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S.

S. (Coconino Press, brossurato, 112 pagine a colori, € 15,00) testi e disegni di Gipi

Come può un titolo provvisorio divenire definitivo? Come può un sussurro in metropolitana diventare un grande progetto? Eppure la genesi di S. è legata alla provvisorietà e alla frammentarietà. L’idea di farne un fumetto, nata subito dopo la morte del padre, parve di primo acchito al suo autore quasi un insulto alla memoria dell’estinto. Essa invece si fece sempre più largo nel confuso cassetto delle idee per poi venire fuori su una caotica linea della metropolitana per bocca dell’editor francese di Gipi.

Ultima graphic novel dell’artista pisano, S. si configura come risultato di profonda maturazione e sintesi estrema di parole e disegni ed è già al suo apparire un’opera di forte impatto emotivo. Nata dall’esigenza di raccontare la vita del suo «babbino» da un’angolazione che evitasse l’idealizzazione e l’apoteosi della "figura paterna" dopo la morte, Gipi ha voluto intenzionalmente consegnarci un ritratto del padre così come appariva ai suoi occhi di bambino durante le affascinanti affabulazioni sulla guerra, sulla madre, sullo zio Piero e sulle mille avventure, banali e straordinarie insieme, che fanno la vita di una persona normale.

L’opera è contrassegnata da uno stile "volutamente trascurato": ellissi, anacoluti, parole cancellate e lasciate a bella posta per il lettore, uso insistito della paratassi e, altre volte, uso sovrabbondante dei segni d’interpunzione che marcano le pause e le sospensioni del discorso, del racconto fatto di ricordi e flash-back. Ricorrendo a lunghe didascalie, Gipi spiega e introduce una sequenza, una situazione con riferimenti ad un “lessico famigliare” a cui l’autore rinvia ammiccando al lettore: «Lui risponde a suo modo. (E a questo punto dovreste essere in grado di indovinare come.)». Il volume si costruisce per capitoli che seguono esclusivamente il filo del ricordo da diversi punti di vista. L’artista presta immediatamente, sin dalle prime pagine, la sua voce al padre per poi presto riprendersela prepotentemente e dare la sua versione dei fatti, la sua interpretazione fatta di altri ricordi, di sovrapposizioni di voci e di memorie. Prendono via via la parola, dunque, la madre − sempre mediata dalla voce del piccolo protagonista −, definita come la «fidanzata» per non togliere lo spazio al vero protagonista della storia (e per evitare forse che il figlio ne diventi troppo presto il sostituto), la zia Alfonsa, con i suoi ricordi nitidi del bombardamento su Pisa del ‘43, forse meno eroici e interessanti di quelli del padre, lo stesso Gipi, che a volte sembra spazientirsi un po’ tra le pagine per poi ritornare a defilarsi.

Alla fine della lettura viene consegnato un ritratto umano più che veritiero dell’uomo che salvò un altro uomo rimettendo a posto, in un buco della testa, pezzi di cervello a caso «perché non è un dottore», o l’immagine in cui «cammina (solitamente) fintamente sconsolato» per guadagnarsi le simpatie dei pescatori del posto − grazie anche alla complicità di «due piccoli pesci attori» − e farsi così confidare i segreti della pesca, i posti dove pescare più abbondantemente. Per questa ragione nell’opera si alternano parti grottesche e surreali ad altre drammatiche e amare. La volontà stessa di dare la possibilità, ancora una volta, al padre di raccontare le sue storie in una dimensione da fumetto, e da cui quindi normalmente verrebbe escluso, viene presto negata perché l’autore sente che è tempo di riappropriarsi del proprio modo di raccontare, di parlare a suo modo e di lasciarsi indietro il fantasma della morte che aleggia evidentemente, nonostante i passi più divertenti e leggeri, su tutta l’opera.

L’ossessione della scatola con le ceneri del defunto, che compare, non a caso, tra le ultime pagine, può essere superata solo dopo questa prova di scrittura, che è catartica e liberatoria, pur nello sforzo e nel dolore del ricordo. E, mentre la scrittura si fa più cosciente e controllata, ecco che arriva il superamento della paura irrazionale e l’elaborazione che permette «di mandare all’aria, nel vento, come merita, questo scemo» perché il ricordo, a questo punto, non è più paralizzante e permette di superare anche il dolore per la morte del padre, grazie all’«amor che cura più d’ogni cura» (come si legge nel bell’esergo al volume). I disegni acquerellati, che sfumano volutamente i contorni del pennino nero, diventano qui, più che in altre opere dell’artista, l’equivalente della parola annebbiata dalle incertezze del ricordo e dello sguardo rivolto al passato. Lo scatolone che contiene l’urna funeraria del padre appare, per contro, in bianco e nero, delineato da un tremolante contorno nero che restituisce realisticamente e impietosamente al lettore persino le pieghe dello scotch e le scritte della réclame. Si legge infatti che da due anni la teca è conservata sulla libreria, in attesa di essere aperta e consegnata al mare. Altrettanto significativamente, le ultime due pagine non contengono alcun disegno, ma solo didascalie. La dimensione del ricordo è ormai annullata, esiste solo il qui e ora: è il momento della resa dei conti, della presa di coscienza della realtà. Bisogna uccidere il padre per sopravvivergli.
In questa bella ed ennesima prova che è costata fatica e impegno, Gipi ha dimostrato senza dubbio di essere cresciuto, di aver trovato la propria confacente forma di espressione, di avere avuto il coraggio di affrontare i fantasmi e di scacciarli, se occorre. Il nome del padre, infatti, cripticamente chiuso in quell’iniziale che ha dato anche il titolo all’opera, si chiarisce solo nella dedica finale che è anche un ringraziamento e un omaggio agli affetti familiari, a quella «fidanzata e alle sue figlie» che lo hanno accompagnato lungo il seppur doloroso percorso di crescita e maturazione.

 



Nadia Rosso
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