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Gachiakuta, recensione: arriva lo "sporco" shonen che cerca di ripulire il mondo

  • Pubblicato in Toon

La stagione estiva 2025 degli anime è iniziata, e il mondo ha gli occhi puntati sul nuovo prodotto di studio Bones, ovvero: Gachiakuta.
Con l'annuncio della presenza della creatrice Kei Urana al prossimo Lucca Comics & Games, e col manga che esce già da ottobre 2023 (in Italia per Star Comics), questa nuova opera ha sicuramente tutte le carte per sfondare nel nuovo panorama anime mondiale.

La storia, segue la vicenda di Rudo, un giovane ragazzo che abita i bassifondi di una città divisa esattamente in due classi sociali: da un lato i benestanti, chiamati "apostoli" e dall'altra i miserabili e gli emarginati, che vivono nella degenza appena sopra la soglia di povertà.
Rudo ha tutte le classiche caratteristiche di ogni protagonista shonen, abbandonato dal padre che era già considerato un criminale, un'unica amica che lo difende dai bulli e dalle dicerie, un senso di fame di giustizia.
Sua figura di riferimento è Regto che gli fa da padre e gli sta accanto, cercando di restare a galla in quel mondo dimenticato, in cui lui, da bravo ecologista, cerca di rubare dalla spazzatura del mondo di "sopra", pensando che i ricchi buttino via senza ritegno qualcosa che si può ancora aggiustare, e quindi, riciclare. Ma è un'attività ritenuta illegale, e per questo viene inseguito.
Da li a poco, la tragedia. Uno strano uomo mascherato uccide Regto, e viene accusato di omicidio proprio Rudo, che ha il suo sangue tra le mani. Viene quindi mandato giù nel baratro, nel mondo ancora più sottostante, una discarica profonda a cielo aperto dove una persona scompare dagli occhi e dalla memoria, e dove la grande massa di oggetti prendono vita.

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I primi due episodi dell’anime affrontano con forza temi profondi come il consumismo sfrenato, lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali e le crescenti disuguaglianze sociali. Un avvio promettente, che lascia intravedere l’intento di raccontare sì una storia shonen, ma con una consapevolezza tematica che lo distingue da molte altre produzioni del genere. Attraverso una narrazione ambientata in un mondo distopico, l’opera riflette chiaramente la realtà contemporanea, evidenziando problemi come un mondo sempre più in mano ai ricchi, dove le diseguaglianze sociali siano sempre più marcati, una situazione che fa soffrire ed arrabbiare Rudo.

I guanti, unico ricordo di Regto, diventano quindi una sorta di seconda pelle, un’armatura simbolica che separa il sé interiore da un ambiente ostile e ingiusto. Questi simboleggiano il ponte tra l’umano e l’oggetto abbandonato. Sono ciò che gli permette di toccare, manipolare, riscattare lo scarto. In un mondo dove i materiali di consumo diventano rapidamente spazzatura, Rudo, con i suoi guanti è colui che riesce a interagire con ciò che è stato rifiutato, a volte infondendogli nuova vita un concetto centrale nel folklore giapponese, come il "tsukumogami".

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Come dicevamo, questa produzione è di studio Bones, ma diretta dalla sua sussidiaria: Bones Film, creata nell'ottobre 2024 proprio per questo tipo di animazione. Alla regia troviamo Fumihiko Suganuma, apprezzatissimo per il film First Slam Dunk, e alla sceneggiatura Hiroshi Seko, già dietro Attack on Titan: Final Season, Chainsaw Man, e Jujutsu Kaisen. Alle musiche Tau Iwasaki, che abbiamo già visto su Bungo Stray Dogs.
La fluidità della animazioni che abbiamo già visto in My Hero Academia, sarà all'altezza di un'opera così oscura e distopica (ma molto reale)?. Lo scopriremo alla fine di questa prima stagione.

