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Luca Tomassini

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Batman: Bruce Wayne Fuggitivo, recensione: il ritorno della bat-saga di inizio millennio

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Tra tutti i personaggi iconici del fumetto americano, Batman è per consuetudine quello che viene rappresentato meglio in progetti speciali fuori serie che nelle proprie collane regolari. Tradizione iniziata negli irripetibili anni ’80, dove le interpretazioni del Cavaliere Oscuro fornita da grandi autori come Frank Miller e Alan Moore rispettivamente in The Dark Knight Returns e in The Killing Joke hanno contribuito a fornire una visione definitiva del personaggio molto più di quanto facessero contemporaneamente le sue collane regolari, Batman e Detective Comics. È solo tra la fine degli anni ’90, con eventi come No Man’s Land e la prima decade degli anni duemila, con l’arrivo di superstar come Jim Lee e Grant Morrison, che le testate regolari del Pipistrello vengono rilanciate in maniera convinta della DC Comics, tornando ad occupare il posto che gli spetta nelle classifiche di vendita.

Tra queste due fasi ne esiste una creativamente molto interessante, inaugurata durante il cambio di secolo, in cui le redini di Batman e Detective Comics vennero affidate a due giovani sceneggiatori provenienti dal florido panorama indie statunitense: Ed Brubaker e Greg Rucka. Due autori specializzati in atmosfere noir e urbane alla loro prima esperienza con un personaggio iconico, il primo squillo di una carriera che li vedrà diventare due figure chiave del fumetto a stelle e strisce del nuovo millennio. Brubaker era noto per una serie crime noir che aveva avuto ottime recensioni, Scene of the Crime, pubblicata dalla Vertigo, la celebre etichetta della DC dedicata ad un pubblico maturo; Rucka aveva addirittura vinto un Eisner Award con Whiteout, un poliziesco ambientato tra i ghiacci dell’Antartide disegnato da Steve Lieber, artista che lo accompagnerà durante la sua esperienza su Detective Comics. I due autori portarono nelle due collane storiche dedicate all’uomo pipistrello la propria abilità nel costruire trame thriller e poliziesche avvincenti, un tratto specifico della loro scrittura che verrà sublimato di li a breve dal capolavoro Gotham Central, scritto a quattro mani da entrambi. Bruce Wayne Assassino/Fuggitivo è la saga dove i due, nell’anno duemila, iniettano nelle storie di Batman il loro gusto per le trame investigative riportando il personaggio alle sue origini noir, che viene riproposta oggi da Panini Comics in tre volumi cartonati.

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Fuggitivo prende le mosse, senza soluzione di continuità, da quanto visto in Assassino: Vesper Fairchild, la fidanzata di Bruce Wayne, viene ritrovata senza vita all’interno di Villa Wayne. Tutti gli indizi di colpevolezza sembrano portare direttamente a Bruce il quale, una volta arrestato, evade dalla prigione di Gotham per poter condurre una propria indagine nei panni di Batman. Non mancherà ovviamente il supporto di una preoccupatissima Bat-Family, da Robin a Nightwing passando per Batgirl (versione Cassandra Cain) e la Birds of Prey capitanate dalla carismatica Oracle – Barbara Gordon, tutti determinati ad aiutare un Batman sempre più in difficoltà per il complotto ordito ai suoi danni.

