualunquecosa, Batman!», «Uòu!»), così come l’indimenticabile sigla realizzata da Neal Hefti. E ancora, ulteriori elementi di riconoscibilità e fidelizzazione furono le ambientazioni e i gadget di Batman, prime tra tutte la storica Batmobile e la Batcaverna con accesso via pertica, ma anche tutte le “bat-armi” più strambe, casualmente perfette per la difficoltà di turno in cui veniva a trovarsi il Crociato Mascherato (come non citare lo spray repellente per pescecani?).
A posteriori, riguardando alla serie nel suo complesso, è possibile anche rintracciare una sorta di filosofia di fondo, o quanto meno una visione della società certamente frutto degli anni ’50 e di certe resistenze dei ’60, veicolati alla perfezione dalla figura di “tutore dell’ordine” rappresentata da Batman stesso. Particolarmente interessante, in tal senso, è la visione quasi meccanica del bene e del male portata dal protagonista, pronto a bollare senza la minima incertezza ogni devianza nei termini di una disfunzione rispetto al normale svolgimento della vita sociale, come qualcosa da riportare entro i confini certi e rassicuranti del bene comune e della legge statuita. Un Batman ben diverso da quello di oggi (ma anche da quello delle origini), prontissimo a contrapporre alla legge i propri particolari codici etico-morali e comunque autonomo nell’osservare la realtà sociale di fronte a sé, anzi pronto a modificarla brutalmente. Nella visione del “Batman/Adam West”, invece, la società è una macchina perfetta e ordinata come nell’astrazione di un sistema legale o di un organismo, un meccanismo intrinsecamente buono, la migliore delle situazioni immaginabili e perciò non sottoponibile a critica: Batman diventa così quasi una funzione del sistema, e precisamente la funzione volta a riportare tutto nelle rigide categorie dell’ordine sociale stabilito dalla legge.
Come già detto, il serial si sviluppa in tre stagioni, rispettivamente composte da 34, 60 e 26 puntate, quasi tutte accoppiate due a due in un unico episodio. Se le prime due stagioni ebbero un indubbio successo, la terza mostrò la corda già in fase di programmazione, con scenografie sempre più spoglie e astratte (spesso semplici fondali colorati) e una ripetitività eccessiva. Ad ogni modo, nei suoi tre anni di programmazione, arrivando a colonizzare anche le storie a fumetti, questa versione del personaggio esercitò un’influenza potentissima sull’immaginario collettivo e sulla cultura popolare, ancora oggi ben presente, generando grande affetto e nostalgia nella massa dei fan (tanto che, in anni recenti, ne è stata realizzata anche una parodia pornografica). Tuttavia, nonostante questo fortissimo radicamento, va detto anche che nel medio/lungo periodo il serial si rivelò un boomerang per l’immagine di Batman, che soffrì una crisi di credibilità abbastanza pronunciata. Nei fumetti, a rimettere a posto le cose avrebbe pensato prima un autore come Neal Adams negli anni ’70, e successivamente l’opera di rinnovamento di Frank Miller negli anni ’80. Per rivedere il personaggio sullo schermo, invece, si sarebbero dovuti attendere più di vent’anni, nonostante il sopravvenuto successo cinematografico del “Superman” (1978) di Richard Donner e Christopher Reeve.

Nota: per via di una complicata situazione circa la proprietà dei diritti (detenuti da 20th Century Fox, ma con una sorta di diritto di veto da parte di Warner Bros., titolare del personaggio) non sono disponibili edizioni home video della serie, che continua comunque a venire replicata su varie emittenti televisive. Tuttavia è in commercio, anche in Italia, la versione in DVD e Blu-ray del film pilota del 1966, intitolato “Batman – Il film”.

Batman (1989)

