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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Wolverine / Punisher / Ghost Rider - Cuori di tenebra, recensione: artigli, pallottole e catene infernali

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Allo scoccare degli anni ’90 la scena fumettistica americana è ancora influenzata dall’onda lunga del cosiddetto revisionismo, il movimento che nel decennio precedente aveva rinnovato profondamente il genere supereroistico, lanciando nel firmamento del comicdom, tra le altre, le stelle di Alan Moore e Frank Miller. Opere come Watchmen e Il Ritorno del Cavaliere Oscuro avevano mostrato la definitiva perdita dell’innocenza dei superuomini, diventati ormai il simbolo delle nevrosi di una società occidentale che, da li a poco, avrebbe perso i punti di riferimento tradizionali a causa degli eventi scatenati dalla caduta del Muro di Berlino. Il successo dei lavori di Moore e Miller esercitò una forte influenza su tutto il settore, che sarebbe stato presto dominato da una schiera di anti-eroi, cupi e violenti, capaci di oscurare per un paio di lustri i supereroi classici con l’unica eccezione di Batman, personaggio dalle caratteristiche che ben si adattavano al nuovo filone. E mentre la DC si godeva il successo del Cavaliere Oscuro, trainato delle straordinarie performance al botteghino dei due lungometraggi firmati da Tim Burton, preparandosi contemporaneamente ad uccidere Superman con una memorabile saga-evento, in casa Marvel Capitan America e il resto degli Avengers erano stati surclassati nelle preferenze dei lettori da un terzetto di “duri” che non disdegnavano il ricorso alle maniere forti quando le circostanze lo richiedevano: Wolverine, Punisher e Ghost Rider.

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La grande popolarità di Wolverine era legato a doppio filo allo straordinario successo della saga degli X-Men, di cui l’artigliato canadese era il membro più riconoscibile ed amato. Durante la sua lunga gestione delle vicende mutanti, Chris Claremont ne aveva definito il carattere di eroe solitario ma capace di fare squadra, del duro che sotto la scorza apparentemente impenetrabile nasconde un animo romantico. Altro elemento di grande fascinazione per i lettori era l’assoluto riserbo sul suo misterioso passato, di cui alcuni elementi erano stati solo accennati da Claremont e che, in quei primi anni ’90, cominciava ad essere esplorato dal successore di X-Chris sulla collana personale di Logan, Larry Hama.
Nel frattempo il Punitore, nome con il quale era conosciuto in Italia l’alter-ego di Frank Castle fin dalla sua prima apparizione, si era affrancato dalla condizione di comprimario della testata dell’Uomo Ragno grazie ad un’eccellente miniserie, Circle of Blood, a cui avevano fatto seguito non una ma ben due collane a lui dedicate: Punisher, di Mike Baron, Klaus Janson e, successivamente, Whilce Portacio, e Punisher War Journal, scritta dall’editor Carl Potts, che aveva rivelato il talento esplosivo di un giovane ma già straripante Jim Lee. In anni in cui dominavano gli action-movie interpretati da Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, che si sbarazzavano spesso dei loro avversari ammazzandoli senza tanti complimenti, il Punitore era il tipo di anti-eroe che i lettori bramavano.
Ultimo ma non meno importante, Ghost Rider, che era tornato inaspettatamente al successo nel 1990 dopo anni di oblio. Artefice del rilancio e delle rinnovate fortune del Teschio Fiammeggiante era stato Howard Mackie, artigiano della macchina da scrivere che ben rappresenta la Marvel di quel decennio, in cui scriverà un lungo e importante ciclo di Peter Parker: Spider-Man e testate mutanti come X-Factor e Mutant X. Mackie riprende un personaggio cult della linea horror della Marvel dei ’70, aggiornandolo per i tempi: ne esce fuori un noir urbano dai toni sovrannaturali che diventa un best-seller assoluto di quegli anni, lasciando incredulo lo stesso Mackie. La collana ha come protagonista un nuovo ospite per lo Spirito della Vendetta, il giovane Dan Ketch che sostituisce Johnny Blaze, e ruota intorno al mistero riguardante l’identità del demone che possiede il ragazzo, che non risulta essere più Zarathos, l’entità che infestava Blaze.

