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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Avengers Omnibus: Il destino di Miss Marvel

Potrà sembrare strano ai lettori di comics di oggi, abituati a vedere le loro città tappezzate dai manifesti delle produzioni cinematografiche Marvel come Avengers: Age of Ultron, ma c’è stato un tempo, in Italia, in cui gli eroi della Casa delle Idee erano scomparsi dalle edicole italiane e le suddette produzioni milionarie, a cui oggi siamo abituati, erano relegate ai sogni febbricitanti di legioni di fan sconfortati e col lutto al braccio. Nel 1984 l’Editoriale Corno, la storica casa editrice milanese che nel 1970 aveva portato stabilmente i personaggi creati da Stan Lee nel nostro Paese, cessò improvvisamente le pubblicazioni. Un anno dopo la Labor Comics, meteora del panorama editoriale italiano, tentò un revival con uno sfortunato antologico durato due numeri, Marvel. Poi il nulla. Bisognerà attendere il 1987, anno in cui la neonata Star Comics, piccola e intraprendente casa editrice di Perugia, riporta nelle edicole italiane L’Uomo Ragno, dedicandogli la sua quarta serie italiana dopo le tre pubblicate dalla Corno. Dopo un inizio incerto, le vendite migliorano e la Star riporta nelle edicole gli altri personaggi del cosmo Marvel: I Fantastici Quattro, Hulk, gli X-Men, Devil (con i mirabili cicli, rispettivamente, di Chris Claremont/John Byrne e Frank Miller). Nel 1989, finalmente, la Star restituisce ai lettori italiani gli amati Vendicatori con il leggendario Speciale Vendicatori: Il destino di Miss Marvel.

Il lungo preambolo era necessario per sottolineare l’importanza di queste storie, che Panini Comics ripropone in un corposo Omnibus, nelle vicende editoriali dei supereroi Marvel in Italia. Il volume si può dividere fondamentalmente in due blocchi: le ultime storie pubblicate dalla Corno, illustrate principalmente da Byrne, e quelle immediatamente successive, disegnate da George Pérez, che oltre a raccontarci la triste vicenda di Carol Danvers/Miss Marvel vedono l’esordio di Taskmaster e il ritorno di Ultron. Parliamo in ogni caso di classici assoluti, di storie leggendarie che occupano un posto speciale della storia degli Avengers.
Nel primo blocco di storie i Vendicatori si trovano ad affrontare minacce differenti: la più subdola è rappresentata dalle ingerenze del governo nelle attività del gruppo, per mano dell’agente governativo Gyrich, che tenterà anche di imporre una sua personale formazione. Segue la fondamentale saga de Le Notti di Wundagore, imperniata sul viaggio di Quicksilver e Scarlet Witch nell’Europa dell’ Est alle ricerca delle loro origini: ma quando la donna sarà posseduta dal demone Chton, toccherà ai suoi compagni Avengers accorrere in  suo aiuto.

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La seconda parte dell’Omnibus ospita la storia che da il titolo al volume, una delle più controverse nei 75 anni di vita della Marvel, imperniata sullo strano caso di Carol Danvers, Miss Marvel, e della sua misteriosa gravidanza. La donna si ritrova improvvisamente incinta e, dopo una gravidanza durata poche ore, partorisce un bambino che nel volgere di pochi istanti cresce fino all’età adulta. L’uomo si rivela essere Marcus, figlio di Immortus, viaggiatore temporale e nemico storico della squadra, che rivela di aver rapito Miss Marvel e di averla trasportata nella dimensione del Limbo, di cui l’uomo era prigioniero; una volta resa la donna inconsapevole di quanto stava accadendo, aveva messo la donna incinta, trasferendo la coscienza nel feto. In sostanza, quindi, Marcus è figlio di sé stesso. Dopo aver sventato un dissesto spazio – temporale provocato dalle azioni dell’uomo, i Vendicatori acconsentono con una certa superficialità alla decisione di Carol, che nel frattempo dichiara di essersi affezionata a Marcus, di seguire il suo rapitore nel Limbo. La storia, all’epoca della pubblicazione, sollevò un polverone: il personaggio di Miss Marvel veniva infatti trattato come un oggetto sessuale, lasciato alla mercé del suo violentatore dai suoi compagni Vendicatori, i quali sembravano mostrare addirittura un certo compiacimento per l’improvvisa gravidanza. Una delle reazioni più sdegnate fu quella di Claremont, al tempo sceneggiatore della collana personale di Miss Marvel, che mise alla berlina il comportamento inverosimile del resto degli Avengers. Non molto tempo dopo arrivarono le scuse ufficiali di Jim Shooter, editor in chief della Marvel e uno dei co-sceneggiatori della storia, che diede la colpa ai troppi rimaneggiamenti subiti dallo script, definendo il risultato finale “un gran pasticcio”. Chris Claremont scriverà poi una bellissima storia “riparatrice” in Avengers Annual 10, con la quale si chiude il volume, in cui Miss Marvel affronterà con condivisibile durezza i suoi ormai ex compagni Avengers.