Batmen_89_BatmanFu davvero difficile riportare Batman in una produzione live action dopo la conclusione del serial anni ’60, e la stessa eredità di quest’ultimo rappresentò un fattore importante nel timore mostrato dalle case di produzione nell’accostarsi al personaggio. Spia di queste difficoltà, furono gli innumerevoli problemi incontrati da Michael Uslan che, dopo aver acquisito i diritti di trasposizione dell’Uomo Pipistrello, dovette sbattere la testa sui muri per quasi un decennio, prima di riuscire a realizzare il suo progetto di un Batman veramente oscuro sugli schermi cinematografici. Finalmente, nella seconda metà degli anni ’80, le cose parvero migliorare, complice anche il successo di nuove opere a fumetti incentrate sul Cavaliere Oscuro, quali i lavori di Frank Miller e il seminale The Killing Joke di Alan Moore. A sbloccare definitivamente la pratica, poi, giunse il coinvolgimento dell’allora giovane regista Tim Burton, già autore di due pellicole piuttosto gradite da pubblico e critica, e portatore di una visione del tutto particolare.
Così, con una sceneggiatura di Sam Hamm, nel 1989 Batman arrivò davvero per la prima volta nelle sale cinematografiche, a cinquant’anni tondi dalla sua nascita. E finalmente il pubblico ebbe il Batman che non aveva mai potuto vedere: gotico all’eccesso, oscuro, tormentato, malinconico. Un film pieno di ombre, ambientato quasi interamente di notte, con il sole esiliato anche nelle scene diurne, una tavolozza di colori limitatissima che esplode solo con l’entrata in scena del terribile Joker. Sotto questo profilo il film comunica in maniera abbastanza esplicita la sua impostazione metafisica, umorale, tutt’altro che realistica. Andava insomma in scena il mondo di Batman, filtrato dalle sue cupe emozioni, ed è da questo filtro che nasce la sporca e vertiginosa Gotham City. L’estetica e il linguaggio del film vengono fortemente informati della particolare poetica di Burton, sempre oscillante tra la fiaba dark e il noir, lirico per inclinazione senza mai scadere in pose troppo seriose.
Fu proprio questo modo di intendere il film che spinse alla scelta del protagonista, quanto mai improbabile. Per la prima volta, a interpretare Bruce Wayne/Batman venne chiamato un attore già noto, anche se si trattò dell’ultimo che ci si sarebbe aspettati, fino ad allora protagonista quasi esclusivamente di commedie: Michael Keaton. In maniera del tutto sorprendente, senza avere i requisiti fisici né per estetica né per prestanza, Keaton riuscì a mettere in scena un personaggio del tutto credibile. Posti da parte i toni della commedia, l’attore realizzò un’interpretazione sottilissima, in cui una quasi impercettibile ironia di fondo mescolata a una solitaria malinconia rendevano accettabile e convincente tutta la bizzarria di quell’uomo e del suo comportamento. Improvvisamente, Bruce Wayne ebbe ciò che non aveva mai avuto, almeno sullo schermo: un’anima. Anche una volta calatosi nel costume del Pipistrello, Keaton resse ottimamente la scena: muto, taciturno, efficiente, accorto. Batman si ergeva finalmente per il mostro che era, inquadrato tra le ombre di Burton in una potenza fisica del tutto nuova (grazie anche a un costume che finalmente sostituiva la calzamaglia con una vera e propria corazza).
Ma se Keaton si rivelava inaspettatamente il Batman perfetto, il resto del cast non era da meno. A differenza che in passato, ma in maniera simile a quanto avvenuto con il “Superman” di Donner, venne riunita una schiera di nomi di prima grandezza: Kim Basinger per il ruolo di Vicki Vale, Jack Palance in quello del boss del crimine Carl Grissom, e poi soprattutto lui, Jack Nicholson, il Joker. L’interpretazione di Nicholson segnò davvero una nuova asticella a cui si sarebbe dovuto fare riferimento per tutti i successivi film di genere. Il suo Joker è istrionico, irrefrenabile, sadico, eppure non si può non amarlo (a differenza dell’angoscia lasciata dalla grandiosa ed estrema interpretazione di Heath Ledger quasi vent’anni dopo). E anche in questo caso, finalmente il pubblico poté vedere il Joker come non si era mai visto, nella sua dimensione autentica: non più un folle tra tanti vestito da pagliaccio, ma un concentrato di malignità capace e anzi desideroso di ridere di qualunque cosa, e proprio per questo inarrestabile, incontenibile.
I due antagonisti vennero poi legati tra loro attraverso un rapporto di vendetta reciproca, individuando nel loro conflitto una dimensione personale coerente con l’inquadratura intimista che Burton diede al suo film. Siamo ancora, va detto, in una distinzione netta e riconoscibile tra bene e male, a differenza di quanto farà Christopher Nolan nella sua opprimente trilogia. Eppure Batman non è più il manichino ossequioso dell’ordine costituito che era stato negli anni ’60: è invece un uomo solo, che combatte una guerra tutta sua, in fin dei conti più per realizzare e ritrovare se stesso che non per proteggere la società (in accordo anche con la visione fumettistica degli ultimi decenni).
Il film, grandioso sotto tutti i punti di vista, dalle scenografie alla creazione delle situazioni, dalle musiche superlative di Danny Elfman al crescendo continuo verso il trionfo finale, ebbe un successo strepitoso, anticipando di un decennio e rendendo possibile il grande ritorno dei supereroi al cinema. E ovviamente, in prima battuta, produsse un immediato sequel.

Batman – Il ritorno (1992)

Batmen_92_CatwomanDopo l’altrettanta fortunata parentesi di “Edward mani di forbice”, Tim Burton non perse tempo e tornò a bordo della corazzata batmaniana. Riunendo buona parte della squadra del primo film, tra cui lo sceneggiatore Sam Hamm e il compositore Danny Elfman, il regista ne recuperò toni e linguaggi, spingendo però l’acceleratore sulla componente più favolistica e grottesca della vicenda (aiutato in questo dal nuovo scenografo Bo Welch in sostituzione dello scomparso Anton Furst, premio Oscar proprio per il primo “Batman”).
In questo capitolo la caratterizzazione di Bruce/Batman non riceve un ulteriore approfondimento, e anzi tutta la sua dimensione intima viene trattata come relazione/reazione allo sviluppo dei due antagonisti principali, il Pinguino e Catwoman. Esaurita l’indagine “interna” del personaggio con il primo film, pare che Burton ne abbia voluto evidenziare alcuni aspetti laterali che potevano venire in risalto attraverso il rapporto con altre personalità forti. Così, in questo caso, la pellicola si concentra molto di più sullo sviluppo di questi due personaggi che non su quello di Batman, che si limita a reagirgli. Per questo stesso motivo la netta contrapposizione bene/male del capitolo precedente viene leggermente sfumata: ma non a caso questa sfumatura non avviene dal lato del bene, che rimane chiaramente riconoscibile nella figura di Batman, quanto piuttosto dal lato del male, con il Pinguino e Catwoman tratteggiati come persone tragiche e malinconiche, indagate con comprensione nella loro intimità e nelle loro motivazioni. Proprio di fronte alle debolezze dei suoi antagonisti anche nella caratterizzazione di Batman sorge la novità, che è poi dubbio e compassione. Tuttavia, Burton anche qui non rinuncia a inserire un polo più riconoscibile come il male senza scusanti, rappresentato dal personaggio di Max Shreck.
In questa batteria sempre più estesa di personaggi tornano dal primo film solo i comprimari Alfred (Michael Gough) e Gordon (Pat Hingle), che saranno anche gli unici a rimanere costanti pure nelle due pellicole successive. Per gli altri personaggi, come già in precedenza, furono invece selezionati attori blasonati: il malefico Shreck assunse il volto stralunato di Christopher Walken, perfetto nel tratteggiare la figura del male più puro e odioso; Danny DeVito assunse invece l’identità del Pinguino, personaggio cui venne apportato il rimaneggiamento più pesante rispetto all’originale, fino alla creazione di un background ex novo; infine Catwoman, anche lei piuttosto “fiabizzata”, si giovò dell’interpretazione di una divina Michelle Pfeiffer, capace di inquadrare tutto il fascino, il disturbo e l’ambiguità di un personaggio costantemente in bilico. Rispetto a tanti personaggi forti e sviluppati, l’interpretazione di Keaton tese qui ad appiattirsi leggermente, anche se l’attore mostrò ancora una volta di riuscire a tenere una scena tutt’altro che facile.
Nel suo complesso, il film ricevette un’accoglienza ambivalente da parte del pubblico, e molti dubbi furono sollevati sulla buona riuscita dell’operazione. Anche per questo, Tim Burton non fu coinvolto nella realizzazione della pellicola successiva. In ogni caso il regista aveva svolto il compito fondamentale di resuscitare l’Uomo Pipistrello sul grande schermo, in pratica definitivamente, apportando per di più una forte carica autoriale. A quello stesso immaginario, per altro, si sarebbe poi rifatto quel piccolo gioiello che fu la serie animata di Batman firmata da Paul Dini e Bruce Timm. Ma Hollywood, intanto, non aveva certo intenzione di lasciarsi scappare quella che rimaneva una gallina dalle uova d’oro.

