Nel pensiero comune gli anni ’80 sono un decennio associato al disimpegno e al divertimento. Nominandoli si pensa subito ad emittenti televisive private, telefilm americani, film per ragazzi, canzonette di successo usa e getta. Neanche un regista impegnato come Luca Guadagnino, dovendo ambientare il suo splendido Chiamami col tuo nome in quel periodo, ha resistito alla tentazione di inserire nella colonna sonora un inno tamarro di quegli anni, Paris Latino dei Bandolero. Completamente diverso è il rapporto tra i lettori di fumetti, soprattutto a stelle e strisce, e quella decade tanto bistrattata. Parlare di anni ’80 per un consumatore di comics significa gonfiare il petto di orgoglio e snocciolare al proprio interlocutore una serie infinita di traguardi conseguiti, sia per la maturità raggiunta dal mezzo fumetto, sia per la considerazione guadagnata presso la pubblica opinione. Mentre il resto del mondo balla al ritmo di motivetti dance che verranno presto dimenticati, nel mondo del fumetto angloamericano si fa dannatamente sul serio.
Sono gli anni in cui un giovane inglese di nome Alan Moore fa a pezzi la figura del supereroe, inaugurando un non-movimento che verrà ricordato col nome di revisionismo. Gli anni in cui un ragazzo del Vermont di nome Frank Miller porta il linguaggio della scuola dei duri alla Mickey Spillane nel fumetto, suscitando l’attenzione di una bibbia della cultura pop come Rolling Stone all’indomani del successo di The Dark Knight Returns. Ma sono anche gli anni in cui il fumetto americano attraversa una riscossa estetica, rappresentata dalla definitiva affermazione di giovani illustratori che avevano debuttato durante il decennio precedente. Si va dalla minuziosa matita di George Pérez, capace di cesellare un’infinita schiera di personaggi in un’unica tavola, alla forza esplosiva del tratto di Walter Simonson, passando per il talento avanguardistico di Bill Sienkiewicz. Eppure, senza nulla togliere a questi grandi artisti, se c’è stato un disegnatore per eccellenza in quegli anni capace di suscitare ammirazione per la bellezza e l’eleganza dei suoi disegni, per i suoi eroi e le sue eroine dotate di un’avvenenza impossibile, quasi neoclassica, quel disegnatore risponde al nome di John Byrne.
Parlare dell’importanza di John Byrne nella storia del fumetto americano è quasi ridondante se si ha familiarità col genere. Il suo stile, inarrivabile sintesi tra la potenza di John Buscema e la raffinatezza di Neal Adams, colpisce subito per modernità i lettori, che lo eleggono loro beniamino. Tutto quello che Byrne tocca diventa oro e viene baciato dal successo: d’altronde è impossibile non soccombere alla plasticità e alla presenza scenica delle sue figure, nonché al taglio cinematografico e a una costruzione della tavola avanti anni luce rispetto ai molti mestieranti e faticatori del tavolo da disegno al lavoro in Marvel in quel periodo. La sua stella attraversa il comicdom statunitense come una supernova, brillando con maggiore intensità tra la fine degli anni ’70, in cui inaugura la celeberrima collaborazione su Uncanny X-Men con Chris Claremont, regalando ai lettori gemme come La Saga di Fenice Nera e Giorni di un futuro passato, e gli anni ’80, il periodo della definitiva affermazione come autore completo con un ciclo quinquennale di Fantastic Four che rivaleggia con quello storico di Stan Lee e Jack Kirby, prima del litigio con Jim Shooter che lo porta ad abbandonare la Marvel e a trasferire armi e bagagli alla DC Comics.
Presso la Distinta Concorrenza il fumettista inanella una nuova serie di successi, tra cui spiccano ovviamente il rilancio di Superman, di cui ricrea la mitologia aggiornandola ai tempi moderni con la miniserie Man of Steel, e Legends, altra mini propedeutica alla formazione della prima Justice League post – Crisis. Ma Byrne negli anni a seguire avrebbe fornito altri contributi alla mitologia del DC Universe, non altrettanto celebri e fortunati come le opere citate ma meritevoli di una riscoperta. A questo proposito ci viene in soccorso l’ultimo volume della collana I Grandi Maestri, edita da RW Lion, dedicata proprio al grande artista anglo-canadese.