Ai testi, oltre ai già citati Shooter e Claremont, troviamo veri e propri numi tutelari della Marvel fine anni 70 – primi anni 80: David Michelinie (al timone del maggior numero di storie), Tom DeFalco, Mark Gruenwald, Steven Grant, Bill Mantlo e Roger Stern. Il gran numero di sceneggiatori all’opera non pregiudica però il risultato finale, che rimane comunque omogeneo. Svetta nel gruppo Michelinie, ai testi del classico Avengers 181, con l’ingresso di Falcon nel team a seguito della decisione governativa di introdurre nel team un membro appartenente ad una minoranza etnica: lo scrittore introduce così nel cosmo Marvel il concetto di pari opportunità, tematica più che mai attuale anche ai nostri giorni.
Michelinie riceve poi un valido assist ai testi da Gruenwald e Grant per il mini ciclo de Le Notti di Wundagore: sotto-trama costruita sapientemente nei numeri precedenti che esplode con la decisione di Scarlet Witch e Quicksilver di recarsi in Europa alla scoperta del loro passato. La saga stabilisce le origini definitive dei due gemelli mutanti, almeno finora: dopo il loro ingresso nell’universo cinematografico Marvel avvenuto in Avengers: Age of Ultron, le vicende di Wanda e Pietro Maximoff verranno modificate anche nei fumetti per rendere i personaggi più simili alle loro controparti fumettistiche. I testi di Michelinie sono lontani anni luce dai cervellotici intrecci dell’attuale gestione Hickman: ciò nonostante lo scrittore riesce a muoversi abilmente tra momenti di introspezione e grandiose scene d’azione, garantendo al lettore un intrattenimento popolare ma di ottimo livello.

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Come per i testi, anche il reparto artistico vede l’avvicendarsi di un folto numero di artisti: il contributo più significativo viene comunque fornito da John Byrne e George Pérez, all’epoca giovani promesse ma già avviati sul cammino che li porterà a diventare due tra le maggiori star del fumetto americano anni ’80. Byrne sforna già tavole di una bellezza estetica sublime, che non temono il confronto con quelle che lo stesso disegnatore canadese realizzerà da li a breve per Uncanny X-Men. Memorabile lo scontro con Crusher Creel sul fiume Hudson, con scene di gruppo perfettamente coreografate, come memorabile è tutta la sequenza del monte Wundagore, con la possessione di Scarlet e lo scontro con Chton e Mordred: uno dei migliori esempi di  Marvel Style del periodo. Le fattezze del suo Capitan America sono prese a prestito dalla più grande star cinematografica dell’epoca, Robert Redford; la sua Miss Marvel è una strepitosa Farrah Fawcett in maschera. Sebbene le matite di Byrne trovino nelle chine di Dan Green un buon completamento, è da segnalare l’apporto di Klaus Janson in due storie: il pennino del grande inchiostratore di Daredevil e The Dark Knight Returns conferisce fascino ombroso alle energiche matite del disegnatore, dando luogo ad un inedito e piacevole connubio artistico che purtroppo non avrà seguito. Lo stesso discorso fatto per Byrne si può applicare a Pérez: le tavole dell’artista portoricano sono forse più acerbe, ma dietro alcune incertezze già si intravede il grande illustratore di Crisis on Infinite Earths.

Le storie vengono presentate da Panini Comics in uno splendido Omnibus con la consueta cura editoriale; la sovracoperta ripropone l’iconica cover di Avengers #200 di George Pérez, scelta a suo tempo dalla Star per il suo mitico Speciale Vendicatori, che susciterà nei lettori di vecchia data più di un brivido di nostalgia.
Un volume imperdibile per scoprire, o riscoprire, i primi passi di due giganti del fumetto americano in storie che occupano un posto speciale nella saga pluridecennale dei Vendicatori.