Riletto a più di vent’anni di distanza, Bruce Wayne Fuggitivo presenta pregi e difetti di tutte le saghe che si sviluppano come un cross-over tra le tante serie di una famiglia di testate, in questo caso l’intero parco collane dell’epoca dedicato a Batman e ai suoi alleati. La conseguenza principale è la qualità altalenante dell’intera operazione, che alterna capitoli di pregevolissima fattura ad altri passaggi assolutamente dimenticabili. Le storie tratte da Detective Comics scritte da Rucka e quelle di Batman sceneggiate da Brubaker sono inevitabilmente quelli che si guadagnano la luce dei riflettori, vuoi per la centralità nell’economia generale della saga, vuoi per un nuovo metodo di scrittura che si stava affermando all’epoca, che guardava ad altri media come cinema e tv, di cui i due scrittori, insieme a colleghi illustri come Brian Micheal Bendis, sarebbero stati gli alfieri. Ecco quindi che i numeri di Robin, Nightwing, Birds of Prey e le altre serie dell’universo batmaniano presenti nel volume perdano il confronto con le due collane principali e appaiano oggi di scarso interesse. Nonostante l’apporto di ottimi professionisti come, tra gli altri, Chuck Dixon ai testi e Rick Leonardi e un debuttante Phil Noto ai disegni, si tratta di un modo datato di fare fumetto, basato più sull’azione che su una forte caratterizzazione dei personaggi. Al contrario, la scrittura di Brubaker e Rucka gioca proprio su un approfondimento psicologico di Batman e soci che ai tempi era piuttosto inedita, si pensi alla scena madre tra Batman e Nightwing nella Batcaverna nel primo episodio.

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I limiti si avvertono soprattutto nei capitoli in cui il comparto grafico è affidato a modesti artigiani del tavolo da disegno come Trevor McCarthy, Roger Robinson e Will Rosado che oggi faticherebbero a trovare spazio in una collana di prima fascia. Le luci della ribalta artistica vengono catturate soprattutto da Scott McDaniel, disegnatore all’epoca molto contestato per l’interpretazione estrema di Daredevil da lui fornita in un ciclo di metà anni ’90 influenzato dalla moda “Image” dell’epoca. Passato alla DC Comics, è proprio su Nightwing prima e su Batman poi che trova il suo posto al sole. Il tratto nervoso e spigoloso, la predilezione per le atmosfere notturne e per il chiaroscuro lo resero il disegnatore ideale per la collana. Le sue tavole, attraversate da spettacolari splash-page, gli fecero guadagnare l’apprezzamento dei lettori al netto di un tratto non particolarmente aggraziato. Se si pensa che il suo successore sulla collana sarebbe stato la star Jim Lee con la saga blockbuster Hush, si capisce come l’apporto di McDaniel a Batman sia stato in seguito largamente dimenticato.

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Rileggere oggi Bruce Wayne Fuggitivo è l’occasione per riscoprire un artista sottovalutato, e per riconsiderare questi primi passi di Brubaker e Rucka nel fumetto mainstream col senno del poi. Nel giro di pochi anni, infatti i due si sarebbero trasferiti alla corte di Bill Jemas e Joe Quesada, i demiurghi della nuova Marvel di inizio millennio e avrebbero inanellato una notevole serie di successi. Ed Brubaker, soprattutto, avrebbe dato vita ad un ciclo di Captain America epocale durato nove anni che avrebbe ridefinito il personaggio riportando in scena clamorosamente il personaggio di Bucky Barnes, trasformato in The Winter Soldier.
Panini Comics pubblica Batman: Bruce Wayne Fuggitivo in un pregevole cartonato della linea DC Evergreen, suggerito a chi voglia scoprire o riscoprire le storie che avrebbero lanciato le carriere di due futuri protagonisti del fumetto a stelle e strisce.

Patrick Zaki, una storia egiziana, recensione: una storia di lotta per la libertà

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Il 7 febbraio 2020 Patrick Zaki, studente di nazionalità egiziana ospite dell’università di Bologna dove frequenta un master sulla parità di genere, viene fermato all’Aeroporto Internazionale del Cairo dalle autorità locali che gli contestano capi di accusa gravissimi come tra cui minaccia alla sicurezza nazionale, sovversione e propaganda per il terrorismo. L’attenzione internazionale sull’Egitto, governato con pugno di ferro dal regime di Abdel Fattah el-Sisi, è alta dopo la vicenda dell’italiano Giulio Regeni, morto in circostanze ancora avvolte nel mistero. La scomparsa di Zaki non passa quindi inosservata e viene subito denunciata dagli attivisti per i diritti umani. Ne scaturisce una mobilitazione internazionale, che vede il nostro paese in prima fila, per sostenere l’innocenza di Zaki e chiederne la scarcerazione.