In questa ricca antologia troviamo raccolti excursus minori di “Big John”, a zonzo negli angoli più disparati del cosmo DC, che fotografano momenti diversi nella carriera dell’autore. Il volume si apre con un interessante “annual” dei New Teen Titans, che nei primi anni ’80 era la serie di punta della DC Comics, l’unica capace di rivaleggiare in termini di popolarità con gli X-Men della Marvel. Per quanto lo script imbastito dallo sceneggiatore Marv Wolfman non sia particolarmente degno di nota, la storia fornisce a Byrne l’occasione per disegnare alcuni beniamini del pubblico come Nightwing, Starfire, Wonder Girl e Cyborg, e per vedere le sue matite chinate da una leggenda DC come José Luis García-López.
Dopo un paio di storie brevi per Outsiders, Green Lantern Annual e lo special natalizio Christmas with the Super – Heroes, per il quale realizza una bella storia muta con protagonista l’aviatore Enemy Ace, inchiostrata da un giovane Andy Kubert, il primo squillo del volume è rappresentata dal notevole Secret Origins Annual 1 del 1987 in cui, su testi di Paul Kupperberg, Byrne riportò in scena la mitica Doom Patrol, bizzarro gruppo di reietti creato da Bob Haney e Arnold Drake nel 1963. Simili nel concept agli X-Men della Marvel, con i quali condividono l’anno di debutto, i membri della Doom Patrol sono emarginati dalla società a causa del loro aspetto, frutto di incidenti che gli hanno comunque donato poteri incredibili. Riuniti e guidati dal Professor Niles Caulder, anch’egli vittima di un incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle, Cliff Steele (Robotman), Rita Farr (Elasti-Girl) e Larry Trainor (Negative Man) affrontano avversari di volta in volta più bizzarri. In questo numero di Secret Origins, un malinconico e solitario Cliff Steele ripercorre col pensiero la storia della Doom Patrol e gli eventi che hanno portato allo scioglimento del gruppo. Non sa che è osservato da una sua ex-collega e che una reunion della squadra è alle porte. Storia piacevolissima, di stampo classico, disegnata da un Byrne in formissima che cura anche le chine. L’albo darà il via ad una nuova serie della Pattuglia, che dopo pochi mesi ne ospiterà la celebre versione surrealista di Grant Morrison passata alla storia del fumetto.
In un volume pieno di chicche, una in particolari spicca più delle altre. Si tratta di Batman: Ego-Trip, graphic novel in bianco e nero originariamente pensata per la pubblicazione in 3D, uscita nel 1990 nel pieno della bat-mania causata dal successo a livello planetario del lungometraggio di Tim Burton dell’anno precedente. Si tratta di una storia di classico stampo poliziesco. Il Cavaliere Oscuro indaga sull’omicidio di un milionario, di cui sono sospettati quattro dei suoi principali antagonisti: Joker, il Pinguino, l’Enigmista e Due-Facce. Solo uno è il responsabile, mentre il coinvolgimento degli altri è uno specchietto per le allodole. Batman ovviamente riuscirà a sbrogliare la matassa.
Ego-Trip si segnala per molteplici motivi d’interesse: innanzitutto è l’unica prova di Byrne come scrittore/artista sul Batman della continuity principale (l’autore aveva solamente scritto un breve ciclo di Batman per i disegni di Jim Aparo, mentre sia lo strepitoso team-up Batman/Captain America che la saga di Superman/Batman: Generations sono ufficialmente inseriti nella collana Elseworlds), ed è una prova notevole soprattutto dal punto di vista visivo. La storia viene proposta in uno splendido bianco e nero, ma essendo stata concepita per la pubblicazione in 3D, abbonda di splash-page e tavole mozzafiato in cui Byrne scatena tutta la potenza del suo tratto. Come in altri suoi lavori dello stesso periodo, il disegnatore usa la tecnica del duo-shade: si trattava di una procedura grazie alla quale l’artista disegnava e inchiostrava direttamente su cartoncino Bristol, trattato poi con un agente chimico che rilasciava sul disegno linee e punti d’ombra, a formare un piacevole effetto di chiaroscuro. Byrne fece un grande uso della duo-shade in questa fase della sua carriera, salvo poi abbandonarla con l’avvento della colorazione digitale. La resa finale mantiene comunque un certo fascino ancora oggi.