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Nel 1991, i tre personaggi sono accomunati da un successo straripante e da un interesse crescente da parte del pubblico, elemento che provoca un aumento esponenziale delle iniziative a loro dedicate: Wolverine comincia ad apparire, oltre che nelle serie degli X-Men e nella sua collana personale, in una miriade di miniserie e one-shot oltre che a collezionare comparsate, tutte adeguatamente reclamizzate, sulle principali testate Marvel; viene varata una terza serie per il Punitore, Punisher War Zone, che si aggiunge alle due già esistenti; a Ghost Rider viene affiancata Spirits of Vengeance, collana che racconta l’alleanza tra il Centauro di fuoco e Johnny Blaze, il precedente ospite dello Spirito della Vendetta che, dopo un’iniziale diffidenza, accompagnerà il nuovo Ghost nelle sue avventure, anche lui ovviamente in sella ad una moto rombante e dotato di un look alla Lorenzo Lamas, divo del piccolo schermo di allora.
Constatata la crescente popolarità dei tre personaggi, nel 1991 la Marvel decise di farli incontrare in uno speciale one-shot, Ghost Rider/Wolverine/Punisher: Hearts Of Darkness, che ottenne un successo di vendite straordinario e che oggi Panini Comics ristampa all’interno della collana Grandi Tesori Marvel, a più di 25 anni dalla prima pubblicazione italiana.
Il team creativo era composto dallo stesso Howard Mackie, lo sceneggiatore demiurgo della testata di Ghost Rider, e da un giovane ma già affermato John Romita Jr ai disegni.

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La storia inizia col ritorno di Cuorenero, il demone figlio di Mefisto, creato da Ann Nocenti e dallo stesso Romita Jr. nella loro splendida run di Daredevil. Eternamente in lotta col padre, che cerca di spodestare dal suo trono, la progenie infernale cerca di assicurarsi la collaborazione di tre guerrieri che non temono di spingersi al limite del lecito quando necessario. A tale scopo, attira nella cittadina di Christ’s Crown, nello stato di New York, Wolverine, Punisher e Ghost Rider, che si ritrovano in un b&b locale nelle loro identità civili di Logan, Frank Castle e Dan Ketch. Gli eroi sono giunti qui dopo aver ricevuto ciascuno una lettera, che promette ai tre ciò che più desiderano a patto di convergere nel piccolo centro di provincia. Durante la notte, Cuorenero si rivela a quelli che spera diventeranno i suoi campioni. A Logan promette di squarciare la nube di mistero che circonda il suo passato, a Dan di rivelargli la verità sull’origine del demone che lo possiede nei panni di Ghost Rider; a Castle promette di riportare in vita la sua famiglia, la cui morte era stata la causa della nascita del Punitore. Con queste offerte, l’erede di Mefisto è convinto di portare i tre anti-eroi dalla sua parte, certo che saranno allettati, oltretutto, dalla possibilità di eliminare l’incarnazione stessa del male. Giusto? Sbagliato. Perché i tre non sono tipi da scendere a compromessi con un demonio come Cuorenero. Il quale, seccato, pensa di scatenare l’Inferno a Christ’s Crown per costringere i tre ad obbedire ai suoi ordini, possedendo la popolazione del paesino e rapendo Lucy, la figlia della proprietaria del bed & breakfast. Abbandonati gli abiti civili, sguainati gli artigli, accese le moto infernali e imbracciate le armi, Wolverine, Ghost Rider e il Punitore affronteranno insieme la minaccia di Cuorenero, salvando la piccola città e la sua popolazione.