Voto: 7 e1/2

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Superman, recensione: la nuova vita del DCEU

  • Pubblicato in Screen

Comunque vada a finire in termini di successo al botteghino o di accoglienza della critica, a James Gunn bisogna almeno riconoscere il merito di essere riuscito a fare in modo che l’uscita di un film dedicato a Superman venisse di nuovo considerato un evento da non perdere. In effetti, complice anche la generale stanchezza verso i cinecomic, mostrata negli ultimi anni dagli spettatori, l’Uomo d’Acciaio pareva non essere più un personaggio in grado di spingere il pubblico a riempire le sale cinematografiche. Molti hanno accusato di questo il povero Zack Snyder, la cui visione troppo dark di Superman e soci (che, per inciso, a noi non è mai piaciuta) è stata, tuttavia, una precisa scelta stilistica, perfettamente in linea con le sue opere precedenti. In realtà, i veri colpevoli sui quali puntare il dito sono i dirigenti della DC Films, per l’approccio a dir poco dilettantesco con cui hanno cercato di fronteggiare i successi dei Marvel Studios, rischiando seriamente di ridimensionare pesantemente l’importanza di uno degli universi fumettistici più noti al mondo.

Tra i fattori che di sicuro hanno giocato a favore di Gunn ci sono la fama acquisita con i tre film dei Guardiani della Galassia e il buon lavoro svolto nelle sue prime incursioni in casa DC (il lungometraggio The Suicide Squad – Missione suicida e la serie televisiva di Peacemaker), ma non bisogna neppure sottovalutare l’accorta e intelligente campagna promozionale, che ha trovato nei coinvolgenti trailer usciti negli ultimi mesi la sua massima espressione. Proprio i trailer, però, hanno messo in evidenza una potenziale criticità della pellicola, dato che, anche gli osservatori meno attenti, per quanto distratti dalle trascinanti musiche di John Murphy e David Fleming (che omaggiano in maniera chiara quelle composte da John Williams e Hans Zimmer per le precedenti trasposizioni su grande schermo dell’Uomo d’Acciaio) hanno notato le brevi scene in cui compaiono altri supereroi in azione, il che ha ingenerato in alcuni il timore che il regista americano non riesca a fare a meno di utilizzare nelle sue storie un numero elevato di comprimari, con la conseguenza di annacquare la vicenda principale, pur di concedere un minimo di spazio a tutti. Qualche perplessità l’ha suscitata anche la presenza di Krypto, il cane di Superman, che è sembrato suggerire un tono del film eccessivamente leggero. Due motivi di preoccupazione che, purtroppo, vista la pellicola in anteprima, hanno realmente pesato negativamente sul risultato finale.

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Per quanto riguarda il primo punto, Mr. Terrific, la Lanterna Verde Guy Gardner, Hawkgirl (personaggio che nella trama non ha nessuna ragion d’essere) e Metamorpho vengono inseriti nella narrazione in maniera del tutto pretestuosa e senza una valida giustificazione, se non quella di permettere a Gunn di divertirsi con i suoi soliti siparietti comici, facendo apparire alcuni passaggi come una versione in salsa kryptoniana di Star-Lord e compagnia. Il paradosso è che a farne le spese è la redazione del Daily Planet, dove, tolti Lois Lane e Jimmy Olsen, altri comprimari storici – Perry White incluso - vengono mostrati quasi solo per accontentare i fan. A proposito di Krypto, invece, le sue scorribande faranno di sicuro la felicità dei bambini e forse sorridere qualche adulto di bocca buona, ma il minutaggio a lui dedicato doveva essere senz’altro inferiore. Tali mancanze, tuttavia, potrebbero essere considerate secondarie se la trama nel suo complesso dimostrasse di possedere uno spessore più elevato. Qualità che, al contrario, si palesa solo a tratti. Quando c’è da mettere il cuore davanti ai muscoli oppure occorre far emergere la purezza d’animo e il senso di giustizia del protagonista, Gunn torna a essere il fuoriclasse che conosciamo e stilare un elenco dei momenti della pellicola dove sono i sentimenti a farla da padroni sarebbe persino troppo lungo. Basti citare il commuovente finale, che non lascerà indifferenti neppure i più cinici tra gli spettatori.

