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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Un action movie Marvel alla Schwarzenegger, la recensione di Cable: Sangue e Metallo

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Gli anni ’90, nella storia del fumetto americano, sono spesso considerati sinonimo di cattivo gusto e di prodotti che, nonostante abbiano goduto di una certa popolarità al momento della loro uscita, non sono riusciti poi a superare la prova del tempo. Emblematica, in questo senso, è la parabola di Rob Liefeld, artista che ha suscitato controversie tra i lettori fin dai suoi primi lavori: amato da chi vedeva nel dinamismo delle sue matite e nelle distorsioni anatomiche dei suoi personaggi una rivoluzione estetica, per quanto estrema, odiato e deriso da chi considerava le sue storie piene di antieroi violenti e armati fino ai denti semplice spazzatura. Eppure il buon Rob la sua impronta nella storia del fumetto l’ha lasciata, per almeno un paio di motivi. Il primo è quello di aver contribuito alla nascita della Image Comics, casa editrice indipendente (e attuale terzo editore negli States) che ha conferito ai creativi un potere decisionale impensabile prima. Il secondo, è quello di aver creato, durante la sua permanenza in Marvel, due eroi diventati fin da subito beniamini del pubblico: Deadpool e Cable. Soprattutto quest’ultimo sarà il prototipo per la nuova generazione di eroi che segneranno il decennio: soldato dal passato nebuloso, è ritratto da Liefeld come un tank umano, corredato da armi da fuoco e appendici robotiche che lo rendono, per citare una famosa saga cinematografica, un riuscito amalgama tra il salvatore dell’umanità proveniente dal futuro Kyle Reese e la sua nemesi Terminator. Non citiamo a caso l’opera più celebre di James Cameron: è stato lo stesso regista, avido lettore di fumetti in gioventù, ad aver affermato più volte che l’ispirazione decisiva per la sua pellicola è arrivata da Giorni di un futuro passato, il momento più significativo insieme alla Saga di Fenice, della gestione Chris Claremont/John Byrne degli X-Men. Con l’arrivo di Cable si chiude un cerchio ideale: se la saga degli X-Men è essenzialmente la storia di una “famiglia” di emarginati condita da avventura, romanticismo e frequenti viaggi nel tempo e in dimensioni parallele, il guerriero creato da Liefeld ne rappresenta uno degli esempi più emblematici.

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Rileggere Cable: Sangue e Metallo, a 25 dalla sua prima uscita, è come compiere uno dei balzi temporali di Nathan (Nate per gli amici) Summers. Siamo nel 1992 e Claremont ha lasciato le serie mutanti nell’anno precedente, dopo averle trasformate nel più grande successo commerciale nella storia della Marvel, grazie ad un mix di avventura, soap-opera e di trame a lunga gittata, i cui semi vengono piantati in sordina per esplodere poi anche a distanza di anni. Poco dopo se ne sono andati anche Jim Lee, la superstar della matita la cui importanza nell’economia delle storie degli Uomini X aveva finito per eclissare quella dello scrittore, costretto da questa e altre circostanze all’abbandono, e Rob Liefeld. Superato lo shock iniziale, la perdita di questi creativi finisce paradossalmente per favorire i piani della casa editrice per un’espansione senza limiti della sua linea editoriale di maggior successo. Senza figure ingombranti che possano pretendere controllo creativo, la Marvel è libera di incrementare esponenzialmente il numero di iniziative legate agli X-Men e al loro mondo, compresi i comprimari che fino a quel momento non avevano ancora avuto il loro posto al sole. Nella pletora di serie regolari, miniserie e one-shot che inondarono il mercato in quei primi anni ’90, una delle migliori fu senza dubbio Cable: Blood & Metal, miniserie in 2 ad opera di Fabian Nicieza e John Romita Jr..

La storia riprendeva il filo del lungo conflitto tra Cable e Stryfe che si era dipanato sulle pagine di X-Force, svolgendosi su due piani temporali. In una serie di flashback tratti da un passato recente, assistiamo alle missioni del Six Pack, gruppo di mercenari creato da un Cable arrivato da poco nella nostra epoca. Formato dallo stesso Cable, la sempre fedele Domino, Garrison Kane, G.W. Bridge, Hammer e Grizzly, si tratta di uno “sporco sestetto” in soldo al miglior offerente, ma creato da Nathan allo scopo di poter abbattere Stryfe quando se ne presenterà l’occasione; nel presente Bridge, ora uomo forte dello S.H.I.E.L.D. e Kane, che è stato trasformato nel cyborg Arma X a seguito delle gravi ferite riportate durante uno scontro con Stryfe, si alleano per dare la caccia a Cable, il loro vecchio compagno reo, a parer loro, di averli traditi. Il palcoscenico si allargherà con l’arrivo di Stryfe e la resa dei conti tra quest’ultimo e Nathan costituirà il piatto forte del finale, in cui Kane sarà costretto a rivedere le sue posizioni.