La sceneggiatura di Howard Mackie, pur non essendo meritevole di un Eisner o un Harvey Award, è comunque divertente e avvincente come un action movie dell’epoca, tipico prodotto d’evasione di un periodo più semplice della storia del fumetto americano. Ma, soprattutto, è un servizio reso all’arte di un John Romita Jr. scatenato, qui già all’apice della sua carriera. È un momento cruciale per l’artista, che ha raggiunto la maturità stilistica alla fine del decennio precedente con lo strepitoso ciclo di Daredevil scritto da Ann Nocenti citato prima. Stimolato dalla collaborazione con una leggenda del tavolo da disegno come Al Williamson, che si era occupato delle chine delle sue matite, Romita Jr. aveva dato una svolta determinante al suo stile e alla sua carriera: messa da parte l’influenza del celebre padre, con le sue matite morbide e arrotondate, l’artista aveva virato verso un tratto spigoloso e squadrato, che da quel momento in poi diventò il suo marchio di fabbrica. Cuori di tenebra rappresenta il trait d’union tra il Romita Jr. di fine anni ’80 e quello dei primi anni ’90, periodo in cui consegna alla storia quello che è da molti ritenuto il suo lavoro definitivo, Daredevil: Man Without Fear su testi di Frank Miller. Ma quell’artista sublime è già sbocciato sulle pagine di Hearts of Darkness, che è diventato un oggetto di culto soprattutto per la sua prova maiuscola: le sue tavole alternano l’uso di vignette orizzontali o verticali con straordinarie splash-page straripanti di azione e cura per i dettagli. È il periodo in cui furoreggiano i vari Todd McFarlane, Jim Lee e Rob Liefeld, che l’anno successivo lasceranno la Marvel per fondare la Image: Romita Jr. non si sottrae alla vocazione spettacolare del fumetto in voga in quegli anni, ma la sua è una spettacolarità funzionale alla trama, capace di aumentare la carica epica dello script, e mai una banale esibizione muscolare. È nella produzione di questo periodo, tanto in queste pagine come nel precedente Iron Man scritto per lui da John Byrne, che nasce la vocazione di Romita Jr. per uno stile monumentale, di chiara ispirazione kyrbiana, che proseguirà nel corso del decennio con la miniserie dedicata a Cable, col suo ritorno sulle pagine di Uncanny X-Men e, soprattutto, con lo splendido ciclo di Thor su testi di Dan Jurgens. Assolutamente funzionali le chine del veterano Klaus Janson, che ripassano le matite di Romita Jr. donandogli un look sporco e ombroso perfetto per una storia come questa.

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Il volume è completato dalla riproposta di Dark Design, il sequel di Cuori di Tenebra datato 1994. La storia, sempre scritta da Mackie, vede il trio di eroi riunirsi ancora una volta per correre in aiuto di un’ adolescente Lucy, e affrontare Cuorenero in una ormai perduta Christ’s Crown, che è diventata l’Inferno in terra. Fumetto d’azione senza infamia e senza lode, Dark Design si segnala per la buona prova ai disegni di un acerbo ma già capace Ron Garney. L’autore risente della moda “Image” imperante all’epoca, con tavole dominate da un gusto per le pin-up spesso svincolate da una necessità narrativa, ma tra le pagine già si intravedono gli scampoli dell’eccellente artista che sarà.

Panini Comics ripropone Cuori di tenebra e il suo seguito in uno strepitoso volume della collana Grandi Tesori Marvel: il formato “gigante” esalta la già spettacolari tavole di Romita Jr. e Garney, rendendo giustizia soprattutto all’arte sopraffina del primo, artista indimenticabile che è stato sinonimo di “Marvel Style” per più di tre decadi, lasciando il suo segno inconfondibile su tutti i principali personaggi dell’editore. Un’occasione per riscoprire una piccola e sottovalutata gemma di questo grande autore, capace di divertire oggi come ieri tra artigli sguainati, sibili di proiettili e rombi di motori infernali, con buona pace dei “salotti chic” del fumetto.

I maestri del mistero: Il mastino dei Baskerville, recensione: il ritorno di Sherlock Holmes