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Se, però, parliamo delle parti supereroistiche vere e proprie, allora il discorso cambia, tanto che l’unica scena di combattimento degna di nota si esaurisce in una convenzionale scazzottata, quasi totalmente priva di pathos. Non possiamo, poi, non segnalare la scoperta intenzione del regista di utilizzare gli avvenimenti raccontati come metafora della società occidentale o di crisi geopolitiche tuttora di attualità. Il messaggio è così chiaro e netto che non è possibile fraintenderlo, ma, per quanto i temi affrontati siano assolutamente condivisibili (l’impiego delle fake news come fattore destabilizzante delle istituzioni, il dominio incontrastato del capitale, lo sdoganamento della guerra come mezzo per risolvere le contese), la maniera con cui vengono argomentati – soprattutto i riferimenti all’invasione dell’Ucraina e alla drammatica situazione di Gaza –  ci è parsa un po’ semplicistica, a tratti pure parodistica (si pensi al ridicolo dittatore in combutta con Lex Luthor), finendo addirittura per depotenziarli invece che metterli in evidenza.

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Venendo agli interpreti, sulla bravura di Rachel Brosnahan avevamo pochi dubbi, Superman ha solamente confermato lo straordinario talento di un’attrice, per la quale è facile presagire un futuro luminoso a Hollywood. La sua recitazione priva di sbavature viene abilmente sfruttata da Gunn per far emergere la Lois Lane arguta e determinata (ma anche fragile, a volte) che abbiamo imparato ad amare nei comic book. Lo stesso dicasi per Nicholas Hoult, che ha già avuto, in passato, un’esperienza significativa nei cinecomic, avendo impersonato il mutante Bestia in due film degli X-Men. Di lui è ben nota la capacità di tratteggiare character sopra le righe, estremizzandone gli aspetti distintivi. Non sorprende, quindi, la sua fenomenale performance nei panni di Lex Luthor. Un malvagio senza speranza, visibilmente compiaciuto della sua mancanza di scrupoli. Meno scontata, invece, la prova offerta da David Corenswet. Il giovane attore di Philadelphia, però, si è rivelato una scelta azzeccatissima, esibendosi in un’interpretazione dell’Uomo d’Acciaio che definire esemplare è poco, in particolare nei tanti passaggi in cui occorreva mettere in primo piano l’umanità del personaggio.
Per quanto riguarda il resto del cast, vale la pena citare solo Edi Gathegi, che, a dispetto di una caratterizzazione un po’ stereotipata, ci regala un Mr. Terrific più che dignitoso.

Superman è un film con luci e ombre, non il capolavoro in cui molti confidavano, benché la nostra sincera speranza è che siano le prime a risaltare, altrimenti per la tanto agognata riscossa dei cinecomic bisognerà attendere ancora a lungo.

Voto: 6,5

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Intervista a Hope Larson: viaggio a fumetti tra memoria, arte e adolescenza... e anni '90

In occasione del suo arrivo in Italia, abbiamo incontrato Hope Larson a Pomigliano d’Arco (NA), ospite del FLIP – Festival di Letteratura Indipendente, durante un incontro alla presenza di tanti ragazzi e ragazze. Illustratrice, fumettista e sceneggiatrice, Larson è una delle voci più originali del fumetto contemporaneo statunitense, oltre che vincitrice di due Eisner Awards e New York Times bestseller. L'artista ha esordito giovanissima nel mondo del graphic novel pubblicando opere di successo come La mia lunga estate e Vento del sud (Editrice Il Castoro), oltre che a Magia di sale, realizzata insieme alla disegnatrice Rebecca Mock per Tunué.

Nel corso della sua carriera ha collaborato anche con grandi realtà editoriali come DC Comics, firmando una run di Batgirl, e ha saputo costruire un linguaggio tutto suo, dove scrittura e disegno si intrecciano per raccontare in modo profondo e autentico l’adolescenza, l’identità e il cambiamento.

Prima del suo incontro al FLIP abbiamo incontrato Larson che ci ha parlato del suo ultimo libro Fa’ come vuoi (Tunué), un’opera personale e intensa ambientata negli anni ’90, dove sperimentazione grafica, prosa e illustrazione si fondono in un diario visivo che esplora la memoria, il desiderio di esprimersi e la forza dell’arte come strumento di crescita.