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Gli anni 2000 saranno probabilmente ricordati, oltre che per l’avvento di una crisi economica che non accenna ancora oggi ad esaurirsi, anche come l’epoca dei reality show, fenomeno televisivo esploso alla fine degli anni '90 con la prima edizione del Grande Fratello olandese, dal cui format sono stati poi declinati i successivi cugini europei tra cui quello italiano. Parente prossimo del reality è il talent show, nato nel Regno Unito con la serie Got Talent e basato sulla rivalità tra aspiranti artisti, che spesso sfocia in contrasti violenti tra i concorrenti per assicurarsi il maggior numero di ascolti possibile. Il concetto di una società in cui la competizione tra individui scade in uno spettacolo becero e spesso violento, una sorta di darwinismo aggiornato all’epoca dei media, è stato spesso preso a prestito da cinema e letteratura (si pensi alla serie Hunger Games) e addirittura anticipato nel celebre romanzo di Stephen King The Running Man, da cui venne tratto negli anni '80 un bel film con Arnold Schwarzenegger.

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America’s Got Powers di Jonathan Ross e Bryan Hitch si inserisce nel solco tracciato da questi illustri predecessori, immaginando un talent show dove ragazzi dotati di super poteri devono sfidarsi affinché emerga il migliore tra loro. Ross e Hitch, inglesi, ambientano la vicenda negli Stati Uniti, in una immaginaria San Francisco teatro, 17 anni prima, di un singolare evento: un bagliore accecante dal cielo, preludio all’arrivo sulla Terra di una pietra capace di far partorire prematuramente ogni donna incinta nell’area interessata dall’evento e di dotare i nascituri di poteri straordinari. Anni dopo sarà proprio questa generazione di dotati a sfidarsi nell’arena di America’s Got Powers, show creato per sfruttare a fini di intrattenimento le capacità di questi ragazzi: ma dietro le quinte altri interessi, come quelli dell’industria bellica, sono in agguato.

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America’s Got Powers, come il talent da cui prende il nome, è un buon prodotto di intrattenimento, ma non così tanto da lasciare il segno. La sceneggiatura di Jonathan Ross, anchorman della tv britannica che non ha mai fatto mistero della sua passione per i comic book, imbastisce una trama che sarebbe ottima per un blockbuster hollywoodiano, ma che non si segnala per particolare originalità (l’evento che conferisce i poteri fa pensare sia a Rising Stars di J. Micheal Straczynski che al “white event” alla base del New Universe marvelliano degli anni '80). Il topos dell’outsider che scopre di essere il prescelto, poi, è un classico della letteratura e del cinema di genere, da Star Wars a Matrix. L’intento di confezionare una critica della degenerazione dell’intrattenimento televisivo dei nostri tempi, sarebbe anche lodevole, ma non è supportata dalla mancanza di spessore della sceneggiatura: ci sarebbero voluti, tanto per intenderci, i testi caustici e iconoclasti di Mark Millar, che aveva fatto faville con Bryan Hitch sull’ormai classico The Ultimates della Marvel. Nella seconda uscita, che contiene i numeri 2 e 3 della miniserie originali, il mistero della pietra aliena si infittisce cosi come le trame dei militari, determinati a sfruttare i poteri dei ragazzi per fini bellici: ciò nonostante, i testi poco ispirati di Ross non riescono a far decollare America’s Got Powers oltre la dimensione di un pop corn movie estivo piacevole, ma già visto.

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La scarsa brillantezza della sceneggiatura è fortunatamente compensata dal reparto artistico, grazie alle matite di un Bryan Hitch tornato finalmente a buoni livelli, dopo la non felice prova del crossover Age of Ultron: libero da scadenze pressanti e assistito dai suoi due inchiostratori abituali, Andrew Currie (Ultimates) e Paul Neary (The Authority), Hitch torna a realizzare tavole spettacolari e dettagliate (l’arrivo di Tommy all’interno dello stadio, le battaglie nell’arena). Non siamo ai livelli delle matite di Authority e Ultimates, realizzate con spettacolare uso di tavole orizzontali a mimare lo schermo cinematografico (e per le quali è stato coniato il termine widescreen comics), ma il risultato è comunque più che apprezzabile. Panini Comics sceglie di serializzare l’opera in 4 albi prestige da 48 pagine, con una carta patinata che valorizza al meglio i colori del veterano Paul Mounts.
Prime due uscite tra luci ed ombre per la serie di Ross & Hitch, dalla quale era lecito aspettarsi qualcosa di più.

Moon Knight 1: Dalla morte

Anticipate dalla recensioni entusiaste della critica americana e dalla calda accoglienza riservatagli dal pubblico d’oltreoceano, sono finalmente arrivate anche in Italia le storie di Moon Knight prodotte dal duo Warren Ellis (testi) e Declan Shalvey (disegni). Attesa ripagata per un ciclo di storie che si avvia a diventare un classico moderno. Dopo la trasferta losangelina narrata nel ciclo di Brian Micheal Bendis e Alex Maleev, Ellis riporta il Cavaliere Lunare nella Grande Mela, ambiente più consono per il personaggio e per le storie dal tono noir che lo scrittore inglese è interessato a raccontare.

