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Simone Celli

Simone Celli

La Parentesi

C’è un inizio e c’è una fine, ma prima di quei due punti fermi c’è sempre dell’altro. Un altro inizio e un’altra fine, ma per Judith, un tempo, era impossibile ricordarli. Lei ha vissuto così, dentro una maledetta parentesi, fatta di limiti che la sua mente aveva reso invalicabili. Era malata. Epilessia, anzi, tumore al cervello. Un male che le aveva tolto la consapevolezza di tutto, anche di quello stesso male. Quasi. Poi le cose sono cambiate. E per la giovane donna di Tours, ormai tornata alla vita, è venuto il tempo di raccontare.

Élodie Durand ha scritto e illustrato l’autobiografia dei suoi anni migliori, resi i peggiori da una malattia che, alla fine, ha dovuto arrendersi di fronte alla scienza e alla forza di chi vuole andare avanti. La Parentesi è la riproduzione di una giovinezza complicata, fatta di un dolore quasi inconsapevole ma comunque onnipresente. Riuscire a raccontarla così, con o senza uno pseudonimo, non è soltanto bravura. È coraggio. Saper scavare tra certi ricordi, soprattutto nei meandri di una memoria che spesso non è più tale, è qualcosa di eroico. La Durand condivide con il mondo la claustrofobia di un’esperienza che non dimenticherà mai. E sembra un paradosso, visto il tipo di malattia, ma la voglia di vivere che ne è scaturita è la cicatrice più bella e vistosa che si porta dietro. Vanno in scena le tappe del suo ritorno a una quasi normalità, sin dai primi vagiti del male, tra un attacco epilettico e un ricordo nascosto all’improvviso sotto lo zerbino della mente.

I disegni assomigliano spesso a delle bozze. Tra il troppo bianco della vita quotidiana e il troppo nero dei momenti di smarrimento, si dà concretezza a un’alternanza che impressiona e, quasi quasi, soffoca. Ma il vero tesoro sono gli schizzi dei tempi andati, usati come intermezzi e che risalgono al periodo della malattia. Erano nati per aiutare Élodie a non perdere la bussola, per fissare nomi e concetti, e per urlare il dolore almeno attraverso la voce della grafite. Oggi restano le perle di memoria di chi la memoria la stava perdendo man mano. A vederle sembrano quasi elementari. La verità è che sono sensazioni stilizzate, un’intimità incapsulata che parla più delle parole. Teste che si staccano, occhi che si spalancano perché incapaci di capire, la mente come gabbia, vortici al posto del cranio a raffigurare la disperazione soffocata di chi fuori minimizza ma poi grida disegnando.

Il premio dei lettori di Libération e quello vinto ad Angoulême nel 2011 come rivelazione dell’anno sono il degno corollario di un dono grafico composto da tanti frammenti di vita e da una speranza sottile che percorre le pagine come un ricordo che non sai mai se arriverà fino alla fine. A mettere una pezza sui buchi della memoria c’è una famiglia bella come poche, che non perde mai la testa di fronte a una figlia che non ha più padronanza della sua. Il “nido” ne esce benissimo, anche grazie alle pillole di dolcezza che ha saputo spargere qua e là tra le tante situazioni raccontate, taglienti, ma soprattutto amare come poche.
La Parentesi non è un lento precipitare dentro l’abisso. A leggere ci si accorge subito di una leggerezza quasi innaturale. Il lieto fine, poi, è palese già dalla quarta di copertina. È che il cuore di tutto non è la meta, ma il viaggio, un’enciclopedia di sensazioni che turba chi legge quasi più di chi le ha vissute. O così sembra. Perchè se il male ti toglie la consapevolezza di tutto, compresa quella dello stesso male, allora non c’è modo nemmeno di maledirlo.

Bloodymilla

Negli anni di un’Italia non ancora unita, le guerre degli uomini sembrano essere l’ultimo dei problemi. Vampiri, licantropi, streghe, burattinai, demoni: l’immaginario horror invade lo Stivale, ancora spezzettato in tanti regni, mentre due sorelle succhiasangue, separate da anni, sono prossime a ritrovarsi. Una storia famigliare travagliata e che non consente di dare niente per scontato, ambientata in gran parte in una Firenze da Inquisizione, resa claustrofobica da un clima di terrore imperante e da inganni che legano a filo doppio i palazzi del potere e il sottobosco delle tenebre.