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Fabian Nicieza è un artigiano della macchina da scrivere con una profonda etica del lavoro che lo portò, in quei primi anni ’90, a firmare mensilmente un numero considerevole di testate Marvel: X-Men, X-Force, New Warriors, Nomad, Cable, Deadpool e una miriade di miniserie e progetti speciali. Con Cable: Sangue e Metallo, Nicieza firma il corrispettivo a fumetti di un action movie alla Arnold Schwarzenegger come ne uscivano in quegli anni, un prodotto commerciale ma di qualità. Trama serratissima, azione e colpi di scena che all’epoca lasciarono di stucco, vedi la rivelazione dell’identità di Stryfe, senza trascurare la caratterizzazione dei personaggi e le loro motivazioni. Lo scrittore diede seguito, ma soprattutto sostanza, alle trame lasciate pendenti da Liefeld e tra X-Force, questa miniserie e la serie regolare che seguì, fece sempre più suo il personaggio di Cable, approfondendone la personalità, allontanandosi progressivamente dal violento guerriero delle prime apparizioni per arrivare a quello di un malinconico paria fuori dal suo tempo, che lotta per scongiurare un futuro distopico.

La miniserie viene ancora oggi ricordata per i disegni di John Romita Jr., l’artista che ha segnato trent’anni della storia della Casa delle Idee, che in quel periodo si scrollava definitivamente di dosso l’ingombrante eredità paterna. Dopo aver debuttato alla fine degli anni ’70, giovanissimo, Romita Jr. aveva attraversato gli anni ’80 proponendo, tra Iron Man, Amazing Spider-Man, Dazzler, Contest of Champions e una prima run su Uncanny X-Men, una versione aggiornata dello stile morbido e arrotondato del celebre padre. Una prima svolta nella carriera di Romita Jr. avviene alla fine del decennio, quando, disegnando un bellissimo ciclo di Daredevil su testi di Ann Nocenti, ha l’occasione di lavorare col veterano Al Williamson, formando un affiatato duo. Numero dopo numero le matite di Romita Jr. prendono una direzione nuova, verso un tratto squadrato e spigoloso che da quel momento diventa il suo marchio di fabbrica e che caratterizza la produzione successiva, tra cui la miniserie di Cable. È qui che lo stile dell’artista comincia ad assumere una dimensione monumentale: il suo Cable è un carro armato umano, enorme e inarrestabile, la tavola è affollata di personaggi e dettagli che ne riempono tutto lo spazio a disposizione, fino a straripare. È l’inizio di una sterzata verso una vocazione Kyrbiana della sua carriera, che esploderà in tutto il suo splendore sul finire degli anni ’90 sulle pagine di Thor. Le matite di Romita Jr. sono ottimamente rifinite dalle chine di Dan Green, solido professionista in forza alla Marvel tra gli anni’70 e ’90, e i colori di Brad Vancata sono ancora funzionali e gradevoli, nonostante i passi da gigante fatti nel campo della colorazione digitale dall’epoca in cui è uscita questa miniserie.

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Panini Comics propone Cable: Sangue e Metallo in un bel cartonato della linea Marvel History, inserendovi anche New Mutants 87, la prima apparizione del personaggio per i testi di Louise Simonson e i disegni di Rob Liefeld: nonostante la sua importanza storica, l’episodio risulta estremamente datato sia per lo stile verboso e l’eccessivo uso delle didascalie da parte della Simonson, sia per le matite di Liefeld, appiattite dalle pesanti chine di Bob Wiacek. Detto questo, il volume è consigliato tanto ai nostalgici del periodo d’oro delle testate mutanti, quanto ai lettori più giovani che vorranno sperimentare uno dei migliori prodotti di un periodo storico del fumetto altrimenti vituperato. In attesa di ritrovare Cable anche al cinema, interpretato da Josh Brolin in Deadpool 2, previsto per il prossimo anno.