La storia del giovane attivista e del suo calvario giudiziario, peraltro non ancora terminato, rivive in Patrick Zaki – Una storia egiziana, ottimo esempio di graphic journalism realizzato da Laura Cappon e Gianluca Costantini per Feltrinelli Comics. La prima è una giornalista che ha lavorato per alcune delle testate giornalistiche e televisive più prestigiose, ed è un’esperta di vicende egiziane. Il secondo è un artista attivista che combatte le sue battaglie per i diritti e per la democrazia attraverso il disegno. È sua l’immagine iconica di Zaki, realizzata dopo la cattura del ragazzo, che ha fatto il giro del mondo e che ha accompagnato la mobilitazione di massa per la sua liberazione.

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Il libro ci racconta la storia di Zaki fin dalla propria infanzia, mostrando momenti della sua vita sconosciuti ai più. Dalla fanciullezza a Mansoura, in una famiglia appartenente alla minoranza cristiana copta, fino agli anni giovanili spesi nella battaglia per i diritti civili nelle fila dell’ONG egiziana EIPR, la Egyptian Initiative for Personal Rights. Sullo sfondo, l’arrivo della “primavera araba” che provoca il crollo del regime di Hosni Mubarak portando il paese a libere elezioni, vinte dal movimento dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi che non riesce però a gestire la transizione verso la democrazia. Si verifica così un colpo di stato che porta al potere il generale el-Sisi, che instaura un governo autoritario e repressivo peggiore dei precedenti. Patrick, insieme agli altri attivisti dell’EIPR, è sempre in prima fila per la richiesta di una maggiore democrazia e il suo impegno lo mette inevitabilmente nel mirino del regime. Agli occhi delle autorità egiziane è una colpa anche recarsi a studiare all’estero, cosa che il giovane fa scegliendo di frequentare un master sulla parità di genere all’Università di Bologna. È proprio al rientro in Egitto, dove si reca per una breve visita alla famiglia che Patrick viene arrestato dando così il via ad un caso giudiziario le cui conseguenze sono ancora lungi dall’essersi esaurite.
La prima accusa che viene mossa a Zaki è quella di aver scritto alcuni post compromettenti su Facebook, ma è talmente flebile che viene sostituita da quella di aver scritto un articolo sulla minoranza copta in Egitto. Un vero e proprio reato di opinione che chiarisce subito al lettore il clima di oppressione che si respira in una dittatura.

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La vicenda processuale, farsesca e tragica allo stesso tempo, ci viene raccontata con taglio giornalistico, appassionato e mai freddo, dalla coppia di autori. I due sono stati tra i primi ad essere avvertiti della scomparsa di un giovane attivista in Egitto, e riversano su carta l’ansia di quelle prime ore febbrili, e tutta la tensione emotiva che ha accompagnato la vicenda giudiziaria di Zaki, che non si è ancora conclusa nonostante la sua scarcerazione. La sceneggiatura rigorosa della Cappon tiene le fila cronologica della successione di eventi che hanno caratterizzato il calvario del ragazzo, facendo sfilare tutte le numerose personalità politiche, i giornalisti e gli attivisti che si sono occupati del caso. Non si tratta solo di una mera cronaca dei fatti, ma di un racconto avvincente che trasmette al lettore la consapevolezza di quanto i propri diritti e le proprie libertà ritenute giustamente inalienabili possano essere messe in discussione dall’avvento di una dittatura.

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Lo storytelling lineare e pulito di Costantini conferisce forza e vigore ai testi della giornalista, con una organizzazione della tavola classica ma di notevole suggestione e impatto, che riesce a ricreare tutte le tappe della tribolazione di Zaki. Ci troviamo di fronte quindi a un lavoro di qualità e di notevole importanza, soprattutto in questi tempi in cui la libertà individuale è a rischio in molte zone del mondo, che va ad arricchire il catalogo della Feltrinelli Comics sempre attenta ad unire intrattenimento e impegno civile.