Batman Forever (1995)

Batmen_95_BatmanA riprendere in mano le sorti del Batman cinematografico venne chiamato Joel Schumacher. Il regista portò subito un netto cambio di rotta rispetto al filone avviato da Tim Burton, producendo un film tanto diverso, sia nei linguaggi che nelle premesse, da apparire quasi come un reboot, pur non essendolo dichiaratamente. Addirittura, con la scusa di un approfondimento psicologico del protagonista, vennero narrate nuovamente anche le sue origini (ancora in flashback, come già avvenuto nel “Batman” dell’89). Ma in generale, l’orizzonte del franchise mutava nel suo complesso, a partire dalla rappresentazione di Gotham City, che passa dalla visione cupa e gotica di Burton a un agglomerato urbano molto più pop, colossale, patinato, a tratti cyberpunk, riempiendosi di neon e colori acidi. La narrazione stessa del film volge in questo senso, facendosi più cinetica, calcando molto sull’aspetto della spettacolarità nelle scene d’azione e sostituendo il mood tutto sommato morbido e rilassato di Burton con una scansione molto più frenetica e veloce, nelle inquadrature così come nei dialoghi. Si eliminarono insomma gli elementi più ruvidi e poetici per rimpiazzarli con altri più “stilosi” e adrenalinici.
Le cose cambiano radicalmente anche sul piano dei personaggi. A parte i già citati Michael Gough (Alfred) e Pat Hingle (Gordon), che rimangono sempre e comunque figure del tutto secondarie, il cast si presenta con rilevantissime novità, ancora una volta con nomi di prima grandezza. In primo luogo, Michael Keaton non accettò di tornare nei panni del Pipistrello, in quanto non condivideva la nuova direzione impressa dalla produzione e dal regista; per rimpiazzarlo fu così scelto un Val Kilmer nel pieno del suo successo. Kilmer, favorito da un aspetto e una fisicità adatte, portò sullo schermo un discreto Bruce Wayne/Batman, caratterizzandolo con un’interpretazione misurata, in aperto contrasto pressoché con tutto il resto del cast. L’altra novità più importante fu l’introduzione di Robin, su cui si era già ragionato in occasione di “Batman – Il ritorno”, per poi lasciar perdere. Il personaggio presentato fu Dick Grayson, ma a differenza che in passato non si fece di lui un ragazzino, bensì un ragazzo al termine dell’adolescenza: in pratica, si scriveva “Robin” ma si leggeva “Nightwing”. Per portarlo in vita la scelta cadde su Chris O’Donnell, attore nei suoi vent’anni già abbastanza conosciuto. O’Donnell fa un ritratto abbastanza efficace di Robin, della sua rabbia e sete di vendetta (uno dei fili conduttori del film), anche se il ruolo non si segnala per particolari approfondimenti e sfaccettature. Il rapporto con Batman viene qui inteso più come quello di compagni d’avventura, che non come quello tra un mentore e un discepolo.
Ancora una volta, poi, si assisteva a un avvicendamento nella casella femminile, qui occupata da una Nicole Kidman in piena fase di lancio, per la quale venne creata la parte della psichiatra Chase Meridian: un personaggio insipido, scritto male e stupidamente provocante, seguendo maldestramente i canoni della femme fatale, cui anche la migliore delle recitazioni non avrebbe potuto porre gran rimedio. Sul fronte dei villain, com’era ormai tradizione, furono a loro volta chiamati interpreti di peso: Tommy Lee Jones per Due Facce e Jim Carrey per l’Enigmista. In entrambi i casi, i due produssero una performance giocosa e sopra le righe, mettendo in scena con una certa “grandeur” le relative ossessioni; tuttavia risulta evidente come già in fase di scrittura i due personaggi non siano per niente approfonditi nelle loro particolarità. Per certi versi, sembra anzi di tornare ai cattivi per definizione fortemente caratterizzati ma per niente approfonditi tipici del telefilm anni ’60: in effetti, sono semplicemente dei personaggi fuori di testa con particolari fissazioni estetiche e tematiche, che però si riflettono sul loro agire e pensare in maniera del tutto superficiale (il confronto tra questo Due Facce e quello successivamente impersonato da Aaron Eckhart è impietoso verso il primo). Questi villain, insomma, sono forse la vera delusione del film, per l’evidente occasione mancata nello sfruttare appieno le loro potenzialità.
La pellicola, ad ogni modo, ha anche i suoi pregi. La sceneggiatura di Akiva Goldsman presenta infatti alcuni sviluppi tematici che rendono la visione discretamente coinvolgente nel suo complesso. In primo luogo, la vicenda di Robin, preso qui dalle sue “origini” e seguito nel percorso di vendetta/giustizia al fianco di Batman. C’è poi per lo stesso Batman un tentativo di sviluppo psicologico, sia intimo, sia nel confronto con la dottoressa Meridian e nella rivalità con l’Enigmista; il punto della questione è la piena accettazione di Batman da parte di Bruce, come sottolineato da una bella scena onirica poi tagliata nel montaggio finale (ma riproposta nell’edizione in Blu-ray del film). Certo, va detto che in realtà questo intento di articolazione tematica è realizzato in maniera abbastanza sbrigativa e non di rado pretestuosa, scelta che pare imputabile più che altro alla regia di Schumacher, preoccupata soprattutto di arrivare agli spettacolari momenti di scontro (anche questo, in modo non dissimile da quanto avveniva negli scontri “onomatopeici” del Batman camp). Ma tutto sommato, il film risulta comunque percorso da uno svolgimento che fornisce allo spettatore un ulteriore livello di riflessione, per quanto semplificata.

