Apocalisse, recensione: il Libro della Rivelazione secondo Castelli e Roi
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Quando nel corso del 2018 la Sergio Bonelli Editore ha inaugurato l’etichetta Audace con la miniserie di Deadwood Dick e il primo volume di Senzanima, nessuno si sarebbe aspettato di vedere, in un tempo così breve, un numero tanto elevato di nuove proposte, per di più progressivamente sempre più lontane dai fumetti generalmente associati alla casa editrice milanese. Per questo motivo, dopo aver assistito all’arrivo di filoni narrativi poco tradizionali (Cani sciolti, Darwin), a rivisitazioni moderne di personaggi storici (Mister No Revolution) e all’esplorazione di nuovi generi (K-11, Attica, Il confine), l’uscita di un volume come Apocalisse non avrebbe dovuto sorprenderci più di tanto. Invece, una volta iniziata la lettura, questa trasposizione a fumetti dell’opera di San Giovanni è apparsa, subito, come uno dei più insoliti e inattesi progetti del nuovo corso della Bonelli. È vero che avere al timone dell’opera due pesi massimi come Alfredo Castelli e Corrado Roi (autori rispettivamente di testi e disegni), tra gli alfieri riconosciuti del fumetto di qualità della casa editrice, sarebbe dovuto bastare a garantire al volume un buon successo di vendite, ma una scelta così coraggiosa e non priva di incognite, ha rappresentato ben più che una semplice scommessa editoriale. Crediamo, piuttosto, che essa debba essere intesa come la prova evidente dell’intenzione della Bonelli di voler, finalmente, sfruttare potenzialità, di cui, in passato, l’editore di via Buonarroti sembrava non essere consapevole: molti di coloro che hanno avuto la possibilità di visitare lo stand della Bonelli all’ultima edizione di Lucca Comics and Games, per esempio, saranno probabilmente rimasti letteralmente frastornati dalle tante novità a disposizione dei lettori, rispetto alla pur ricca offerta degli anni precedenti, che se da un lato continuavano a celebrare la tradizione (il “texone” di Claudio Villa, il numero 400 di Dylan Dog), dall’altro rendevano manifesta la volontà dell’editore di muoversi con decisione verso altre strade e, addirittura, di investire su altri media (ci riferiamo, ovviamente, al film di Dampyr, teorico apripista di un ambizioso universo cinematografico bonelliano). Quindi, sebbene non sappiamo se il lavoro di Castelli e Roi sarà in grado di raggiungere una platea così vasta da garantire, a breve, ulteriori esperimenti di questo tipo, l’idea che alla Bonelli non manchi (passateci il gioco di parole) l’audacia di avventurarsi su percorsi in cui il ritorno economico è tutt’altro che assicurato, rappresenta un forte segnale di vitalità per il fumetto italiano, a dispetto della scarsa attenzione tuttora riservatagli dalla cosiddetta cultura ufficiale del nostro Paese.
Questa lunga introduzione, pur se necessaria a sottolineare il favore con cui abbiamo accolto una svolta editoriale così importante, nasconde anche un altro scopo: ritardare il più possibile l’inizio della nostra analisi critica, di cui non neghiamo le difficoltà, e che, come sarà chiaro a breve, dovrà necessariamente vertere quasi esclusivamente sui disegni di Roi. Sulla sceneggiatura di Castelli, infatti, che coltivava questo progetto da anni, c’è ben poco da dire: gran parte di essa riprende con piccole variazioni il testo originale, o meglio, solo quella parte che il papà di Martin Mystère ha ritenuto essenziale a far sì che l’opera non venisse snaturata. Ora, decidere se la selezione operata dal vulcanico autore milanese sia stata corretta o meno non è certo un’impresa facile, soprattutto per chi, come noi, non può vantare nel proprio curriculum studi di esegesi biblica. Teoricamente avremmo potuto prendere in considerazione solo le brevi parti poste all’inizio e alla fine del volume (i passaggi, che, più di tutti, ricordano una storia del detective dell’impossibile), o gli intermezzi di poche tavole, con protagonisti illustri personaggi, che in tempi più o meno recenti si sono interessati al testo di San Giovanni (un escamotage utilizzato da Castelli probabilmente per venire incontro ai tradizionali lettori bonelliani, incautamente avvicinatisi a un’opera così complessa, solo perché attratti dal nome degli autori). Tali parti, però, non sono così estese da permetterci di utilizzarle per una valutazione complessiva, e, soprattutto, non sono altro che una conferma non solo della vastissima cultura di Castelli, ma anche della sua inesauribile curiosità, che, in tanti anni di carriera, gli ha permesso di attingere a qualunque fonte disponibile relativa a un determinato argomento e di utilizzarle a fini puramente narrativi.
Passando, quindi, ai disegni di Roi, difficilmente qualcuno avrebbe potuto immaginare un artista migliore di lui per dare forma al simbolismo profetico di San Giovanni, la cui interpretazione è, ancora oggi, oggetto di forti controversie. Le figure rarefatte, i giochi di ombre, i frequenti chiaroscuri, il magistrale utilizzo del bianco e nero, sono tutti elementi che il disegnatore varesino ormai padroneggia alla perfezione e che, oltre a essere diventati l’essenza della sua arte, in questa opera, risultano fondamentali a comunicare il forte senso di angoscia indotto dagli eventi che preludono alla fine del mondo. Un testo con queste caratteristiche, inoltre, che determina l’assenza di un preciso indirizzo iconografico, è l’ideale per un autore che ha sempre preferito atmosfere vagamente oniriche o al limite del surreale. Ma, proprio in virtù della considerevole libertà creativa a sua disposizione, Roi adotta anche due scelte stilistiche curiosamente controcorrente: innanzitutto, le stelle sono rappresentate in maniera quasi fiabesca, nella classica forma stilizzata a cinque punte, mentre per raffigurare la Luna, il disegnatore arriva addirittura a omaggiare un pioniere del cinema fantastico come Georges Méliès, un autore che nei suoi lavori non si è mai avvicinato ai temi trattati dal Libro dell’Apocalisse.
Bisogna anche sottolineare, tuttavia, che l’assenza, per larghi tratti, di una vera sceneggiatura, tende a penalizzare il lavoro di Roi, le cui tavole, a volte, sembrano più delle illustrazioni a corredo di un testo letterario, che reali pagine di un fumetto. In questo modo, però, il rischio è di scivolare nel puro esercizio di stile, che poco a che fare con la narrativa disegnata.
Non possiamo negare, infatti, che il risultato finale ci abbia lasciati un po’ freddini: sarà che non siamo abituati a pensare a un Castelli capace di rimanere quasi sempre nascosto dietro un semplice adattamento, ma il rischio che l’opera possa essere ricordata solo per i disegni di Roi è davvero molto alto.