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Maus, recensione

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Maus di Art Spiegelman su Amazon

Vladek Spiegelman, ebreo polacco sopravvissuto ad Auschwitz, viene intervistato dal figlio Art sui ricordi della guerra e della prigionia. Dalla sua memoria emergono le immagini affannate e dolorose del passato: l’incontro con la futura moglie Anja, madre di Art - suicidatasi molti anni dopo la fine della guerra - la vita in famiglia, la chiamata alle armi, il figlio Richieu - poi morto nei lager - le prime persecuzioni, i tentativi di sfuggire alla morsa dei nazisti, la cattura e l’internamento, la sopravvivenza disperata nel campo di sterminio, fino alla fine del conflitto, la liberazione e la riunione con Anja; tutto si riversa nel magnetofono di Art, a sua volta in difficoltà nel recepire appieno la portata di una tragedia che non lo ha toccato direttamente, forse inadeguato a descriverla e a gestire un rapporto difficile, quello col padre, pieno di incomprensioni e difficoltà di comunicazione.

Cercare di descrivere Maus a 26 anni dalla sua comparsa sulla scena fumettistica (il primo volume, infatti, uscì nel 1986 e il secondo nel 1991, sulla rivista Raw fondata da Art Spiegelman stesso) è estremamente difficile, non foss’altro per l’enorme impatto che esercitò alla sua uscita e che mantiene inalterato dopo tutto questo tempo. È un’opera che ha radicalmente modificato il modo di scrivere ed intendere i fumetti, aprendo nuovi orizzonti ad autori e lettori, e cercare di condensarne l’essenza in poche righe tentando di evitare la retorica è quasi un atto di presunzione.

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Amato, discusso, imitato da mille epigoni che non sono mai riusciti ad eguagliarlo, Maus si impone nella memoria collettiva a cominciare dalla trovata (citatissima in altre opere) di disegnare gli Ebrei come topi antropomorfi, i Tedeschi come gatti e, in generale, raffigurando ogni personaggio con fattezze di animale, a seconda della provenienza: i francesi sono rane, i polacchi maiali, i soldati statunitensi cani. Una scelta narrativa che, oltre a riportare il terreno dello scontro razziale al suo livello più intuitivo (il predatore e la preda) e, appunto, animalesco, permette anche a Spiegelman di raffigurare in maniera straordinariamente efficace la progressiva disumanizzazione cui sono sottoposti i perseguitati dal nazismo. Se all’inizio, infatti, è ancora possibile distinguere tra loro i personaggi - quasi privi di tratti fisiognomici - attraverso gli abiti e l’atteggiamento, nelle sequenze ambientate nel lager, in cui tutti sono disegnati con la divisa, diventano una massa amorfa e indistinta di prigionieri mandati al macello; prigionieri non solo ebrei, come dimostra la sequenza in cui Spiegelman, contravvenendo alle sue stesse regole, sceglie di raffigurare un tedesco detenuto nel campo, anziché con sembianze feline, con il muso di un topo (e sottolineando tale infrazione con il dialogo e il disegno), a dimostrazione dell’impossibilità di utilizzare le distinzioni di nazionalità per fare luce su un dramma in cui ci sono solo carnefici e vittime.

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Al di là del tema trattato e nonostante il taglio profondamente drammatico dei bellissimi disegni (effettuati con uno splendido tratto “graffiato” che ricorda l’espressionismo tedesco), Spiegelman ha il merito di evitare ogni tentazione retorica e pietistica ed affronta il suo racconto con una prosa asciutta, frequentemente interrotta da digressioni, flashback e ritorni al presente e talvolta con toni leggeri ed ironici, come quando descrive il proprio rapporto con il padre e le sue nevrosi. Mancano quasi completamente riferimenti alla politica e alle situazioni internazionali. L’avvento del nazismo è descritto nel suo impatto sulla realtà quotidiana e sull’ambiente familiare, con il progressivo mutare dell’atteggiamento della società e del mondo di tutti i giorni nei confronti dei perseguitati, più con sommessi mezzi toni che con scene spettacolari: una scelta narrativa che rende ancora più forte gli squarci di disumanità nel campo di Auschwitz e l’irruzione dell’orrore come una grottesca parodia del quotidiano (i cadaveri che “pavimentano” i gabinetti, il prigioniero falciato dal mitra che, osserva Spiegelman padre, muore come il cane idrofobo di un suo vicino di casa).

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Merito della riuscita dell’opera comunque, è in gran parte dello straordinario personaggio di Vladek: non un eroe e tantomeno un santo, bensì, semplicemente, un uomo non privo di tratti anche sgradevoli: avaro, nevrotico, ossessivo, razzista (con la gente di colore), quasi, come nota lo stesso figlio, l’incarnazione dello stereotipo dell’Ebreo secondo i canoni dei nazisti, ma descritto con modi e caratteristiche assolutamente credibili ed umane (e capace di reazioni repulsive ma comprensibili, come nella sequenza in cui, dopo la fine della guerra, gioisce alla vista di una casa di tedeschi distrutta dai bombardamenti, perché “così ricevono anche loro un po’ di quello che hanno dato agli Ebrei”); un essere umano che Spiegelman figlio elabora e restituisce in tutta la sua realtà quando, verso la fine dell’opera, inserisce fra i disegni anche una foto di Vladek in carne ed ossa. Un personaggio in gran parte incapace di conciliarsi con il proprio passato e che Art non riesce a comprendere, perché non condivide con lui il peso dei ricordi; quei ricordi che hanno portato al suicidio la madre (la cui memoria, analogamente a quella del nazismo con il padre, perseguita Spiegelman figlio, come evidenzia un racconto a fumetti, da lui portato a termine all’indomani della morte di Anja, che l’autore riproduce integralmente), e che Vladek cerca di esorcizzare bruciando i diari della moglie morta (che saranno, però, sempre presenti in lui finchè, come dice, le domande di Art glieli riportano in mente). Un filo di memoria che Spiegelman decide saggiamente di troncare proprio nel momento più gioioso della liberazione: il ricongiungimento con Anja, oltre il quale Vladek “più non può dire al figlio”, quando è bene che i registratori e i diari tacciano e che - come mostra la bellissima, straziante vignetta finale con la tomba comune di Vladek ed Anja - il tempo e il silenzio restituiscano i ricordi alla Storia.

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