Batman e Robin (1997)

Batmen_97_BatmanRobinBatgirl“Batman e Robin” si segnala senza dubbio come il punto più basso dell’intera produzione batmaniana su grande o piccolo schermo: un film sbagliato dalla A alla Z. Ancora una volta con Joel Schumacher alla regia, la pellicola sembra recuperare e replicare amplificati tutti i difetti di “Batman Forever”, tralasciando invece i suoi (già minoritari) meriti.
Tutto sembra una versione esagerata e sopra le righe del film di due anni prima: da una Gotham sempre più fasulla e plastificata ai cattivi rappresentati in una dimensione del tutto macchiettistica, se non proprio ridicola, con psicologie traballanti e banalizzate all’estremo. Altra dinamica del film precedente che viene qui reiterata è l’aggiunta di un nuovo personaggio al cast, in questo caso Batgirl, cui viene posto a contrappeso un terzo cattivo. La narrazione stessa del film subisce un enorme scivolamento con risultati francamente imbarazzanti: se “Batman Forever” può far pensare vagamente al serial del ’66, “Batman e Robin” ne sembra invece una completa e maldestra riproposizione aggiornata; con l’aggravante però che, a differenza dell’originale, il gusto per l’assurdo e la ricerca del ridicolo non sono frutto di un’intenzionale scelta stilistica, bensì si dimostrano effetti perversi di scelte registiche e recitative di altro tipo. Il problema riguarda ogni componente del film, dalla sceneggiatura (ancora di Akiva Goldsman) alla terribile caratterizzazione dei personaggi, dalla “vita sociale” dei protagonisti a certi gadget del tutto improponibili (la “bat-carta di credito”!). Come se non bastasse, la volontà di spingere all’eccesso gli elementi più accattivanti del film portarono a scelte quanto meno discutibili, come un’esaltazione del tutto fuori luogo della carica erotica dei costumi (famosi i capezzoli in rilievo, ma anche il semplice risalto dato a natiche, seni e cosce). Il risultato finale è un Batman completamente fuori dal suo tempo e niente affatto credibile.
A peggiorare la situazione interviene anche la performance degli attori. Mentre Chris O’Donnell scompare del tutto dietro la deriva ridicola del film, Val Kilmer non torna affatto e viene sostituito con George Clooney. Mai scelta fu meno azzeccata. Come lui stesso ammise in seguito, la sua caratterizzazione dell’Uomo Pipistrello e dell’alter ego è completamente sbagliata: oltre ad annullarsi qualsiasi differenza tra le due personalità, la dimensione unica diviene quella di un uomo solare e allegro, per nulla tormentato, perfettamente in pace con se stesso. Il risultato è che per un adulto così a suo agio con la sua vita, la scelta di vestirsi da carnevale solleva quantomeno qualche interrogativo. Idem dicasi per i due nuovi cattivi principali, interpretati da Arnold Schwarzenegger (Mr. Freeze) e Uma Thurman (Poison Ivy), con performance che non di rado toccano l’imbarazzante. Meglio tacere, per pietà, del terzo cattivo: un Bane fatto completamente a pezzi in fase di scrittura, ridotto a semplice energumeno senza cervello. Il ruolo di Batgirl (Alicia Silverstone) si rivela del tutto gratuito, e subisce a sua volta importanti quanto sciocchi cambiamenti rispetto all’originale fumettistico (addirittura, non si tratta più di Barbara Gordon).
Come già nel precedente capitolo della saga, anche qui sembra che si siano voluti inserire in sceneggiatura alcuni elementi che facciano da fulcro tematico ed emozionale del film: in particolare, le malattie speculari di Alfred (Michael Gough è l’unica presenza decente nell’intero film) e della moglie di Mr. Freeze. Tuttavia, anche questi aspetti sono stati introdotti con tale superficialità, e annacquati in un simile mare di cretineria, che finiscono per scomparire nell’economia complessiva della pellicola senza lasciar niente allo spettatore.
In buona sostanza, “Batman e Robin” riesce nell’impresa di replicare anche qualcos’altro tipico del Batman camp anni ’60: un’eredità pericolosa da trattare. Dilapidato il lavoro di riedificazione del mito operato da Tim Burton, questo film ha come unico effetto quello di abbattere nuovamente l’immagine del Cavaliere Oscuro.