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Correva l’anno 2009 quando uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo Sherlock Holmes, la prima di due pellicole (per il momento) interpretate da Robert Downey Jr. e Jude Law, che riportò sotto i riflettori il celebre detective creato da Sir Arthur Conan Doyle nel 1887. Il successo del film incoraggiò altri progetti con protagonista l’investigatore più famoso della storia della letteratura gialla, soprattutto in ambito televisivo. Dopo pochi anni videro infatti la luce due serie simili, accomunate dal tentativo di ambientare le avventure di Holmes e Watson ai giorni nostri rendendole plausibili, ma molto diverse per esiti qualitativi: la poco riuscita Elementary e lo Sherlock della BBC che ha rivelato al mondo il talento recitativo di Benedict Cumberbatch. I film per la tv interpretati da quest’ultimo e da Martin Freeman nel ruolo del Dr. Watson hanno adattato in maniera fedele, salvo le ovvie modifiche dovute alle differenti epoche di ambientazione, i romanzi di Conan Doyle, preservandone lo spirito e rendendo il vecchio detective d’epoca vittoriana una star della fiction moderna. Non stupisce quindi il proliferare di iniziative multimediali dedicate all'illustre inquilino di Baker Street, tutte accomunate, come le serie tv appena citate, dalla necessità di restare fedeli al materiale di partenza pur adattandolo al gusto moderno. Ultima arrivata, tra questa serie di progetti, la versione a fumetti di una delle più celebri avventure di Holmes, Il Mastino dei Baskerville, ad opera di Giulio Antonio Gualtieri e Federico Rossi Edrighi, inserita nella collana I maestri del Mistero curata da Roberto Recchioni ed edita dalla Star Comics.

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La storia è ben nota a chiunque abbia letto il romanzo originale: a Dartmoor, nel Devonshire, la popolazione locale è terrorizzata dalle apparizioni di un enorme cane, un mastino il cui arrivo è annunciato da latrati raggelanti. La bestia sarebbe legata da una maledizione ad una famiglia nobile locale, i Baskerville, dannata per sempre a causa della condotta sconsiderata di un suo membro, Sir Hugo, ora deceduto. Quando l’erede diretto alle fortune della famiglia, Sir Charles, muore assassinato in circostanze misteriose, il Professor Mortimer, un amico di famiglia, si reca a Londra per cercare l’aiuto dell’investigatore privato più famoso d’Inghilterra, Sherlock Holmes. Mortimer crede, e a ragione, che il successivo erede nella linea di sangue, Sir Henry, sia in grave pericolo. Holmes invierà nel Devon il suo fidato amico John Watson per proteggere Sir Henry, osservare la situazione e relazionarlo. Il detective risolverà il caso a Londra sulla base delle sue infallibili deduzioni, salvo poi recarsi a Dartmoor, dove qualcuno non è chi dice di essere, per smascherare il colpevole.

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Riuscito adattamento dell’originale di Conan Doyle, Il Mastino dei Baskerville è una lettura piacevole ed avvincente, grazie alle scelte creative di Gualtieri e Rossi Edrighi che oscillano tra classico e moderno. Lo scrittore, pur rifacendosi alla versione classica di Holmes, fissata non solo dai romanzi ma anche dai lungometraggi degli anni ’40 interpretati da Basil Rathbone, riesce a fornirne una versione non paludata e particolarmente fresca, grazie ad una perfetta caratterizzazione del personaggio che passa attraverso i gustosi scambi verbali col Dr. Watson, che non riesce a tenere il passo dei ragionamenti e delle brillanti deduzioni del suo celebre amico, generando così divertenti siparietti. Holmes è ritratto come un campione della ragione, scettico su tutto quello che viene definito “paranormale”: ironia volle che il suo creatore, Sir Conan Doyle, fosse invece un seguace dello spiritismo, tanto da cadere vittima di una truffa ai suoi danni. Uno script appassionante, quello di Gualtieri, che si beve tutto d’un fiato catapultando il lettore immediatamente nell’azione e non appesantendo la fruizione con inutili didascalie.

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Lo stile di Federico Rossi Edrighi è un altro esempio di quella commistione tra classico e moderno di cui si parlava prima: un tratto stilizzato e aguzzo, molto contemporaneo, che contrariamente a quanto si pensi diventa la scelta ideale per illustrare una storia gotica e di fantasmi, grazie alla capacità di creare giochi di ombre col tratteggio. Uno stile minimalista che nasconde belle sorprese, basta pensare alla sequenza in cui Holmes scioglie il mistero rivelando la soluzione del caso, in cui i contorni delle vignette prendono la forma della rete in cui sta cadendo il colpevole. Una soluzione grafica che dimostra inventiva, insieme all’uso efficace delle onomatopee.