Le contraddizioni della società americana a nudo nel thriller urbano di Nighthawk, la recensione

Vi ricordate di Nottolone? Tradotto dall’originale Nighthawk dalla mitica Editoriale Corno di Luciano Secchi, era un membro dei Difensori, il “non-gruppo” guidato dal Dottor Strange (da non confondere col serial tv che riunirà gli eroi Marvel/Netflix, di prossima diffusione). Creato da Roy Thomas e Sal Buscema sulle pagine di Avengers #69, Nighthawk faceva parte inizialmente dello Squadrone Sinistro, gruppo di criminali provenienti da una terra parallela modellato sul prototipo della Justice League della DC. Ciascun membro dello Squadrone era il corrispettivo Marvel di un leaguer: così, se Hyperion era il Superman di questa realtà alternativa, Doctor Spectrum corrispondeva a Lanterna Verde, Whizzer a Flash e Warrior Woman a Wonder Woman, Nighthawk occupava il posto di Batman all’interno del supergruppo. Con questo espediente Thomas poteva mettere in scena uno scontro ideale tra i due supergruppi di riferimento delle due case editrici. Come lo scrittore rivelò più tardi, lo Squadrone Sinistro era stato modellato dal criminale cosmico Gran Maestro sulla base di un gruppo di eroi realmente esistente su un’ulteriore terra parallela, lo Squadrone Supremo. La vita editoriale di entrambi gli squadroni sarebbe proseguita negli anni a venire, e lo Squadrone Supremo sarebbe stato protagonista di una celebre miniserie, scritta dal compianto Mark Gruenwald a metà degli anni ’80, che avrebbe anticipato di poco alcune tematiche presenti in Watchmen. Nel frattempo, il Nottolone dello Squadrone Sinistro si era affrancato dalle sue origini criminali e aveva trovato ospitalità nell’universo Marvel principale: di giorno, nella sua identità di Kyle Richmond, conduceva una vita da playboy milionario, di notte combatteva il crimine nei panni di Nighthawk.

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Nel 2003 J. Micheal Straczynski propone, con Supreme Power, un aggiornamento per il nuovo secolo dei personaggi creati da Thomas, fornendone una nuova e più realistica versione ambientata su un ulteriore mondo parallelo, Terra 31916. Il Nighthawk di Supreme Power, pur conservando l’alter-ego di Kyle Richmond, si distacca notevolmente dal suo predecessore, non tanto quanto afro-americano, piuttosto per un approccio più violento alla lotta al crimine, che non esclude l’eliminazione fisica se necessaria. In seguito all’evento Secret Wars e al collasso del Multiverso Marvel, anche questo Nighthawk è giunto sul nostro pianeta insieme ad altri esuli di altre terre, tra cui versioni alternative dei suoi compagni perduti con cui ha fondato un nuovo Squadrone Supremo, trovando però tempo per avventure in solitaria nella sua nuova serie personale, tradotta in Italia da Panini Comics.

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In apertura di volume troviamo un Nighthawk perfettamente calato nel suo nuovo ruolo, quello di protettore di Chicago, eletta città d’adozione dell’oscuro vigilante. La “città del vento” è scossa da violente rivolte razziali, scoppiate in seguito agli omicidi di cittadini afro-americani fermati dalla polizia. In questo contesto sociale problematico, Nighthawk cerca  di fermare i traffici dei Veri Patrioti, un gruppo di suprematisti bianchi dediti al traffico della droga che è misteriosamente entrato in possesso di armi ad alta tecnologia. Come se non bastasse, ecco apparire anche la minaccia di un serial-killer, il Rivelatore, che prende di mira le persone che si sono macchiate di crimini contro la comunità afro-americana. Sullo sfondo, proseguono i tumulti e le sommosse, favorite dagli interessi economici di un cinico immobiliarista, che potrebbe essere la mente dietro le azioni criminali dei Veri Patrioti. Molte gatte da pelare per Nighthawk, che convergeranno verso una cruda resa dei conti finale.