Poi…

Per fortuna, come ha notato in maniera interessante Neil Gaiman con il suo Whatever Happened to the Caped Crusader?, il mito di Batman è per sua natura continuamente reinterpretabile. Di lì a pochi anni, infatti, la Warner Bros. propose un’ulteriore versione del Cavaliere Oscuro, ripartendo da zero su basi concettuali e artistiche del tutto rinnovate: e siamo dunque al Batman di Christopher Nolan. Rimandando all’articolo dedicato per approfondire questa versione (che è comunque, a giudizio di chi scrive, di gran lunga la migliore), ci limitiamo qui ad abbozzare un minimo raffronto tra le diverse visioni cinematografiche che si sono avute del franchise. Quella di Tim Burton, che con sensibilità e linguaggio poetici volle guardare alla dimensione più intima e fiabesca del personaggio. Quella di Joel Schumacher, interessata più che altro alle possibilità ludiche e adrenaliniche offerte da Batman, producendo non a caso un giocattolone ultra-pop, poco o per niente caratterizzato sotto il profilo tematico. Quella di Nolan, che pur approfondendo a sua volta l’intimità e la psicologia del personaggio, lo faceva comunque con uno spiccato interesse per tutto il portato sociale e politico (in senso lato) insediato tra le pieghe del suo mantello.
Ora che anche questa trilogia giunge al termine, in accordo con Gaiman possiamo solo chiederci chi sarà il prossimo.

Rebetiko

Da poche settimane è uscito “Rebetiko gymnastas”, ultimo lavoro di Vinicio Capossela. L’album rappresenta, apparentemente, una deviazione vistosa dal percorso artistico che il cantautore aveva tracciato con i suoi ultimi dischi: la scaletta comprende infatti la riproposizione di alcuni brani della sua prima produzione (fino a “Canzoni a manovella”), affiancati da tre cover e un inedito originale. Ad accomunare tutte queste reinterpretazioni è proprio la chiave musicale con cui l’artista è tornato ad “aprirle”, vale a dire il rebetiko che figura nel titolo. Si tratta di un particolare tipo di musica popolare, sgorgata dall’incontro dei migranti turchi ortodossi con le periferie greche, tra fine ‘800 e inizio ‘900. Più che esprimere un parere sul disco in sé, è interessante capire perché Capossela abbia impresso una svolta così improvvisa al flusso della sua discografia. Inaspettatamente, una possibilità di comprensione del senso complessivo di questo lavoro ci è data dalla sua parte più evidente: la copertina, costituita da un’illustrazione di David Prudhomme. Il nesso è rappresentato da uno degli ultimi lavori del fumettista francese, intitolato appunto Rebetiko e incentrato proprio sul genere musicale frequentato anche dal cantautore. Così, in maniera curiosa quanto appropriata, si ha l’occasione di interpretare il lavoro di Capossela giocando su quell’universo simbolico interconnesso che lo stesso artista abita da sempre nella sua opera (basti come esempio il piccolo capolavoro dello scorso anno, “Marinai, profeti e balene”).

Il libro di Prudhomme risale al 2009 ed è stato pubblicato un paio d’anni fa, in Italia, da Coconino. Non è certo il primo caso di romanzo grafico che ha per tema la musica, o un particolare genere, ma in un mezzo espressivo insonoro come il fumetto un’operazione simile non è mai semplice. Soprattutto, non è semplice se, come fa Prudhomme, la narrazione è impostata con approccio cinematografico, fatto di vignette tanto regolari da apparire fotogrammi di una pellicola, senza distorsioni della gabbia; anche all’interno delle singole vignette non si devia mai dal tono realistico, non ci sono neanche digressioni narrative, flashback o altri escamotage che possano allontanare da una sensazione di “presa diretta”; l’estetica stessa (estremamente piacevole) è improntata al realismo, con poca o nulla stilizzazione e un uso dei colori che non cerca alcun espressionismo, puntando anzi sulla naturalezza, con cromaticità fortemente mediterranee nella raffigurazione di scene e ambienti. Nessun “trucco” tipicamente fumettistico, insomma, viene utilizzato per comunicare la sensazione sonora del rebetiko, a parte forse alcune scene di ballo. Ma d’altra parte, oggi, non mancano di certo fonti e risorse tecnologiche per farsi un’idea acustica del genere. E infatti il libro svolge un’operazione altra da questa, puntando lo sguardo alla vera e propria anima del rebetiko, al suo ruolo culturale e alla sua filosofia.

Non a caso, i fatti narrati si svolgono nella Grecia del 1936, all’alba della dittatura di Ioannis Metaxas, che del rebetiko e delle comunità rebetes fece un simbolo di nemico interno, provando a reprimerne la cultura. È in questo contesto che si assiste alla giornata di un gruppo di amici rebetes (solo ispirati a figure storiche realmente vissute): da una vita “stravaccata” sotto il sole ateniese, a un’altra furiosa e senza riposo durante la notte, tra musica e malefatte avvolte dai fumi dell’hashish. Viene così raffigurato il rebetiko come la linfa della vita di questi uomini, un bisogno di buttar fuori il veleno anche attraverso la pura improvvisazione. Lo strumento musicale diventa per loro un’estensione organica, l’unico mezzo per rispondere alla vita e in qualche modo darle forma propria, attraverso il suono e la rimodulazione simbolica della parola. Non a caso, il rebetiko è spesso posto in analogia, certo non sonora, con generi come il tango o il blues. È, come si diceva, musica di un’anima e di una cultura (meticcia). E per questo non può essere ingabbiata, registrata, chiusa in categorie prevedibili e pronte ad essere riconosciute da un sistema, ad esempio come oggetto di consumo; deve invece vivere della propria autonomia e natura, traendo linfa dalla realtà quotidiana magari non bella, ma comunque sempre vera e in mutamento: deve, in altre parole, essere autentica e selvatica, come il canto di uccelli liberi da qualunque voliera.