Il volume propone altri lavori interessanti dell’artista, a partire da Green Lantern: Ganthet’s Tale, one-shot del 1992 realizzato insieme allo scrittore di fantascienza Larry Niven. La storia introduce un personaggio che diventerà fondamentale nel canone di Lanterna Verde, il guardiano Ganthet, che chiede l’aiuto di Hal Jordan per debellare la minaccia di un guardiano rinnegato. Basata su un cliché tipico dell’intrattenimento di fantascienza come il viaggio nel tempo, Ganthet’s Tale è l’ultimo opera presente nel volume ad appartenere al “periodo d’oro” della carriera di Byrne. Siamo nel 1992, l’anno del debutto della Image Comics di Todd McFarlane, Jim Lee, Marc Silvestri, Erik Larsen e Rob Liefeld. In un mercato ormai dominato dai nerboruti e violenti antieroi del nuovo editore e dallo stile muscolare ed ipertrofico di questo nuovo e aggressivo consorzio di artisti, che pure conta Byrne tra i suoi numi tutelari, l’acclamato disegnatore di X-Men, Fantastici 4 e Superman sembra perdere per la prima volta il contatto con un pubblico che fino a quel momento lo ha seguito in ogni sua avventura professionale.
Nonostante sia stato un innovatore del fumetto mainstream, sia nello stile che nei contenuti, Byrne viene improvvisamente giudicato come un autore superato, nel contesto di un mercato drogato da mode che termineranno invece da li a breve. Ecco quindi i lavori contenute nell’ultima parte del volume, in cui non a caso l’autore produce delle storie volutamente demodé, recuperando personaggi e atmosfere vintage come il Flash degli anni ’40 o Hawkman, in una storia-tributo al mitico editor DC degli anni ’60 Julius Schwartz. L’artista che era stato un profondo innovatore del fumetto anni ’80 (basti pensare alla dignità conferita per la prima volta ai personaggi femminili, come la Susan Storm di Fantastic Four), seppure al motto di Back to the Basics, appare ora come un custode della classicità. Riletto col senno di poi, il suo è l’atteggiamento di un autore che non si sente più a suo agio in un settore che lo ha visto protagonista indiscusso fino a poco tempo prima, e le sue scelte artistiche di allora appaiono come il manifesto programmatico di un orgoglioso diniego a qualsiasi compromesso con le mode imperanti, anche se il risultato sarà la nascita di opere controverse (Spider-Man: Chapter One, X-Men: The Hidden Years e tutto l’ultimo periodo in DC).
Rimandando l’analisi della figura e delle opere di John Byrne a futuri approfondimenti, ci sentiamo di consigliare l’acquisto del volume de I Grandi Maestri a lui dedicato per conoscere alcuni passaggi meno noti, ma comunque significativi, della carriera di un autore fondamentale per la storia del fumetto americano moderno. E nel farlo, confidiamo nella buona volontà di RW Lion nel pubblicare finalmente nel nostro paese gli inediti di Byrne targati DC, prima tra tutti la sua lunga run di Wonder Woman: la prossima uscita del secondo film dedicato all’Amazzone ci sembra l’occasione perfetta.
Noi ci congediamo con le parole del collega e grande amico di John Byrne, Frank Miller, che nell’introduzione alla raccolta in volume dell’opus magnum byrniano, Next Men, scrisse: “Quando Hollywood e certi avvoltoi e parassiti decideranno che non c’è più sangue da succhiare, noi (artisti) rinasceremo. Il fumetto ha visto tempi anche peggiori di questo, e di fronte ha solo tempi migliori. Tempi migliori e fumetti migliori, realizzati da artisti veri, come John. Uno che rifugge le mode e va incontro ai classici.”