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Come nei cicli più ispirati della sua carriera, Ellis si avvicina al character di cui si appresta a raccontare le vicende rispettando la tradizione del personaggio, ma allo stesso tempo sconvolgendone lo status quo e proiettandolo nel futuro. Lo scrittore inglese opta per lo stile asciutto e infarcito di azione, simile ad un episodio del serial 24, da lui inaugurato con Global Frequency durante il suo periodo alla Wildstorm e utilizzato ancora durante il suo breve ciclo di Secret Avengers. Proprio in queste storie Ellis cominciava la sua marcia di avvicinamento al personaggio di Moon Knight, ridefinendone il look grazie alle matite di Micheal Lark nella storia Aniana e trasformandolo da problematico vigliante notturno in preda a una perenne crisi di identità a risoluto agente segreto. Ellis porta a compimento l’opera di trasformazione del personaggio in questo volume: viene sancito definitavamente che la teoria che stava alla base di tutte le precedenti versioni del personaggio, cioè che il Cavaliere Lunare fosse afflitto da DDI (Disturbo Dissociativo dell’Identità), era sempre stata errata. Moon Knight è stato davvero scelto da una entità ultraterrena per essere il suo agente nel nostro mondo, e il suo cervello ha creato identità diverse per accettare quello che alla ragione umana risulta inspiegabile.

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Ellis non rompe con la tradizione del personaggio: c’è sempre il crociato notturno di bianco vestito, l’aliante a forma di mezzaluna, il dio egizio Khonshu… ma tutto è completamente diverso.  Se con Stormwatch aveva trasformato una serie di scarso successo incentrata su un supergruppo non troppo originale nella serie più influente e imitata degli anni '90 e primi anni 2000, con Moon Knight lo sceneggiatore inglese compie l’ennesimo strabiliante rinnovamento di un franchise che sembrava aver ormai giocato tutte le sue carte. I dialoghi taglienti come rasoiate, lo script che catapulta immediatamente il lettore nel vivo dell’azione senza inutili fronzoli, sono il marchio di fabbrica di un Ellis che segna un distacco profondo dallo stile prolisso e, come è stato definito dalla critica, decompresso, di Brian Micheal Bendis, deus ex machina dell’ultimo decennio del Marvel Universe e ultimo sceneggiatore ad essersi cimentato con le avventure di Moon Knight prima dell’avvento dell’autore inglese. In ultima analisi, quello operato di Ellis è l’aggiornamento brillante di un topos, quello del Cavaliere Solitario che arriva in città per portare la giustizia e raddrizzare i torti, l’escluso rancoroso verso il sistema che opera ai confini della legge, togliendo le castagne dal fuoco ad istituzioni ormai inadeguate.

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Il risultato finale, però, non sarebbe potuto essere ugualmente entusiasmante senza le tavole di Declan Shalvey, giovane disegnatore irlandese fattosi notare precedentemente con Thunderbolts e Deadpool. Le pagine di questo volume di Moon Knight ci parlano di un talento puro, uno dei più cristallini tra quelli emersi sulla scena fumettistica degli ultimi anni. Le illustrazioni di Shalvey accompagnano la sceneggiatura di Ellis con uno storytelling fluido ed essenziale, che riesce nel compito, non facile, di tradurre in immagini lo stile narrativo dello scrittore. La composizione tradizionale della tavola lascia spesso il campo ad ardite soluzioni sperimentali che lasciano di stucco il lettore: il climax dell’arte di Shalvey viene toccata nella quarta storia del volume, Sonno, dove la rappresentazione onirica della dimensione del Sogno raggiunge vette di eccellenza artistica inusuali per un comic book seriale, quasi da avanguardia. Menzione d’onore per i colori densi di Jordie Bellaire, completamento ideale ai disegni di Shalvey.

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Moon Knight: Dalla Morte rappresenta una felice eccezione nella produzione Marvel più recente, dominata da logiche commerciali e da una certa sudditanza nei confronti della propria divisione cinematografica. Ellis & Shalvey confezionano un manuale in sei capitoli su come si possono (e, aggiungerei, si devono) realizzare i fumetti di supereroi nel 2015, rendendo degli stereotipi ormai ampiamente abusati nuovamente freschi ed originali. Particolarmente felice poi la veste editoriale scelta della Panini, un elegante volume cartonato dal costo contenuto che ci sembra il modo ideale di presentare questo primo, vero must have del 2015.