Completa il volume un ottimo apparato redazionale, curato dagli stessi Recchioni e Gualtieri con l’apporto di Kevin Scauri e Michele Monteleone, che analizza con competenza l’opera di Conan Doyle e il rapporto travagliato con la sua creazione più celebre: come bonus, un gustoso elenco dei “mastini infernali” che hanno infestato la Gran Bretagna nella sua storia secolare. Tutti buoni motivi che, uniti ad una piacevolissima veste editoriale da cartonato soft-touch, rendono consigliabile l’acquisto del volume.

Black Hammer 2, recensione: Il tempo perduto e ritrovato di Jeff Lemire

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“Quando mi guardo indietro ora
Quell’estate sembrava durare per sempre
E se avessi potuto scegliere
Si, avrei sempre voluto essere là
Quelli erano i giorni più belli della mia vita”

(Bryan Adams, Summer of ’69)

Vi capita mai, in questi tempi così incerti, di provare malinconia per il passato? Un passato che appare dorato e privo di imperfezioni, soprattutto se confrontato con un presente ritenuto largamente insoddisfacente, in confronto ai sogni e alle speranze di gioventù? Non fatevi illusioni: se siete persone dotate di questa sensibilità, siete fuori dal tempo come le audiocassette TDK. Nostalgicamente e orgogliosamente analogici in un mondo digitalizzato. Però potete consolarvi pensando ad una cosa: Jeff Lemire è sicuramente uno di voi. Abbiamo aperto questa recensione con la canzone di un compatriota di Lemire, il canadese Bryan Adams, che ci sembrava tematicamente ed emotivamente affine alla produzione dell’autore di Sweet Tooth e Descender. Lo stesso lirismo malinconico che permea opere come Essex County e Niente da perdere. Ma Jeff Lemire è uno di noi anche e soprattutto per un altro motivo: ama profondamente i supereroi. Una passione che lo ha portato a collaborare con le Big Two del settore, Marvel e DC, ma anche con la piccola Valiant, per la quale ha scritto una notevole sequenza di storie di Bloodshot. Finché la predilezione per gli eroi in costume lo ha portato a creare la propria serie a sfondo supereroistico, Black Hammer, di cui Bao Publishing ha da poco pubblicato il secondo volume.

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Ritroviamo il vecchio Abe e la sua strana “famiglia” esattamente dove li avevamo lasciati, alle prese con  la vita di tutti i giorni a Rockwood, il paesino di provincia dove si sono materializzati dieci anni prima, dopo aver sconfitto il malvagio Anti-Dio e aver salvato Spiral City. Si, perché in realtà Abe è Abraham Slam, flagello dei criminali e primo eroe della città, e la sua famiglia è costituita dagli altri eroi scomparsi sotto mentite spoglie: Golden Gail, nelle cui sembianze di adolescente dotata di superforza e volo è bloccata in realtà una donna ormai matura; il marziano Barbalien, l’esploratore Colonnello Weird e il suo robot, Talky Walky, la misteriosa maga Madame Dragonfly. Manca all’appello solo Black Hammer, il più grande campione della città, la cui scomparsa è avvolta nel mistero. Gli eroi avevano scoperto ben presto di non poter fuggire dalla contea, avvolta da una cupola di energia impossibile da superare. Per non sconvolgere la vita tranquilla di Rockwood con la loro presenza, non avevano avuto altra scelta che appendere al chiodo i loro costumi e mescolarsi agli abitanti della cittadina. Così dieci anni erano trascorsi in un battito di ciglia, anni in cui Abe, stanco della vita da supereroe, si era adattato benissimo alla sua nuova esistenza trovando anche l’amore. Agli altri, però, non era andata così bene a partire da Gail, frustrata per il fatto di dover recitare la parte di una ragazzina pur avendo le necessità di una donna matura. Il volume precedente si era chiuso con l’arrivo inaspettato di Lucy, la figlia di Black Hammer, alla fattoria che ospita la “famiglia disfunzionale”. La ragazza era riuscita a seguire la traccia energetica lasciata a Spiral City dopo la scomparsa degli eroi, riuscendo ad arrivare a Rockwood in cerca del padre. Al vecchio Abe non resta che raccontare alla ragazza la verità: Black Hammer era morto subito dopo che il gruppo si era materializzato davanti la fattoria che sarebbe diventata la loro casa, lanciandosi in volo e infrangendosi contro la misteriosa cupola di energia. Una tragedia che aveva ricondotto a più miti consigli il resto del gruppo, subito rassegnatosi circa le possibilità di poter tornare a casa. Ma Lucy non demorde e, da giornalista d’inchiesta quale è, decide di indagare sulla strana natura del luogo che li ospita. Nel frattempo, la vita rurale e provinciale di Abe e degli altri membri della “famiglia” prosegue, tra la frustrazione per l’impossibilità di adattarsi ad un posto che si odia, come nel caso di Gail, e il ricordo della vita che fu, mostrata da una serie di flashbacks che spezzano la narrazione principale.