Se questo è il rebetiko, allora, diventa possibile immaginare una motivazione, forse anche inconscia, alla base dell’esercizio atletico-musicale (“gymnastés”) di Capossela. E questa motivazione non pare disgiunta dal momento storico dell’Europa in crisi, che vede fatalmente nella Grecia – sua culla ma anche punto d’incontro con l’altro e l’oriente – uno degli snodi più significativi. In questo senso, il discorso non riguarderebbe le coordinate economiche della crisi, che hanno certo radici precise e concrete; riguarda, invece, un problema identitario più generale, che sulla crisi ha ricadute persino maggiori, poiché condiziona direttamente il modo di gestirla, anche nel suo senso di opportunità e cambiamento (di cui si parla sempre, ma che non si pratica mai). L’uso del rebetiko diventa allora, nel contesto odierno, la riaffermazione di un essere altro, di un modo diverso di concepire se stessi come comunità/società, e dunque di introdurre una prospettiva non di ritorno al passato, ma di novità sulle fondamenta della memoria. Memoria che parla di una cultura della vita.

Cuba: la mia rivoluzione

Nei primi giorni del 1959 i “barbudos” che da tre anni avevano condotto una capillare guerriglia sulle sierras cubane, entrarono a L’Avana, mentre il dittatore sostenuto dagli Stati Uniti, Fulgencio Batista, prendeva il volo per fuggire dall’isola. Alla testa dei rivoluzionari stava Fidel Castro, capo indiscusso e ispiratore del movimento, che da subito prese in mano le redini del nuovo governo rivoluzionario. Seguendo i principî del socialismo e dell’egualitarismo, la nuova Cuba impose la totale nazionalizzazione dei latifondi e della grande industria che per decenni avevano dominato l’isola, avviando al contempo un’immane opera di alfabetizzazione delle masse contadine e la loro “formazione” alla rivoluzione. Nei primi anni, Castro perseguì con tenacia un disegno di modernizzazione socialista della società cubana, adottando una retorica propagandistica e tecniche cameratesche per irreggimentare la cittadinanza, e avviando così quella che sarebbe stata la dittatura più duratura dell’America Latina. Da subito osteggiata dal potente vicino statunitense, Cuba dovette soffrire importanti privazioni materiali, ricadendo così nella sfera d’influenza sovietica e volgendo verso una deriva di tipo leninista (rispetto a cui importanti figure come Ernesto “Che” Guevara non tardarono a distanziarsi).
Di quei giorni, mesi e anni, si è soliti dividersi in rappresentazioni fortemente romanzate e idealizzate, oppure in critiche feroci e altrettanto ideologiche. Rari, invece, sono racconti più sfumati e articolati, quelli di chi magari ha vissuto quel periodo con intimo travaglio. Cuba: la mia rivoluzione è un racconto di questo tipo.

Esordendo nel mondo del fumetto sotto l’etichetta Vertigo, Inverna Lockpez imbastisce un racconto in buona parte autobiografico. L’autrice ripercorre proprio quei primi cinque anni in cui la rivoluzione cubana assunse le sue caratteristiche definitive e repressive, il tutto attraverso una prospettiva personale: a un primo momento di entusiasmo per l’esperienza castrista, dunque, segue il progressivo e faticoso germogliare del dubbio, fino alla sofferta rottura finale.
La prima parte del volume è forse la meno riuscita dal punto di vista della narrazione: è evidente come la Lockpez non riesca a reimmedesimarsi (e a far immedesimare) davvero nell’iniziale, genuina convinzione per le ragioni della rivoluzione: oltre a non essere posto nessun vero accento sulle riforme sociali effettivamente introdotte, l’entusiasmo di Sonya, la protagonista, viene tratteggiato in maniera superficiale e artificiosa, dando l’idea di una sciocca ragazza indottrinata e cieca all’evidenza. In questi passaggi è evidente come l’autrice non riesca a reprimere l’astio di oggi verso la rivoluzione e verso la se stessa di ieri, ma così facendo ne risente in qualche modo la qualità generale del racconto, eccessivamente teso a trasmettere una (troppo) determinata idea.

Molto più fluido e riuscito è il successivo percorso di crescita, di uscita critica dalla dottrina castrista, rispetto alla quale la narrazione si fa più autentica. Vero motore del cambiamento non sono tanto le pur rilevanti violenze fisiche e la repressione subite dal regime, né le mancanze materiali e l’embargo che la società cubana si trovava a sopportare: tutto ciò sembra non riuscire a far crollare la fiducia nella guida del “líder máximo”. La progressiva emancipazione è invece frutto di un diverso tipo di violenza, legata alla professione/passione della protagonista (che è poi la stessa dell’autrice), ossia la pittura. Il controllo ossessivo imposto da Fidel Castro sull’intera società cubana non ammette deviazioni dal disegno rivoluzionario, e ciò comprende qualsiasi istanza di espressione personale, arte compresa. È rispetto a questa oppressione che Sonya sente nascere in sé un’avversione rispetto al regime e alla sua infallibilità dogmatica. Ecco che allora la donna si ribella all’imposizione, ed è qui che ella attua, dentro di sé e con dolore, “la sua rivoluzione”.