Si ringrazia la traduttrice del libro Martina Fermato per la collaborazione.

Ciao, Hope. Benvenuta in Italia. Quali sono le tue impressioni sul nostro Paese?
È la prima volta che vengo in Italia, ho vissuto un anno in Francia in passato. È tutto molto diverso dall'America, è tutto molto "vecchio" nel senso che lì l'architettura antica non esiste, è un Paese molto più giovane. Inoltre l'ho trovata molto più pedonale rispetto all'America. Una cosa strana che ho notato è che per esempio in America nessuno più fuma, mentre qui vedo molto gente fumare ed è molto strano per me.

Conosci qualche fumettista italiano o hai mai letto fumetti italiani?
No, purtroppo no. Ma mi piacerebbe molto avere dei consigli a riguardo.

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Parliamo di Fa' come vuoi, il tuo ultimo lavoro arrivato in Italia per Tunué. Come nasce l'idea per quest'opera? La protagonista Christine scrive un diario, elemento portante della narrazione. Ti sei ispirata a un diario che avvi da ragazza o l'ispirazione è arrivata altrove?
No, in realtà da giovane, né in qualsiasi altro momento, ho mai avuto un diario. Invece ho sempre avuto degli sketchbook. L'idea per il libro mi è venuta quando sono tornata nel quartiere in cui vivevo da una ragazzina, che è lo stesso in cui si trova Christine nel libro. Ho girato, camminato un po' in giro e ho lasciato che i luoghi mi suggerissero una storia.
La scelta per questo formato proviene dal fatto che lavoro professionalmente nel fumetto da 20 anni, e venivo da una sequenza di tre graphic novel consecutivi, quindi avevo bisogno di una pausa e di provare a fare qualcosa di diverso, di sperimentare, così come fa Christine nel suo diario.

Nel farlo, nello sperimentare e quindi utilizzare prevalentemente una scrittura in prosa (alternandola a illustrazioni e tavole a fumetti), è stato per te immediato o hai incontrato delle difficoltà? Quanto ti sei sentita a tuo agio nel farlo?
Sì, è stato molto complesso per me e non tanto per il fatto di utilizzare la prosa per la prima volta, ma per il fatto che fosse integrata, che dovesse interagire col disegno. Questa cosa ha creato non poche difficoltà. Sembrava di perdermi in tutte quelle parole perché ce n'erano molte di più di quelle che ero abituata a usare. Fortunatamente ho avuto un editor davvero meraviglioso che mi ha aiutata moltissimo a tagliare tutto ciò che andava tolto e così siamo riusciti a realizzare la storia che volevo raccontare.

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Per quanto riguarda invece le tecniche grafico-artistiche utilizzate, hai alternato stili molto diversi fra loro. Questo ha rappresentato un maggior stimolo creativo per te? Magari hai preso ispirazione proprio da quei sketchbook personali di cui mi accennavi prima?
Entrambe le cose. Volevo ispirarmi e sperimentare con questi stili, che probabilmente non avrei mai usato per un intero graphic novel. Sì, è stato molto stimolante e in realtà è proprio quello che volevo fare, cioè sperimentare e utilizzare tutti questi stili diversi che mi permettevano di fare un po' di tutto senza dovermi impegnare a farlo per 200 pagine. Questo è anche il primo libro che ho realizzato in digitale, l'ho scritto su un iPad. Stavo sperimentando con le possibilità di lavorare digitalmente perché finora avevo lavorato solo su carta e ho potuto provare le infinite opzioni offerte dal digitale che chiaramente la carta non ti dà.

La storia è ambientata negli anni '90. Oltre a darti la possibilità di attingere dai tuoi ricordi personali, quanto è centrale il periodo storico scelto per l'identità del racconto?
È chiaramente una storia che ho scritto anche per me stessa, in quanto ero un’adolescente negli anni '90 e volevo intenzionalmente essere nostalgica, mi sono presa questo spazio per essere nostalgica. Tuttavia, uno dei motivi principali per cui ho scelto di ambientare la storia in questo periodo è perché volevo che non ci fossero gli smartphone e quindi i messaggi, le interazioni continue, che ci fosse dunque spazio fra le interazioni, ci fosse la possibilità di sviluppare dei fraintendimenti o delle complicazioni che con la comunicazione immediata dei nostri giorni non esistono più.