Zenith 1 Fase Uno

Ci sono opere che, a volte involontariamente, a volte per precisa volontà del proprio autore, incarnano lo zeitgeist, lo spirito del momento storico in cui sono uscite. Opere che, quando finalmente le leggi, ti sembra di averle già lette, ma solo perché quel materiale era ispirato proprio da queste opere. Se entambe le affermazioni possono essere accolte quando si parla di un classico ritrovato come il Miracleman di Alan Moore, di cui Panini Comics da circa un anno propone la splendida ristampa rimasterizzata, lo stesso possiamo senza dubbio dire di Zenith, opera seminale di un giovane Grant Morrison raccolta dalla stessa casa editrice modenese in eleganti volumi cartonati, il primo dei quali è arrivato sugli scaffali delle fumetterie da pochi giorni.

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Uscita per la prima volta a puntate nel 1987 sulla prestigiosa rivista 2000AD, vera e propria palestra per un nutrito gruppo di giovani autori inglesi che tra la metà degli 80 e i primi anni '90 tenteranno il grande salto nel fumetto americano, come gli stessi Moore e Morrison ma anche Alan Grant e Pat Mills, Zenith raccontava cosa volesse dire essere un giovane supereroe negli anni '80 dominati dall’edonismo, dall’estetica da videoclip, e dai tormentoni da classifica pop realizzati da scaltri produttori come Stock-Aitken-Waterman per idoli dei teenager come Rick Astley e Kylie Minogue. Modellato sulle sembianza del divo per una stagione Nick Kamen, one hit wonder dell’epoca, ma dotato del sarcasmo graffiante e del ciuffo ribelle di Morrissey, idolatrato leader degli Smiths, Zenith è un supereroe pigro e svogliato, lontano anni luce dal binomio power & responsability di marvelliana memoria, che si preoccupa solo di apparire sulle copertine e scalare le classifiche con i suoi album e singoli di musica pop. Non è un campione del popolo, a parte quello di MTV; non combatte per le ingiustizie, occupazione a suo modo di vedere dannosa che ha condotto ad una morte misteriosa i suoi genitori, eroi degli anni '60 appartenenti al supergruppo Cloud 9. Non potrà però sottrarsi a lungo alle sue responsabilità, quando il ritorno di una minaccia del passato lo costringerà a scendere in campo.

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Morrison parte dal classico materiale della DC e Marvel delle sue letture d’infanzia e adolescenziali, omaggiandolo (il protagonista sembra essere uscito fuori da una versione anarcoide dei Teen Titans, la celebre serie DC sui sidekick, gli aiutanti dei supereroi adulti; l’antagonista, il superuomo nazista Masterman, è un omaggio diretto ai fumetti bellici di Roy Thomas, in particolare il marvelliano The Invaders), ma contaminandolo con una visione post punk fortemente anti-sistema. Sferzante la critica diretta alla politica del governo Thatcher, origine di tensioni sociali, che sembra creare le condizioni per l’invasione della nostra realtà da parte di creature demoniache di lovecraftiana memoria, ma bassa anche la considerazione per i politicanti, casta abietta dedita alla spartizione del potere, a cui partecipano anche vecchi e celebrati campioni del popolo, come il vecchio eroe Peter St. John, che una volta eletto volta le spalle ai bisogni della gente.

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Deciso a non ricalcare le atmosfere plumbee del Watchmen di Alan Moore, Morrison da una parte opta per uno stile in grado di riprodurre, come da lui stesso affermato, “l’ariosa superficialità della cultura pop degli anni '80”, dall’altra non sfugge al ruolo di attento critico della politica e della società di quegli anni. Lo sceneggiatore raffigura con spietata sincerità un mondo post ideologico, in cui la speranza di un mondo migliore è fallita con la sconfitta del flower power e la contemporanea scomparsa dei supereroi degli anni '60, mentre i nuovi eroi, come Zenith, possono solo combattere per un posto nel talk show del conduttore Jonathan Ross (oggi anche autore di comics, di cui è uscito in questi giorni in Italia il primo lavoro, America’s Got Power, a chiusura di un cerchio ideale) o per conquistarsi un servizio fotografico sulla rivista The Face. Un Morrison in grande spolvero insomma, pronto a lanciarsi alla conquista degli States col suo successivo incarico, e primo per una major americana, Animal Man. Al reparto grafico ottimo lo storytelling di Steve Yeowell, che diventerà un collaboratore abituale di Morrison in avventure americane come The Invisibles e Skrull Kill Crew.

Un’opera nata negli anni degli yuppies e del liberismo sfrenato, ma mai tanto attuale.

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