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Thriller urbano teso come una corda di violino, Nighthawk non si fa scrupoli nel prendere di petto le contraddizioni e le tensioni sociali che attraversano la società americana, ancorandosi saldamente alla cronaca quotidiana, elemento che lo contraddistingue dal resto della produzione Marvel attuale. Lo scrittore David Walker, già autore di quella gemma mensile di exploitation anni ’70 che è Power Man & Iron Fist (in Italia sulle pagine di Daredevil), ci propone la dura realtà di una metropoli moderna, dove le persone comuni non possono che soccombere davanti alle manovre di criminali che non hanno costumi sgargianti o piani altisonanti, se non il proprio arricchimento: palazzinari e faccendieri, che usano la malavita e i poliziotti corrotti come strumenti per raggiungere i propri interessi. L’approccio scelto da Walker è assolutamente realista: la sua Chicago non è una città da fumetto, teatro di scontri tra supereroi e criminali, anzi è più probabile che sia scenario di proteste contro i metodi violenti della polizia, se non di rivolte. Un contesto crudo e realistico che non prevede la presenza di eroi, se non quella di un vigilante e anti-eroe come Nighthawk: creatura notturna inguainata in una corazza nera che incute timore, fornita di gadget in grado di ferire mortalmente gli avversari, è un Batman che combatte il crimine con i metodi brutali del Punitore. Lo scrittore lo ritrae come un uomo di poche parole che sono sentenze, ossessionato dalla sua missione, lasciando il compito di alleggerire la tensione e le situazioni drammatiche alle battute della sua assistente Tilda, criminale redenta, con la quale Nighthawk instaura una dinamica stile Green Arrow-Felicity come nella serie tv dedicata all’arciere di smeraldo.

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L’atmosfera realista della trama imbastita da Walker è perfettamente catturata fin dalle prime pagine dalle matite di Ramon Villalobos, artista californiano nelle cui tavole è impossibile non notare l’influenza di Frank Quitely. Villalobos costruisce un setting perfetto, tra magazzini di periferia, cantieri e case popolari, divertendosi a disegnare nasi rotti e ossa spezzate. La costruzione della tavola e la scansione delle vignette, vedi il duello finale tra Nighthawk e il Rivelatore, sono pensate appositamente per supportare il ritmo freneticamente action dello script di Walker. Da segnalare le intense ed interessanti scelte cromatiche della palette di Tamra Bonvillain, tra cui gli effetti fluo in alcune tavole che ben si sposano con la dimensione urbana dell’intera vicenda. Un altro bonus che farà piacere ai lettori di vecchia data sono le copertine di Denys Cowan, disegnatore negli anni ’80 di una serie cult come The Question per la DC, che introducono perfettamente il lettore alle crude atmosfere della serie. Le covers di Cowan possono contare su delle chine d’eccezione, quelle del maestro Bill Sienkiewicz.
Nighthawk ha chiuso negli States col sesto numero per scarse vendite, ma siamo sicuri che questo ciclo di storie verrà riscoperto e apprezzato negli anni a venire.

Un po' meglio di una bestia, la recensione di Visione 2

Arriva sugli scaffali delle fumetterie il secondo e attesissimo volume di quella che è ormai considerata la migliore serie Marvel degli ultimi anni, The Vision di Tom King e Gabriel Hernandez Walta (qui la recensione del #1). Creato da Roy Thomas e John Buscema nel lontano 1968 sulle pagine di Avengers 57, il sintezoide più amato della storia del fumetto ha dovuto aspettare quasi cinquant’anni per avere il suo posto al sole. Fin dall’inizio la Visione incarna la contraddizione dell’essere artificiale che prova emozioni umane, tanto da portarlo alle lacrime come nell’iconica splash-page finale di Anche un androide può piangere, arrivando addirittura ad innamorarsi, ricambiato, di una donna in carne ed ossa, la collega Scarlet Witch. I due formeranno per anni una delle coppie più famose dei comics, suggestionando più di una generazione di giovani lettori tra cui il futuro scrittore Jonathan Lethem, che ai due amanti di carta dedicherà il racconto La Visione, contenuto nella raccolta Men and cartoons (pubblicata in Italia da Minimum Fax). Personaggio travagliato, il povero androide, diviso tra la paura di non provare sentimenti e il peso che il viverli comporta. Dissezionato metaforicamente da autori classici come Steve Englehart, Bill Mantlo e Roger Stern, una volta è stato realmente smembrato pezzo per pezzo e rimontato, in un celebre ciclo di Avengers West Coast firmato da John Byrne che segnò la fine del suo rapporto con Scarlet. Ma niente poteva preparare il sintezoide di casa Marvel al “trattamento” riservatogli dal brillante Tom King.