U.S. Agent - Il Fanatico Americano, recensione: il ritorno di John Walker

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Il ciclo decennale (1985-1995) di Captain America scritto dal compianto Mark Gruenwald, scrittore, editor e anima della redazione Marvel dalla fine degli anni ’70 fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 1996 per un attacco cardiaco, è ricordato come uno dei più rappresentativi mai dedicati al personaggio. Il momento più iconico di questa classica run, quello per cui viene più spesso ricordata, è la sequenza in cui Steve Rogers è costretto ad abbandonare l’identità di Capitan America a causa di un contrasto con una commissione governativa che reclama il costume come una sua proprietà, citando una clausola che risaliva alla Seconda Guerra Mondiale, e il diritto di condizionare le attività dell’eroe a prescindere dall’individuo sotto la maschera. Condizioni inaccettabili per Rogers, convinto che la figura di Capitan America debba incarnare le aspirazioni e gli ideali espressi dal Sogno Americano, e che lo spingono a rassegnare le proprie dimissioni. La commissione troverà il sostituto di Rogers in John Walker, suo avversario col nome di Super Patriota, che in passato aveva condotto una campagna mirata a delegittimare Capitan America, da lui giudicato un attrezzo del passato ormai inadeguato a rappresentare gli ideali americani.

Walker indossa così l’iconico costume della Leggenda Vivente, mentre un Rogers spogliato della bandiera, ma non della voglia di combattere, prosegue la sua attività nei panni del “Capitano”, una variante della classica divisa di Capitan America di colore scuro. Dopo varie vicissitudini, verrà rivelato che la mente criminale che pilota le attività della Commissione non è altri che quella del Teschio Rosso, la nemesi per eccellenza di Cap. Nell’epilogo della saga i due “Capitani”, dopo un inevitabile scontro che porta però ad un chiarimento tra i due, collaborano per sconfiggere il Teschio. Rogers torna così ad indossare i panni di Capitan America, mentre Walker ripiega sulla divisa de “Il Capitano” assumendo il nome di U.S. Agent e iniziando una carriera di super-eroe governativo, non apprezzato particolarmente dai colleghi per la sua ottusità e perché simbolo dell’ingerenza dello Stato nelle loro attività. A tal proposito si ricordano le divertenti pagine di West Coast Avengers in cui John Byrne inserì U.S. Agent nelle fila della divisione californiana dei Vendicatori, tra lo sconcerto di Occhio di Falco e soci. Walker riuscirà invece a guadagnarsi il rispetto dei compagni, diventando un pilastro del gruppo.

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Il personaggio non ha mai avuto però molte occasioni per brillare in proprio, se si escludono due vecchie miniserie uscite tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. Così, in concomitanza col suo debutto televisivo nella serie tv The Falcon & the Winter Soldier, la Marvel ha annunciato il ritorno di U.S. Agent in una nuova mini scritta dal veterano Cristopher Priest per i disegni di Georges Jeanty. Priest è noto per aver supervisionato e scritto alcune delle migliori storie noir dell’Uomo Ragno nel periodo in cui indossava il costume nero (con lo pseudonimo di Jim Owsley), a metà degli anni ’80, e per aver rilanciato Pantera Nera per la linea Marvel Knights a cavallo degli anni 2000. I suoi lavori sono spesso caratterizzati da un occhio rivolto alle tematiche politiche e sociali, motivo per il quale la scelta di abbinarlo ad un personaggio controverso come U.S. Agent sembrava azzeccata. Come vedremo, però, non tutte le ciambelle sono riuscite con il buco.