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Black Hammer è stata subito inserita fin dal suo apparire nel filone del fumetto “decostruzionista”, e non a torto: Lemire ci mostra tutta la disillusione e il disincanto di eroi che dovrebbero incarnare il “sogno” per eccellenza, ponendosi sulla scia di classici del genere come Miracleman e Watchmen di Alan Moore. Campioni dell’umanità che dovrebbero guadagnarsi la fiducia della gente, quando neanche loro credono più in se stessi. Allo stesso modo, la serie si può inserire a ragione anche nel filone metatestuale, in cui il fumetto ragiona su se stesso, accanto ad opere come il Supreme dello stesso Moore e buona parte della produzione di Grant Morrison. Eppure, per quanto sia divertente spulciare le pagine di Black Hammer per trovare e catalogare tutte gli innumerevoli omaggi, citazioni e riferimenti a decenni di fumetto supereroistico inseriti da Lemire, non ci sembra questa un’operazione capace di cogliere pienamente il senso profondo dell’opera. Cosa ci raccontano le somiglianze tra Abraham Slam e Capitan America, con una spruzzata del Wildcat della Justice Society of America? O l’origine di Black Hammer, che affonda nella sintesi tra due diverse mitologie create dal “Re” Kirby, quella asgardiana del Thor della Marvel e la Saga del Quarto Mondo realizzata per la DC, con la sua corte di Nuovi Dei perennemente in lotta contro il tiranno Darkseid, modello di riferimento, insieme a Galactus, per il terribile Anti-Dio? Cosa ci suggerisce l’ombra di Shazam, il Capitan Marvel originale, nascosta dietro alla tormentata figura di Golden Gail? Il marziano Barbalien, simulacro più malinconico del Martian Manhunter della DC, o il Colonnello Weird, parente stretto di Adam Strange? Per non parlare della tradizione dei fumetti horror della EC Comics che si nasconde dietro le lugubri sembianze di Madame Dragonfly. Tutto questo ci dice che Jeff Lemire ha riavvolto il nastro della sua memoria di lettore, avviluppandoci tutti in un limbo fatto di ricordi di ore di letture giovanili. Possiamo avere sembianze da adulti, ormai, e condurre vite più o meno soddisfacenti, ma dentro siamo ancora i ragazzi che correvano a casa con un numero degli X-Men per divorarlo, avvitati nel nostro vacuum personale di ricordi che non ci lasciano mai, mentre la vita scorre. Un limbo come quello che imprigiona Abe e i suoi compagni, più o meno rassegnati ad una vita dove le giornate scorrono tutte uguali, mentre dentro vengono consumati dall’eco della gloria che fu. È questo il miracolo che Jeff Lemire compie con Black Hammer: scardinare lo scrigno dei ricordi per riconsegnarne il contenuto ai lettori, offrire la sua personale “Madeleine”, come un novello Proust, per restituire alla luce il tempo perduto ed ora ritrovato delle nostre antiche letture in tutta la sua struggente e malinconica bellezza.

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Nonostante i livelli di lettura che le sue opere sono capaci di offrire, Lemire resta un autore fieramente popolare, tanto da potersi permettere un gustoso omaggio a Dan Jurgens e alla sua iconica copertina realizzata per La Morte di Superman, nonché al sempre deriso e sbeffeggiato Rob Liefeld, col quale condivide un amore sincero e fanciullesco verso il fumetto di supereroi, per quanto declinato in maniera più dozzinale dall’autore di Youngblood.