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Nelle tue opere, l'arte ha sempre un ruolo centrale per l'affermazione dei tuoi protagonisti, che sia una forma d'arte collaborativa come la musica o più profondamente personale e riservata come il disegno, come appunto accade in Fa' come vuoi. Credi davvero che l'arte abbia un potere salvifico per le persone?
Sì, lo penso davvero, sinceramente. Io sono un'artista e di solito non mi sento a mio agio quando non sto creando, quando non sto facendo arte in qualche modo. Le persone parlano spesso di arte come qualcosa di terapeutico, come se si potesse sostituire alla terapia. Questa cosa mi dà molto fastidio, perché l'arte non si sostituisce alla terapia ma è un impulso umano e, sinceramente, non so dove sarei se non avessi questo nella mia vita. È un qualcosa che abbiamo dentro tutti noi e che ci permette davvero di andare dove altrimenti non sarebbe possibile.

Sono circa 20 anni che realizzi fumetti. Come pensi che il tuo approccio e la tua visione dell'arte siano cambiati da allora? Pensi di essere cambiata come artista? Cambieresti qualcosa dei tuoi primi lavori?
Ci sono alcuni libri che vorrei non aver scritto, ma allo stesso tempo non so se cambierei qualcosa tornando indietro perché tutte le cose che ho fatto, tutti gli sbagli che ho commesso, sono serviti a essere l'artista che sono oggi e ad aver lavorato su questi libri che invece amo e di cui sono orgogliosa.

Lavori sia da sola che in coppia con altre artiste, come Rebecca Mock e Brittney Williams. Inoltre, hai lavorato per un'azienda come la DC Comics su una run di Batgirl, quindi su un personaggio non tuo e inserito in un grosso universo narrativo. Preferisci avere totale libertà o ti stimola lavorare con altri artisti o per un personaggio e un'azienda per cui devi seguire determinate regole?
Tutti questi modi di lavorare hanno i loro pro e i loro contro. È una domanda difficile a cui rispondere. Penso che mi piaccia di più lavorare come autrice unica dove mi occupo sia della scrittura che dei disegni, ma lavorare con Rebecca Mock su Magia di sale e gli altri libri, lavorare insieme a questa artista virtuosissima, mi ha dato l'impressione di come sei lei attingesse a piene mani dal mio cervello tirando fuori quello che stavo immaginando, rendendo il libro graficamente migliore di quanto avrei mai potuto fare da sola.
Riguardo la DC, hai ragione, era davvero limitata perché lavoravo in un sistema aziendale e quindi avevo tanti paletti. Ma d'altro canto il personaggio di Batgirl ha decenni di storia alle spalle, con molti autori che hanno lavorato su di lei, ed è stato davvero divertente scriverlo perché era come mettere le mani in cesta di giocattoli e tirare fuori quello che volevo per scrivere il personaggio come volevo io.

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Hai lavorato sia per il pubblico middle grade che per quello YA. Hai mai pensato di scrivere qualcosa per un target più maturo?
Ho provato a lavorare a qualcosa per un pubblico più adulto, però mi rendo conto che in America non c'è tanto mercato per le cose che vorrei scrivere, quindi mi ritroverei alquanto isolata. Ma, a parte questo, io genuinamente preferisco scrivere per i più giovani che sono molto più empatici, quindi lo preferisco.

Un'ultima domanda riguarda il tuo futuro, cosa ci aspetta a noi lettori? Su cosa stai lavorando?
Cosa c'è nel mio futuro? Beh, sto sempre scrivendo e disegnando fumetti! Ho pubblicato un nuovo libro negli Stati Uniti all'inizio di quest'anno intitolato Very Bad at Math che parla di una ragazza delle medie molto scarsa in matematica e ora sto lavorando a un seguito sullo stesso personaggio.

Nella gallery in basso trovate un po' di immagini della mostra allestatita dal Flip.

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