La vicenda raccontata in Fanatico Americano prende il via in una piccola comunità del sud rurale degli Stati Uniti, dove la popolazione sta insorgendo contro la sede di una multinazionale della logistica, la Vertigo. L’azienda è in realtà una copertura dello S.H.I.E.L.D., e nasconde una misteriosa risorsa militare. Ad investigare su quello che sta accadendo viene inviato John Walker che, pur avendo conservato l’uniforme, ha perso il titolo e lo scudo di U.S. Agent a causa di un pasticcio combinato in un precedente incarico. Ora è un contractor indipendente, di cui il governo si serve per compiere missioni non ufficiali, ma la sua assegnazione al caso Vertigo nasce solamente dalla vendetta di un piccolo burocrate statale nei confronti di Val Cooper, il “boss” storico di Walker che di lui non vuole più sentir parlare. U.S. Agent si recherà quindi nella profonda provincia americana, tra una popolazione con cui sembra condividere una propria visione di cosa sia l’America. Non mancheranno ovviamente sorprese, a partire dalla scoperta della vera natura della Vertigo, oltre ad una rivelazione che riguarderà gli affetti familiari dello stesso Walker.

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U.S. Agent – Il Fanatico Americano parte da un buon presupposto, quello di usare il personaggio di John Walker per rappresentare la sensibilità dell’America profonda e rurale, quella che si è fatta convincere dalla retorica dell’ “America First” di Donald Trump. Se Steve Rogers incarna gli ideali più “liberal” del Sogno Americano, Walker è il suo contraltare a destra, un ultraconservatore che riflette gli umori dell’uomo della strada. Se Rogers è un puro, un idealista, Walker è un cinico pragmatico che non esita ad utilizzare la forza quando serve. Priest vorrebbe costruire intorno al personaggio una satira sociale che prenda di mira l’attualità politica degli Stati Uniti, ma il progetto riesce solo in parte e, nonostante una buona partenza, lo svolgimento risulta alquanto deficitario e non va oltre la dichiarazione d’intenti iniziale. L’analisi sociologica condotta dall’autore è superficiale e non incide, rendendo banale e convenzionale il ritratto di un’America di provincia che non va oltre il registro della parodia.

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Non fornisce un contributo all’esito finale dell’opera neanche l’apporto poco ispirato di Georges Jeanty, onesto faticatore del tavolo da disegno che dopo due decadi di carriera non si è mai affrancato dal ruolo di modesto mestierante della matita. Un disegnatore raramente associato a progetti d’alto profilo, dallo stile rigido e legnoso che non arricchisce in alcun modo la messa in scena dello script di Priest. Lo storytelling e l’organizzazione delle tavole di Jeanty è statico e ordinario e contribuisce a non innalzare il livello di Fanatico Americano oltre la soglia della sufficienza. Ed è un vero peccato, perché pochi personaggi come il controverso U.S. Agent si presterebbero ad incarnare una fase politica e sociale americana tanto convulsa come quella attuale. Ci sarà bisogno sicuramente di progetti di più alto profilo per rivedere il buon John Walker al massimo delle sue potenzialità.
Segnaliamo, in chiusura, le splendide cover realizzate dal nostro Marco Checchetto che valgono, da sole, un motivo per l’acquisto del volume.

American Ronin 1 - Incubus, recensione: il killer empatico di Milligan e ACO

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Proseguono le proposte Panini Comics targate AWA Studios, la nuova realtà editoriale creata da vecchie conoscenze dei fumetti Marvel come Bill Jemas e Axel Alonso, rispettivamente ex presidente ed ex redattore capo della Casa delle Idee. I due sono riusciti a coinvolgere nel loro progetto editoriale alcuni tra i nomi più prestigiosi del comicdom, da J. Micheal Straczynski a Mike Deodato Jr., che hanno dato il via al progetto con la serie The Resistance, passando per Garth Ennis e Frank Cho. Tra questi ci sono anche il veterano sceneggiatore britannico Peter Milligan e l’artista spagnolo ACO, autori di American Ronin, l’ultima delle collana AWA portate da Panini nel nostro paese.