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La riuscita di Black Hammer non potrebbe dirsi completa senza l’apporto di Dean Ormston, che firma le matite anche in questo secondo volume. Autore di scuola “Vertigo” che non aveva mai lavorato prima ad una serie supereroistica pura, Ormston dona alle sue tavole una sensibilità tipicamente indie con uno stile volutamente dimesso, riuscendo a catturare alla perfezione i sentimenti di malinconia e rimpianto che permeano l’opera. Un vero commento per immagini alla sceneggiatura ispirata di Lemire, intervallato solo dalla presenza come guest-star di David Rubín nell’episodio dedicato al Colonnello Weird. Il tratto cartoonistico di Rubín spezza con efficacia l’unità stilistica dell’opera, in una sequenza ambientata nel passato che vuole celebrare l’ingenuità della science-fiction della Silver Age. Da non dimenticare l’apporto prezioso della palette cromatica di Dave Stewart, che oscilla tra i colori spenti del presente rurale e i toni accesi e vivaci di un passato glorioso e sfolgorante.

Bao Publishing prosegue con successo il suo rapporto privilegiato con Jeff Lemire, di cui ha portato in Italia alcuni dei lavori più significativi, proponendo Black Hammer in una serie di pregevoli volumi cartonati che non possono mancare nella libreria di ogni appassionato.

Seven to Eternity 1: Il Dio dei Sussurri, recensione: un fantasy dai toni shakespeariani

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C’era una volta il pianeta Zhal, un mondo fantastico illuminato dalla magia e protetto dai Cavalieri Mosak, un ordine di guerrieri dotati di straordinari poteri che li connettono al piano spirituale. La vita scorreva tranquilla e le diverse razze vivevano in pace e prosperità fino all’arrivo dell’autoproclamatosi Dio dei Sussurri, un essere dagli incredibili poteri. Costui un tempo era il Cavaliere Mosak di nome Garlis Sulm e il suo dono era quello di accedere ai sensi degli altri uomini, riuscendo a vedere e a sentire tutto quello che questi vedevano o sentivano. Ma l’animo di Garlis era tenebroso e covava desideri di conquista, così cedette al suo “lato oscuro” e usò il suo potere per lusingare il prossimo con promesse e offerte, col risultato che ben presto quasi tutta la popolazione di Zhal gli offrì la sua anima per avere ricompense e benefici. Gli occhi e le orecchie del Dio dei Sussurri erano ormai dovunque, mentre intere città e villaggi venivano sedotti dalle proprie subdole lusinghe. Gli animi degli uomini vennero corrotti e diffamazione e delazione divennero pratiche comuni per colpire coloro che non si sottomettevano all’oscuro signore. Un solo uomo non volle mai ascoltare le offerte del dittatore: Zebediah Osidis.

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Anche il vecchio Zeb era stato un Cavaliere Mosak da giovane e aveva conosciuto Garlis Sulm. Quando quest’ultimo cominciò a corrompere e a compromettere l’ordine, Zeb lo denunciò ma nessuno gli credette, perché l’influenza del malvagio era troppo forte. Garlis tentò di infettare anche l’anima di Zeb con le sue offerte ma non ci riuscì: troppo forte l’integrità morale del patriarca della casata Osidis, convinto che il degrado di ogni principio inizi con un singolo compromesso. Un furibondo Dio dei Sussurri, adirato per il rifiuto di Zeb, ne calunniò il nome e la rispettabilità, causando l’esilio del Cavaliere e della sua famiglia. Il Clan Osidis si ritirò per vivere ai margini della civiltà, sulle montagne sacre che avevano ospitato gli antichi spiriti. Una vita dura e piena di stenti, durante la quale Zeb e la moglie avevano dovuto provvedere ai due figli, i piccoli Adam e Peter, quest’ultimo gravemente malato. La ferma volontà di Zeb di non venire meno ai propri principi morali non vacillò neanche di fronte alla malattia di Peter: quando quest’ultimo morì, Adam cominciò a covare del risentimento nei confronti del padre per la vita difficile a cui aveva condannato la sua famiglia, pur ammirandone l’integrità. “Mai ascoltare le offerte del Re di Fango”, il mantra ripetuto da Zeb al figlio per tutta la vita. Gli anni passano e anche Zeb muore, ucciso dagli emissari di Garlis. Ora spetta ad Adam guidare la sua famiglia, ma soprattutto affrontare un dilemma morale: continuare sullo strada del padre, improntata allo stoicismo, o ascoltare ed eventualmente accettare le offerte del Dio dei Sussurri per proteggere la sua famiglia, ristabilire il buon nome della sua casata e farsi guarire dalla malattia che lo sta lentamente uccidendo?