Bloodymilla è frutto di una sapiente lettura dei tempi. Nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità, l’Italia a fumetti si tinge di rosso e di nero.
Barbara Baraldi
è una madrina di lusso; a lei l’onore e l’onere di adattare il suo microverso dell’orrore sulle pagine di una graphic novel dalla bella confezione che promette di arricchirsi di nuovi capitoli. L’hanno definita la regina del gotico italiano, in primis per i suoi successi con i romanzi di "Lullaby" e "Scarlett", e ora firma i testi di un libro a fumetti che cavalca l’onda di "Twilight" per proporre la classica faida tra creature della notte, con il pregio di lasciare sullo sfondo la melassa, trita e ritrita, dell’amore tormentato tra mostri di natura differente.
Almeno stavolta.

La Baraldi è un’abile soggettista, la sua idea insegue la tradizione ma è comunque completa, anche se i personaggi soffrono le poche pagine a disposizione e ne escono più sfumati del dovuto. La volontà di approfondire è, in realtà, una vera e propria esigenza, anche per evitare che l’eccessiva rapidità di certi passaggi svilisca la buona fede del progetto. Roberta Ingranata ed Elena Cesana si adagiano su di un segno netto ed essenziale; il risultato ricorderebbe Stuart Immonem, anche se molto da lontano, non fosse per una staticità di fondo che penalizza lo storytelling, mentre la tavolozza dei colori predilige il giallo e il nero garantendo un’aura di perenne malinconia.

"Credevo che i uèstern non avessero i colori" - Intervista a Pierz

Il personaggio lo intuisci subito. Seduto al tavolo di un pub, un ragazzo lo riconosce e gli chiede: “Tu sei Pierz?”. E la risposta è: “Sì, ti devo dei soldi?”. La persona, invece, è un po’ più complessa. Gira con Bianca, una cagnolina di rara bellezza adottata da meno di un mese. Dice che è un’operazione di marketing, che lei fa gli occhioni, la gente si ferma e alla fine gli compra il fumetto. Poi capisci che stravede per lei, che quella era soltanto una battuta tra le battute. Che sul proprio talento tende a minimizzare, ma alle fiere i suoi libri vanno a ruba perché fanno ridere e pure innamorare, come la coppia che ha rotto il ghiaccio grazie a una sua vignetta.  Marchigiano doc, Luca Piersantelli (in arte “Pierz”) sta diventando uno tra i più noti autori di fumetto umoristico in Italia. Con un sogno nel cassetto: trovare uno stile e riscoprirsi serio.

Chi è Pierz?

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Un mantenuto di successo, un disegnatore fallito che ha frequentato la Scuola di Comics di Jesi (AN) e che un giorno ha fatto delle vignette giusto per provare. Le prime non avevano nemmeno un titolo. Poi sono arrivati i forum e una serie di flussi favorevoli che lo hanno portato a pubblicare con la Nicola Pesce Editore.

Ravioli Uèstern, arrivato ormai al terzo volume, è il tuo più grande successo. Com’è nato?

Dopo il primo riscontro sul web ho messo i titoli per far finta di avere una trama. Come protagonista mi serviva un “duro”, uno squadrato. Questo mentre stavo ascoltando una canzone che parla di ravioli ("Le Metafore" degli Uochi Toki, il cui cantante, Napo, mi ha scritto l'introduzione di Ravioli Uèstern #3). L’idea del western è venuta perché colorare le mie tavole mi dava noia. Poi un giorno ho scoperto che quei film, che non avevo mai visto, in realtà non erano in bianco e nero come pensavo.

Dove prendi l’ispirazione?

Il lato tecnico è pensato, ragionato. Le battute sono tratte da storie vere. Vado in giro con un’agendina rossa e mi appunto le cose che mi succedono.

Sei solito inserire nei tuoi fumetti citazioni e parodie di vario genere. Come mai?

Fanno parte dell’ispirazione. E il linguaggio nerd è il mio linguaggio.

Hai inventato un personaggio sicuramente sui generis. Ora parliamo di quelli più tradizionali, di quelli più famosi a livello di immaginario collettivo. Prendine uno su cui ti piacerebbe lavorare. Cosa gli faresti fare?

Ho tutta la libertà che offre internet, quindi se volessi "lavorare" su un personaggio altrui, al diavolo, lo farei e basta. Proprio come Davide La Rosa "lavora" sulla Pimpa, Piro "lavora" su Topolino, Daw "lavora" su Steven Segal e Makkox "lavora" su Berlusconi (ho fatto esempi in continuity, che bravo che sono!). Insomma, se volessi fare una parodia o qualcosa del genere lo potrei fare, ma per adesso non ne sento la voglia né la necessità. Comunque al massimo “lavorerei” su Dragon Ball e gli farei fare una stupidaggine qualsiasi. Che tanto son soldi sicuri, quelli.

pierz2Sergio Bonelli se n'è andato. Tu sei un “esponente” del fumetto politicamente scorretto, con i tuoi attacchi velenosi al berlusconismo, alla Chiesa cattolica e ai neofascisti. Lui invece era il re della tradizione fumettistica italiana, della “faccia pulita” della nona arte nostrana. Come ha reagito di fronte alla notizia della sua scomparsa?