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In questa seconda uscita convergono e giungono a compimento le trame orchestrate da King nel primo volume, in cui Visione, cercando di dare un senso alla sua esistenza, decide di “mettere su famiglia”: l’androide se ne costruisce letteralmente una, formata da moglie, due figli e un cane, con la quale va a vivere in un sobborgo di Washington, il classico comprensorio formato da villette a schiera tipico di tanto cinema americano. L’arrivo della famiglia Visione non è però gradito dal vicinato, e la crescente tensione per la paura del diverso porterà Virginia, la moglie robotica dell’androide, a commettere un errore fatale le cui tragiche conseguenze non tarderanno ad arrivare coinvolgendo anche la squadra di appartenenza del consorte, gli Avengers.

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Forte di una qualità letteraria che ha spinto il sito specializzato Bleeding Cool a definirla “il Watchmen” della Marvel, Visione è una gemma nel panorama delle pubblicazioni attuali della Casa delle Idee. King e Walta confezionano uno straordinario ibrido tra fumetto d’autore e mainstream supereroistico, assolutamente originale. Lo scrittore pesca a piene mani dalla tradizione del melodramma americano, il cui principale esponente fu il regista Douglas Sirk, e dalle sue declinazioni più moderne come American Beauty e Revolutionary Road di Sam Mendes e Lontano dal Paradiso di Todd Haynes: opere che ci raccontano famiglie che conducono esistenze apparentemente perfette, chiusi nelle loro belle villette, tra sorrisi di circostanza e l’amara consapevolezza della realtà. In una variante certamente fantascientifica, Visione ci parla proprio di questo, di verità taciute, negate ma insopprimibili, di scheletri nascosti nell’armadio o seppelliti – letteralmente – in giardino, ma che non tarderanno a riaffiorare mettendo a rischio un fragile equilibrio. Nel fare questo, lo splendido lavoro di King e Walta riporta un genere usurato come il fumetto di supereroi alla sua dimensione più nobile, la trasfigurazione in racconto mitologico dello struggimento del vivere quotidiano.

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Il lirismo dei testi di King è efficacemente supportato dal tratto minimalista di Walta, bravo nel ritrarre scene di vita quotidiana borghese semplici ma intense, attraversate da improvvise ed inaspettate esplosioni di violenza. Merita una citazione anche Micheal Walsh, autore delle illustrazioni dell’episodio in cui King ripercorre la storia della relazione tra Visione e Scarlet, facendo “sbirciare” il lettore dietro le quinte della storia ufficiale della coppia: sarà una delizia per i fan di vecchia data riconoscere i periodi della storia degli Avengers citati dagli autori, dallo scontro col Conte Nefaria a firma Jim Shooter/John Byrne fino al “triangolo” Visione/Scarlet/Wonder Man della gestione Kurt Busiek/George Pérez. Scene già viste che assumono però una valenza e un significato del tutto nuovo, grazie ad un team creativo in stato di grazia.

Classico istantaneo che verrà ricordato da qui a molti anni, Visione porta con sé un unico difetto: è e resterà, per il momento, l’unico lavoro made in Marvel di Tom King, che subito dopo la conclusione della serie è stato blindato dalla DC con un contratto di esclusiva. Mossa sulla cui bontà non nutriamo alcun dubbio.

Il ritorno all'horror di Grant Morrison, la recensione di Nameless - Senzanome

Un asteroide proveniente dallo spazio profondo viaggia a gran velocità in rotta di collisione verso la Terra. Sulla sua superficie sono incise delle antiche rune, che annunciano la fine del mondo secondo la lingua dei maya. Chiunque le legga, a partire dagli astronomi degli osservatori, viene posseduto da un’implacabile follia omicida, che si propaga come un virus: massacri di ogni sorta cominciano ad essere compiuti in ogni parte del globo. Un individuo misterioso, un esperto di occulto autoproclamatosi “Senza Nome” per non essere colpito dagli effetti della magia nera, viene reclutato dal milionario Paul Darius per far parte di un composito team di astronauti al quale viene affidata la missione di recarsi sull’asteroide per scoprire il mistero delle rune e distruggere eventualmente il meteorite. Ma l’intera missione potrebbe essere soltanto un’allucinazione dovuta ad una seduta spiritica finita male. O forse è la seduta spiritica un’allucinazione di Senza Nome, alla deriva nello spazio dopo il fallimento della missione e la morte del resto dell’equipaggio? La risposta potrebbe trovarsi nelle trame della Dama Velata, donna misteriosa il cui unico scopo sembra quello di gettare Senza Nome nell’abisso della follia.