Pur nuova al medium, Lockpez rivela una scrittura nel complesso ben calibrata e adatta ai tempi fumettistici. Si notano alcune ingenuità e qualche scivolamento didascalico, ma in compenso colpisce la strutturazione del racconto, con l’inserimento di una serie di elementi di contorno ricorrenti che contribuiscono positivamente all’efficacia complessiva.
Di buon livello i disegni puliti di Dean Haspiel, con uno storytelling di ordinata sequenzialità, pur essendo capace, in certi momenti, di sorprendere il lettore con buone trovate sia estetiche che di costruzione della tavola.
Dal punto di vista grafico, tuttavia, l’elemento di maggior particolarità sta nei colori di José Villarubia (Promethea), che imposta una doppia scala cromatica, di grigi e di rosa-rossi. Questi sprazzi di violenti toni rubino non sempre paiono seguire una logica chiara: possono evidenziare sangue, passione e rivoluzione, possono enfatizzare particolari elementi nella tavola o nella vignetta, ma spesso e volentieri la loro funzione non è diversa da quella più “normale” dei grigi. Ad ogni modo, la scelta, valsa al colorista un Harvey Award, non manca di conferire a questo volume una sua peculiare identità grafica.

Pur in formato ridotto, di buon livello il volume targato BAO, cui avrebbe magari giovato maggiormente qualche informazione biografica sull’autrice, così da rendere apprezzabili alcune scelte narrative da lei operate nella storia.

Riavviare i supereroi

Com’è più che noto, la pellicola di Spider-Man nei cinema in questi giorni è un rilancio del personaggio, in gergo un reboot (letteralmente, un riavvio). Il fatto che la Sony-Columbia Pictures abbia ritenuto di riavviare il personaggio a una distanza di tempo relativamente breve dalla trilogia targata Sam Raimi ha sollevato più di un dubbio, sia presso la comunità degli appassionati che tra il pubblico più generico. D’altra parte, il reboot cinematografico dei supereroi è una pratica tutt’altro che nuova: senza neanche considerare i (poveri) film Marvel anni ’70, ’80 e ’90, un caso evidentissimo è quello di Batman, che dopo i fasti di Tim Burton e il progressivo declino di Joel Schumacher è tornato alla gloria (e che gloria) grazie all’attuale trilogia di Christopher Nolan. Destino un po’ diverso ha conosciuto l’altro grande supereroe DC: la quadrilogia di Superman partita nel 1978 sotto il patrocinio di Richard Donner (primo vero grande film sui supereroi) aveva visto di pellicola in pellicola una fortuna sempre minore; tuttavia, quando nel 2006 fu Bryan Singer a raccogliere le sorti del personaggio, si decise di non segnare una rottura con i vecchi film, riprendendo però la storia solo dalla fine di Superman II; infine, vista la poca fortuna del pur gradevole Superman Returns, l’anno prossimo vedremo il vero e proprio reboot per mano di Zack Snyder. Altri casi importanti sono poi quelli di Hulk e del Punitore, nonché i venturi Daredevil e Fantastici 4 (pare).

In tutti questi casi si intravede una dinamica comune. Gli ultimi film di Batman e Superman avevano deluso sotto il profilo qualitativo, o quanto meno degli incassi (Superman Returns). Gli incassi avevano deluso anche nel caso dell’Hulk di Ang Lee, che non aveva incontrato i favori del pubblico nonostante i pregi della pellicola. Daredevil non aveva fatto malaccio al botteghino, ma la qualità imbarazzante del film aveva soffocato ogni sua aspirazione futura, mentre il Punitore si era mostrato (a dire il vero, tutte le volte) un bell’osso duro da trasporre in celluloide. I Fantasci 4, infine, nonostante le due pellicole loro dedicate, non avevano convinto fin dall’inizio, facendo a loro volta segnare un brusco arresto.
Il caso di Spider-Man invece sembra mostrare qualche differenza. I primi due film erano andati estremamente bene sia come incassi, sia come gradimento di pubblico; il terzo, invece, aveva mostrato delle falle sotto il profilo qualitativo (pur mantenendosi su buoni livelli al botteghino). Tuttavia, questo inciampo sembrava poter essere recuperabile, tanto più che uno Spider-Man 4 sembrava non essere fuori dal possibile. Ma si decise diversamente.

A un primo sguardo, sembra che i dubbi riguardanti questa operazione di rilancio riguardino semplicemente l’eccessiva vicinanza dall’ultimo film: 5 anni, poco più della distanza tra un episodio e l’altro della vecchia trilogia. Eppure non è un caso isolato: anche tra i due Hulk passò lo stesso lasso di tempo (2003-2008), e per il Punitore ancora meno (2004-2008). A guardar meglio, allora, si scorge qualche altra ragione.
Nei due casi citati, va considerato che si veniva da film non particolarmente amati dal pubblico. Lo Spider-Man di Raimi, invece, era stato fortemente amato dal pubblico, segnando nuova fortuna a livello globale per il personaggio, una vera e propria mania. Di più, lo Spider-Man di Raimi ha costituito un momento topico per il genere supereroistico al cinema, una vera svolta: con lui tornavano davvero i supereroi al cinema, la mania di Spider-Man diventava davvero mania dei supereroi, si stabiliva una nuova asticella sotto la quale non era lecito scendere e si ridefinivano i canoni del genere. Gli X-Men avevano lasciato intravedere questa opportunità. Spider-Man la realizzò. Per le ultime generazioni, inoltre, quelle che non avevano conosciuto il Superman di Donner e il Batman di Burton, questo era il primo supereroe al cinema, dunque quello per eccellenza, come per i fratelli maggiori e i padri erano stati gli altri due. Infine, tutto ciò si dispiegava non in un unico film, ma in una trilogia, che dunque cementava e rafforzava quel particolare immaginario nel corso degli anni.