Ammetto di aver avuto una reazione abbastanza apatica a questa notizia. Onestamente, un po' come per la morte di Steve Jobs, mi è dispiaciuto semplicemente perché è morto qualcuno.

Oggi per un autore è possibile mantenersi soltanto con il fumetto?

Noi siamo la “generazione mille copie”. No, se non sei uno di quelli “grossi”non è possibile. Serve un secondo lavoro, ad esempio il designer. Sennò si finisce a fare stage per Bonelli, Disney, oppure all’estero. A meno che tu non sia Gipi.

Quali sono le tue letture?

Oltre Gipi adoro Toppi e Andrea Bruno. E leggo pochissimi fumetti comici.

Lo scorso Natale abbiamo visto il panda di Giacomo Bevilacqua (autore di A Panda Piace) su La7. E il raviolo dove lo metteresti?

Nel mio caso parliamo di mille copie vendute nelle fumetterie, perciò mi vergognerei come un ladro. Comunque lo metterei nel Tg1 di Minzolini.

Progetti per il futuro?

Ravioli Uèstern 4. E un porno con Roberta Missoni.

Seriamente.

Ho appena saputo che anche il secondo volume, così come il primo, è andato esaurito e dovrà essere ristampato. E a Lucca porteremo Ravioli ZERO - Perché al Raviolo Ningia manca un piede?, che sarà uno spillatino di 16 paginotte. Tutto qua. Poi mi interessa tantissimo crescere come autore, ma so di non essere pronto per un fumetto serio, anche se il mio editore sta cercando di spingermi in quella direzione. Compro libri di disegno per trovare uno stile. E’ questo che mi manca.

Dylan Dog Color Fest 6

Anche l'Indagatore dell'Incubo ha le sue quote rosa. Tutto merito di Dylan Dog Color Fest 6, scritto e illustrato da sole donne. A partire dalla copertina, firmata da una habitué di JuliaLaura Zuccheri.

Vanna Vinci dà forma e sostanza a una storia di maledizioni, passioni e ciclicità di certe tragedie. Rita PorrettoSilvia Mericone giocano la carta della claustrofobia, intrappolando Dylan in un appartamento che sembra non avere uscite. Di ridondanza in ridondanza, una bella metafora dell'indifferenza dell'uomo moderno su disegni di un'eccellente Simona Denna. La veterana Paola Barbato, invece, lo illude di aver trovato la donna perfetta in quella che suona come una resa dei conti tra l’inquilino sciupafemmine di Craven Road e l’altra metà del cielo, con un montaggio alternato e ben serrato su matite di Lola Airaghi. L’impossibilità di un paradiso in Terra è un tema che persiste anche nell’ultimo racconto. Insieme a Valentina Romeo, l’esordiente Chiara Caccivio proietta l’Indagatore dell’Incubo in una situazione tanto normale quanto impossibile. Impiegato in una grande azienda, sposato e con tanto di figlia. Parliamo di Dylan Dog, inutile dire che qualcosa non torna. La storia è ben scritta, è un’opera prima coi fiocchi che però termina in un finale fin troppo inverosimile. Anche per un personaggio così surreale.

La Bonelli ha messo in piedi un "8 marzo" tutto a fumetti. Rosa, sì, ma soltanto nelle firme. Non proprio il migliore dei Color Fest, ma tutte le autrici sono riuscite a metterci del proprio senza tradire lo spirito di un personaggio in cerca di riscatto dopo lo smacco del grande schermo. Un’occasione per leggere storie dell’orrore con un taglio diverso ma non troppo, in cui vengono rafforzati aspetti che di solito tendono a restare sullo sfondo. L’immagine di copertina sembra una metafora violenta di ciò che ci aspetta all’interno: una donna nasconde un coltello lungo e appuntito dietro la sua schiena scoperta, e il buon Dylan la fissa impugnando una pistola in bella vista. Segno di nuove sfide all’orizzonte, alcune delle quali fin troppo grandi per lui. La famiglia, la fiducia nel futuro. Forse per l’Old Boy tutto questo rosa è il più grande degli incubi.

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