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Nameless, il nuovo lavoro di Grant Morrison per Image Comics portato in Italia da Saldapress, segna il ritorno dello scrittore scozzese all’horror puro, attraversato da quelle influenze esoteriche che lo hanno sempre affascinato e che hanno rappresentato spesso il sottotesto delle sue opere. Affiancato da Chris Burnham, già suo complice in Batman Inc., conclusione della sua straordinaria e pluriennale gestione delle serie del Cavaliere Oscuro, Morrison crea un’opera che parla direttamente al subconscio del lettore, infettandolo con mostruosità e carneficine che sebbene facciano pensare al ciclo di Cthulhu di H.P. Lovecraft, sono ispirate in realtà, come ammette Morrison nella post-fazione del volume, alla mitologia maya e polinesiana, alla filosofia nichilista e pessimista del XXI secolo, e all’opera delle scuole di magia tifoniana successive ad Alesteir Crowley, da sempre nume tutelare dello sceneggiatore di The Invisibles.

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È lo stesso Morrison, nella già citata post-fazione, a fornire entusiasticamente le linee guida a chi volesse approfondire questi argomenti: le indagini sull’albero della vita e i tunnel di Set di Linda Falorio e Kenneth Grant, cabala, tarocchi, il linguaggio enochiano o “lingua degli angeli”, portato alla luce nel ‘500 dall’astrologo reale John Dee dopo aver sperimentato alcuni viaggi visionari. E poi ancora Xibalba, l’oltretomba governato dagli spiriti della malattia e della morte secondo la mitologia maya, il mito del Tonal e del Nagual derivato da Carlos Castaneda. In cima a tutto, la rivincita del femminino sacro, l’immagine cabalistica di Binah, archetipo tanto della madre che allatta quanto della madre distruttrice, usata da Morrison per incitare la popolazione femminile a distruggere l’archetipo della cultura maschile dominante ed innescare una salvifica rivoluzione. Argomenti complessi che meritano un approfondimento in altre sedi. Quello che ci interessa sottolineare qui è la struttura della narrazione scelta da Morrison, l’assenza di consequenzialità e il crollo del tempo lineare tipica dei sogni o, in questo caso, degli incubi.

Il collegamento più spontaneo è quello con il surrealismo, altra influenza dello scrittore fin dai tempi di Doom Patrol, e con film sperimentali appartenenti a quella corrente come gli allucinanti Un Chien Andalou e L’Age d’Or, nati dalla collaborazione tra Bunuel e Dalì; il tutto declinato in salsa decisamente horror. La storia sembra un incrocio tra Alien, L’esorcista e Seven, diretto però da David Lynch: un mix da fare accapponare la pelle. Se qualcuno si prendesse la briga di tradurre Nameless su pellicola, ne uscirebbe fuori il film horror definitivo. C’è il sospetto di una certo compiacimento da parte dell’autore ma gli si può facilmente perdonare: Morrison è l’autentica rockstar del fumetto contemporaneo, e il fascino delle sue opere deriva principalmente dal fatto di essere eccessive e provocatorie. Nameless è il flusso di una coscienza sconvolta e infettata da immagini ancestrali ed inquietanti, un viaggio nell’inferno del subconscio a cui ci si approccia prima con titubanza, poi con compiaciuto abbandono.

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Un viaggio che non sarebbe stato ugualmente affascinante senza le illustrazioni di Chris Burnham, a cui è affidato il sostegno grafico all’immaginazione orrorifica dello scrittore scozzese. Il tratto del disegnatore di Officer Down ricorda molto quello di Frank Quitely, altro collaboratore storico dello sceneggiatore di Glasgow, ma tende più al grottesco: straordinariamente a suo agio tra interiora e bulbi oculari strappati, Burnham è bravissimo a suggerire l’orrore senza mostrarlo in primo piano, nascondendolo in campi lunghi agli occhi del lettore distratto, salvo poi farlo balzare sulla sedia facendo esplodere davanti ai suoi occhi immagini di crudeltà e supplizio. Anche grazie al suo apporto Nameless è una scheggia di ansia e terrore che si conficca nel cervello del lettore senza abbandonarlo, e che anzi necessita di più letture per decifrare ulteriori livelli di significato che potrebbero sfuggire ad una prima fruizione.

Ricordiamo che il fumetto è disponibile in edizione brossurata (pp. 168 euro 15.90) e cartonata (pp. 192, euro 24.90).

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