Insomma, lo Spider-Man di Sam Raimi e Tobey Maguire è stata un’esperienza potente, ha in qualche modo “colonizzato” l’immaginario supereroistico-cinematografico, e vederlo adesso sostituire da “un altro” Spider-Man può risultare strano, quando non indigesto per qualcuno. Ma in fondo, questo reboot va poi così tanto “contro natura”?
Il punto è che il reboot è qualcosa in un certo senso inscritto nel DNA dei supereroi. Il supereroe ha una potenza iconica che costituisce la sua caratteristica principale e più immediata. Questa potenza iconica si compone dell’aspetto (o meglio: di alcuni elementi riconoscibile nel suo aspetto), di alcune circostanze ricorrenti nella sua storia, dei suoi poteri e delle sue motivazioni (etiche, filosofiche, ecc.). Le avventure in cui viene coinvolto, cioè la trama o la sceneggiatura, sono secondarie, finché il personaggio rimane riconoscibile e fedele alla propria anima. Pensiamo allo stesso Spider-Man: quante versioni conosciamo di lui nei fumetti, nel cinema, nella televisione e in ogni altro medium? Eppure ogni volta che lo vediamo in una di queste diversissime declinazioni, non facciamo fatica a riconoscerlo, perché gli elementi di base ci sono tutti. Si Potrebbe riprendere un paragone ormai abusato (e in parte anche improprio, ma forse non in questo caso): se si pensa alle mitologie antiche, si applica lo stesso principio nel momento in cui di uno stesso mito esistono versioni anche molto diverse; eppure tutti gli elementi di riconoscibilità sono lì, la dimensione “vera” del racconto non cambia. Insomma, la narrazione alla base del personaggio, in altre parole il suo mito, rimangono lì. Il reboot diventa allora un modo per rideclinare quel fulcro secondo nuove sensibilità: cos’altro è, nei fumetti, l’Universo Ultimate? Cosa sono le crisi DC (al di là del piano commerciale)?

Delle criticità sorgono quando il meccanismo del reboot incontra quello della continuity. Quando un forte concatenamento di eventi, personaggi e mondo narrativo coerente è longevo e radicato, riavviare il personaggio diventa un problema, anche mantenendone le caratteristiche fondamentali. Nei fumetti, in questi casi si arriva alla necessità di riavviare l’intero mondo narrativo, e non solo il personaggio: in altre parole, è necessario riavviare l’intera continuity (ecco perché il New 52 DC con Batman e Lanterna Verde “a statuto speciale” è qualcosa che lascia straniati; così come è stata assurda, se non stupida, l’operazione mascherata di reboot parziale e selettivo di Spider-Man in “One More Day”-“Brand New Day”).
Quando interviene la continuity bisogna considerare l’effetto domino: se riavvii una cosa, devi riavviare tutto. Ormai in un caso particolare è così anche al cinema. Il reboot di Hulk è stato possibile la prima volta, ma ora che il personaggio è parte integrante della nuova continuity cinematografica Marvel, è impensabile ripartire da zero con lui in un film a sé: semplicemente, ormai fa parte di quel mondo, non può esserne espunto. E lo stesso vale per tutti gli altri Vendicatori appena visti in The Avengers e per tutti i personaggi che in futuro entreranno a far parte dell’universo dei Marvel Studios. Possono cambiare sceneggiatori, registi e attori come nei fumetti cambiano scrittori e disegnatori, ma la linea narrativa è quella, e il personaggio ci vive.

Ma nel mondo dei supereroi, la continuity è l’unico meccanismo che (parzialmente) pone dei limiti. Altrimenti, il reboot come si diceva è una caratteristica innata di questi personaggi: risiede nelle loro potenzialità, li aiuta a crescere ed aggiornarsi, a ritrovare una freschezza quando iniziano a logorarsi, li lascia respirare aria nuova pur rimanendo se stessi. Riuscire a raggiungere questi obiettivi rimanendo entro i limiti della continuity è indice di bravura, capacità di progettare, visione d’insieme e valorizzazione della storia: per questo motivo, quando nei fumetti interviene il reboot, soprattutto se con eccessiva frequenza, può essere sintomo di un fallimento.
Nel cinema la questione è parzialmente diversa per via della peculiarità del processo produttivo. Se il fumetto è una narrazione pressoché ininterrotta e che comporta costi relativamente contenuti, il cinema procede invece con macrofasi di stop-and-go, e ogni singolo film costituisce un’unità narrativa molto più isolata rispetto agli archi narrativi a fumetti; inoltre, produrre ogni singolo capitolo ha dei costi elevati: un eventuale passo falso non si può correggere mese dopo mese con il rischio di peggiorare la situazione, dunque è facile dover ripensare da capo l’insieme. Stesso discorso se un franchise inizia ad accusare stanchezza. Da questo punto di vista, la continuity introdotta dai Marvel Studios rappresenta anzi un rischio ulteriore, in quanti inibisce la possibilità “naturale” di questi personaggi di essere riavviati (se non tutti insieme) nel caso si voglia imprimere un forte cambio di rotta. Ma il reboot cinematografico, già di per sé esercizio usuale, con i supereroi diventa qualcosa di estremamente facile, praticabile e produttivo: di sicuro ne vedremo ancora a non finire.

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