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Seven To Eternity è la nuova serie creator-owned di Rick Remender, sceneggiatore tra i più prolifici del settore con altre brillanti serie di sua creazione come Deadly Class, Low, Tokyo Ghost e Black Science. Nonostante l’elevata qualità dei progetti precedenti, è proprio quest’ultima serie, illustrata dal fido Jerome Opeña, a rappresentare la summa del lavoro di Remender: la capacità di creare mondi fantastici e una mitologia propria, il gusto per il racconto, la naturalezza nel focalizzarsi sui sentimenti e sulla psicologia dei personaggi, evitando la tentazione di una metatestualità che possa appesantire e distogliere l'attenzione del lettore dalla narrazione. Una predisposizione già messa in evidenza durante gli anni in Marvel con serie straordinarie come Uncanny Avengers, e, soprattutto, quell’ Uncanny X-Force che ha rappresentato l’ultimo, grande tassello dell’epopea mutante prima del declino attuale, con una sarabanda di amori, tradimenti, e colpi di scena che hanno certificato la destrezza del Remender narratore, incoronandolo come unico possibile erede dell’indimenticabile Chris Claremont.

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In Seven To Eternity ritroviamo tutti gli elementi tipici dello scrittore, tra rimandi e citazioni ad altre saghe chiave della cultura pop come Star Wars e Lord of the Rings, che si saldano però a riflessioni importanti sulla natura umana. È giusto evitare ogni tipo di compromesso, elemento fondante della società fin dall’alba dei tempi, quando non c’è altro modo di salvare la propria famiglia? E se si sceglie di scendere a compromessi, quale prezzo si paga? Come restare integri in tempo di guerra? A cosa può portare il potere assoluto, se non si ha il rigore per gestirlo? Non mancano anche metafore della situazione sociale del mondo reale, quando la guerriera Mosaico racconta l’ascesa al potere di Garlis Sulm e di come la colpa della crisi che ne derivò venne attribuita alle minoranze e agli stranieri. Un passaggio che fa riflettere, soprattutto in tempi socialmente e politicamente convulsi come i nostri. Questi sono i temi alti al centro di Seven to Eternity, uniti ad una prosa assolutamente avvincente.

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All’eccellente risultato finale partecipano senza dubbio anche le tavole mozzafiato di Jerome Opeña, collaboratore storico di Remender fin dai tempi di Fear Agent e della succitata Uncanny X-Force. Le illustrazioni del disegnatore filippino rappresentano la perfetta sintesi tra il dimanismo tipico del fumetto a stelle e strisce e l’autorialità del fumetto europeo, approdo naturale della sua ricerca stilistica. È impossibile non cogliere l’influenza di Moebius nella rappresentazione del mondo incantato di Zhal, anche se l’abilità esibita nell’uso del tratteggio per levigare corpi e volti rivela l’attenzione con la quale Opeña ha studiato l’opera del nostro grande e indimenticato Sergio Toppi. I disegni dell’artista si fondono alla perfezione con le brillanti scelte cromatiche del colorista Matt Holligsworth, abile nel blandire la pupilla del lettore con i colori accesi e vivaci con i quali raffigura gli spiriti e gli elementi magici.

Seven to Eternity viene proposto da Panini Comics nel consueto formato 100% HD da cartonato soft-touch, scelta vincente per una serie che, ne siamo certi, si avvia a diventare un classico moderno.

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