Milligan è un autore che non ha certo bisogno di presentazioni, facendo parte di quella “British Invasion”, insieme a Grant Morrison, Neil Gaiman e Garth Ennis, che dalla seconda metà degli anni ’80 travolse il fumetto statunitense cambiandolo per sempre. Con opere come Shade The Changing Man, Enigma e X-Statix lo scrittore londinese ha lasciato un solco profondo nel comicdom americano, combinando innovazione e intrattenimento. American Ronin non ha lo stesso impatto rivoluzionario delle opere sopra citate ed è attraversato da un innegabile senso di déjà vu. Ciò nonostante, Milligan ha saputo imbastire un avvincente thriller spionistico.

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In un futuro prossimo che assomiglia tanto al nostro presente, il mondo è dominato da multinazionali come la Lincoln’s Eye, che decide le politiche delle maggiori potenze mondiali. La Lincoln è una corporazione che non si limita ad esercitare la sua influenza sui governi nazionali, ma che non esita a commettere azioni coercitive spesso letali servendosi di agenti potenziati. Si tratti di individui modificati geneticamente, che riescono ad entrare nella mente degli avversari assorbendone il materiale biologico. In questo modo, “entrano” letteralmente nella testa del nemico sfruttandone le debolezze. Uno di loro, auto-nominatosi “Ronin”, si ribella e cerca vendetta contro la Lincoln’s Eye per quello che gli è stato fatto. Tra il Ronin e la multinazionale esplode dunque una guerra senza quartiere che raggiunge il suo apice in Italia, a Roma, dove la Lincoln ha inviato alcuni dei suoi agenti più pericolosi per indirizzare le politiche del governo italiano.

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La lettura di American Ronin potrebbe provocare nel lettore avvezzo a tematiche di spionaggio e cyberpunk la sensazione di qualcosa di già visto, come dicevamo sopra. In effetti, letteratura di genere, cinema e fumetti negli ultimi trent’anni hanno declinato tematiche simili in ogni modo possibile e immaginabile. Se lo spunto di partenza non appare particolarmente ispirato ed originale, è nel suo svolgimento che si svela, per l’ennesima volta, tutto il mestiere di narratore di Peter Milligan. La trovata sulla quale è costruita la vicenda, quella dei killer che si iniettano il DNA delle vittime per scovarne le fragilità, consente all’autore di scavare nella psiche dei personaggi unendo così spessore psicologico ad una trama action mozzafiato.

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Ma l’intuizione vincete di Milligan è la consapevolezza di poter disporre, al tavolo da disegno, di un vero fuoriclasse, il disegnatore spagnolo ACO. Si tratta di un artista poco prolifico (oltre a numeri sparsi di Midnighter e Wonder Woman per DC Comics, memorabile è la miniserie di Nick Fury realizzata per Marvel su testi di James Robinson in cui aggiorna ai nostri tempi le atmosfere psichedeliche di Jim Steranko), ma di talento assoluto, un virtuoso dello storytelling che non finisce di sorprendere per le soluzioni grafiche mai banali offerte dalle sue tavole. Lo spagnolo alterna pagine (poche, in verità) in cui propone una divisione classica della tavola in griglie, salvo poi scardinare la narrazione demolendo l’ordine precostituito delle vignette. Al posto della struttura canonica delle pagine inserisce ovali, onomatopee e inquadrature sghembe che conferiscono ritmo e adrenalina alla narrazione già forsennata di Milligan.

Contribuiscono al risultato di grande impatto visivo le chine nette e precise di David Lorenzo mentre Dean White partecipa alla festa con la sue abituale palette di tonalità acide che lo confermano come uno dei migliori coloristi del settore.
Panini Comics presenta American Ronin con la consueta cura editoriale dei suoi cartonati da fumetteria, con un volume dall’ottimo rapporto qualità-prezzo che lascia il lettore in fervente attesa del capitolo successivo.

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